11.

Pareggiò invece.

L’Imelina Besazzi, grazie alla nota finestrella, la vide sulla porta di casa, in attesa che Amabile Locitri le aprisse. Ne ascoltò anche le reciproche presentazioni, visto che le due donne non s’erano scambiate sino ad allora nemmeno mezza parola.

Avrebbe anche orecchiato ciò che avevano da dirsi. Per farlo si appiattì contro il muro della cucina che confinava con il salotto di casa Locitri, dove la padrona fece accomodare Bernice Pescegalli. Non riuscì tuttavia che a percepire qualche mormorio oltre all’uscita della Bernice quando ancora stava alla porta: «Vorrei parlarle come solo una madre può fare, col cuore in mano».

Amabile Locitri aveva reagito altrettanto teatralmente: «Non aspettavo che di incontrarla», poi l’aveva fatta accomodare.

Dopodiché, appunto, solo il mormorio di due donne che si confessavano bisbigliando e che, forse, ogni tanto, si lasciavano scappare qualche singhiozzo.

La Locitri raccontò della sua vita alle prese con i due uomini di casa. All’apparenza differenti ma in realtà il figlio uguale al padre.

«Ombroso, silenzioso, chiuso.»

Soprattutto quando le cose non giravano come in quel periodo.

«Appunto», si inserì la Bernice.

Perché anche sua figlia era come lei. All’apparenza serena, tranquilla, sempre allegra. Ma dentro, quando le cose non andavano per il verso giusto, un ribollio continuo che a lungo andare avrebbe portato a qualche malattia.

In situazioni come quelle solo due madri come loro, due donne che sopportavano le bizze del destino, potevano capire come agire e cosa consigliare.

«Pazienza», disse la Locitri chinando il capo e così mostrando come la sua chioma fosse rada, il casco d’oro un illusorio artifizio fatto da professioniste al fine di mascherare la penuria di capelli.

Pazienza.

Era così che lei aveva imparato, esercitandosi con quel marito di poche parole conducendolo dove voleva lei ma lasciandogli sempre l’impressione che fosse lui a decidere: ne era un buon esempio il loro arrivo a Bellano da Lodi, posto che lei aveva odiato in silenzio per la nebbia e la piattezza del paesaggio.

«Tuttavia è di vostro figlio che vorrei parlare», insisté la Bernice.

Non glielo aveva appena detto che era tale e quale al padre?, rispose Amabile Locitri.

Visto che riguardo all’aspetto fisico aveva preso in tutto da lei, si poteva equivocare.

Ma il carattere era quello paterno.

Difficile stargli attorno in momenti come quello attuale, quando la sua carriera di calciatore sembrava appesa alle bizze dell’allenatore. Il bel Salvatore aveva certo le sue colpe, pagava il suo carattere testardo, troppo caparbio e poco propenso al compromesso. Le stava scontando, forse oltre misura. Portava pazienza, mordeva il freno e attendeva il momento del riscatto.

«D’accordo», disse la Bernice.

Tuttavia lei era preoccupata per sua figlia. La povera Rosa non capiva più, e nemmeno loro genitori in verità, quali intenzioni avesse il giovanotto, seppure ne avesse.

Per uscire da quel purgatorio era necessario fare chiarezza, al limite dare un bel taglio netto e buonanotte ai suonatori.

«Perché mai?» obiettò l’Amabile, presa alla sprovvista e non sapendo cos’altro dire.

Perché rovinare tutto per un gesto d’impazienza, obbedendo ai cattivi consigli della fretta?

«Le intenzioni di mio figlio sono le più oneste del mondo», affermò l’Amabile con cristallina diplomazia portandosi una mano sul cuore di mamma.

Ci voleva solo un po’ di pazienza e dopo il brutto tempo il sereno sarebbe ritornato.

La Bernice uscì da quel colloquio sentendo di non aver né vinto né perso.

Appunto, pareggiato.

Il pistolotto sulla pazienza l’aveva convinta a portarne ancora per un po’. Forse, rifletté tornando a casa, rispetto alla Locitri lei ne aveva una concezione diversa.

Pazienza, d’accordo.

Da non confondersi però con ovina sottomissione e nemmeno come una risorsa dalle scorte illimitate.

Prima del commiato, le due donne s’era accordate affinché quel loro incontro restasse segreto.

In attesa degli eventi, s’erano dette.

Che a un certo punto sembrarono confermare la bifronte verità di proverbi e detti popolari come quello che Amabile Locitri aveva citato riguardo al bel tempo.

Domenica 18 novembre Salvatore Locitri infatti tornò in campo contro la Reggiana. Poco importava se il suo ritorno fosse da imputare all’indisponibilità per infortunio del titolare.

A contare fu la sua prestazione, impeccabile.

«Tra i migliori in campo segnaliamo il terzino Salvatore Locitri che ha dimostrato per tutto l’arco dei novanta minuti di aver ritrovato la forma dei tempi migliori», scrisse il giornale.

In casa Pescegalli il più entusiasta della notizia fu l’Emerito, che ribadì la fede in certi proverbi quando affermavano quello che lui voleva.

La Bernice frenò gli entusiasmi.

«Aspettiamo e vediamo.»

Pure Rosa si dimostrò di quell’avviso.

Cautela, e aspettare le mosse del Locitri adesso che i suoi problemi con l’allenatore sembravano risolti.

La rinascita sembrava alle porte, dopo l’inverno sarebbe tornato il bel tempo.

La famiglia Pescegalli, Rosa e Bernice in testa, era pronta a coglierne anche i più piccoli segnali, pronta a dimenticare le nuvole che avevano oscurato il cielo familiare e che ogni tanto oscuravano ancora l’altro, quello vero, perché la stagione era pazzerella, come dice il proverbio.

Dopo il suo rientro in squadra, titolare fisso viste le buone prestazioni, Salvatore Locitri aveva chiesto alla Pescegalli di portare pazienza ancora per un po’, che lo tollerasse se sembrava distante: temeva che al minimo errore quello, l’allenatore, lo segasse un’altra volta.

«E non posso permettere che accada», aveva affermato quasi alle lacrime.

In quell’occasione a Rosa la bellezza del giovanotto era sembrata insostenibile, le sue parole un succo di sincerità: se teneva così tanto alla sua carriera, lei era la prima persona che lo doveva aiutare, affiancare, tollerare quando le cose non giravano.

S’era fatta carico di riferirne le parole anche in famiglia, pregando i genitori di non nutrire dubbi sulla loro sincerità.

Fino alla fatidica domenica 14 aprile 1957, giorno dell’incontro Lecco-Prato.