Sentì che spussa, se drio rivar roba marsa» biascicò il garzone socchiudendo gli occhi.
Immersa in una notte di pece, la peata non era ancora apparsa all’orizzonte ma il fetore annunciava il suo avvicinarsi.
Le autorità avevano dato ordine di organizzare trasporti in piena notte per non allarmare la popolazione.
Un fruscio viscido a pelo d’acqua, uno sciacquio contro la riva e la prua della peata si materializzò nel buio. Il marinaio gettò una cima, il garzone la legò al palo.
«Quanti xeli?» chiese.
«Pocheti stavolta, do veci, una mare col so’ fiol e un sant’uomo» rispose il marinaio.
«Dio no varda in facia a nissun».
I due giovani sulla riva si spalmarono sulle tempie unguento di cedro e canfora, s’infilarono in bocca bacche di alloro e ginepro e si avvicinarono alla barca. Al collo penzolavano sacchetti gonfi di chiodi di garofano.
«Me par già beli che andati» commentò il garzone.
«Forsa, jutami» lo riprese l’altro.
Buttati uno sull’altro giacevano sul tavolato i corpi quasi senza vita di alcuni poveri cristiani con i segni evidenti delle febbri pestilenziali. Sollevarono un vecchio e lo buttarono sulla carretta. Aveva sulle braccia macchie rossastre e violette e sotto le orecchie due bubboni bluastri tendenti al nero, gonfi, pulsanti come sul punto di esplodere.
La donna, cadaverica e fradicia come un cencio bagnato, stringeva a sé un bambinetto mezzo nudo devastato da piaghe putrefatte che trasudavano liquidi giallastri puzzolenti di carne andata a male. Forse era già morto ma la madre non voleva lasciarlo, proteggendolo con il suo calore.
Finita l’operazione, i garzoni si misero alla testa del carretto trascinando il carico di morte verso l’hospitium di San Giacomo in Paludo.
Avanzavano piano, senza far rumore, per non destare sospetti. I trasferimenti avvenivano in segreto da Venetia dove erano scoppiati diversi focolai di quella che le autorità si ostinavano a chiamare solo febbre, a Olivolo, a Luprio, a Santa Marta.
In un’ala isolata dal corpo centrale era stato allestito un ricovero di emergenza per accogliere i casi sempre più numerosi di contagiati.
Il carretto cigolando arrivò alle porte dell’edificio in mattoni. Due novizie gli andarono incontro per aiutarli a trasportare i malati.
Anche se erano ormai abituate a quel tanfo di morte, le due giovani non poterono fare a meno di coprirsi la faccia con uno straccio.
Era un odore unico e indefinibile, dolciastro e marcio insieme, con venature di putredine che si attaccavano in gola e non ti abbandonavano più. Veniva in massima parte dal liquido infetto che usciva quando i bubboni scoppiavano. A questo si aggiungevano i miasmi dei salassi effettuati per ridurre la quantità di sangue nocivo e dei clisteri per eliminare i gas prodotti dalla putrefazione.
A nulla servivano i fumi che risalivano dai fuochi accesi nei bracieri, dove ardeva legna di quercia con aggiunta d’incenso e mirto.
Si occupavano dei malati alcune sante donne, monache, novizie, oblate, devote che avevano deciso di dedicare la loro esistenza al sacrificio e alla cura del prossimo.
Adagiarono i corpi sui pagliericci ancora impregnati del sudore dei poveri cristiani che avevano appena abbandonato il mondo.
La fossa comune scavata dietro l’edificio ormai conteneva a fatica i cadaveri sempre più numerosi.
Maria Bembo, una giovane monaca di nobile famiglia, che aveva scelto di occuparsi dei moribondi, si avvicinò alla donna che stringeva al petto il figlio. Un fazzoletto intinto di aceto sul viso come unica protezione dal contagio.
«Lasciatelo a me, sarà curato» mormorò con un soffio di voce e allungò le braccia per prendere il fanciullo.
La madre strinse il corpicino al petto ancora più forte.
«Fidatevi, è per il suo bene».
La donna parve capire. «Lo guarirete?».
Maria non rispose e con un gesto deciso trasse a sé il piccolo corpo. Era freddo, molle, si accorse subito che era morto da tempo.
«State tranquilla, cercate di riposare».
La donna chiuse gli occhi, quasi sollevata.
Maria attraversò lo stanzone con quel corpicino stretto al petto, tra lamenti, preghiere, urla di disperazione. Per un attimo pensò che avrebbe potuto essere figlio suo.
Uscì all’aperto e respirò l’aria calda che profumava di salsedine. L’umido della notte lasciava già spazio a una leggera brezza fresca spinta dai primi bagliori di luce che tingevano d’indaco l’orizzonte della laguna.
Raggiunse la fossa comune e posò il corpo sopra gli altri, poi si sfilò il velo e lo coprì, inutilmente. Un mucchio di terra lanciato dai becchini cancellò il volto. Maria si fece il segno della croce, recitò una breve preghiera e ritornò alle sue incombenze. Era quasi la prima ora e il compito assegnatole era di vitale importanza per la comunità: approvvigionare l’acqua per la giornata.
Con passo stanco si avviò verso il pozzo al centro del chiostro, il solo che serviva sia l’hospitium che il monastero ancora in costruzione.
L’area era deserta. La vera di pietra d’Istria, decorata sui lati con quattro croci greche, pareva sbocciare dal nulla, appena rischiarata da riflessi evanescenti. L’acqua scarseggiava, non pioveva da diversi giorni e le necessità dell’hospitium, ora che avevano accolto i malati della febbre pestilenziale, erano molto cresciute.
Prese il secchio legato a una cima e lo calò nella canna come faceva ogni giorno, all’alba.
Un tonfo sordo, poi il solito sciacquio. Lasciò sprofondare il mastello affinché si riempisse fino all’orlo. Ci stava mettendo più tempo del solito. Quando le parve pieno cominciò a tirare. Non riusciva a sollevarlo, era più pesante.
Diede uno strattone, la corda cominciò a scorrere con uno stridio fastidioso.
Quando raggiunse la bocca del pozzo tirò il secchio al petto, lo caricò sulla spalla e si avviò per svuotarlo nella vasca di pietra dove si raccoglieva l’acqua per uso esclusivo dell’hospitium. Fu nel momento in cui si accinse a versare che se ne accorse. In principio le parve un ciuffo d’erba spartina macerata dall’acqua, che si era attorcigliato alla corda. Allungò la mano per liberarla. Si fermò rabbrividendo. Un senso di disgusto le inacidì la gola. Con circospezione sfiorò la matassa: capelli, parevano capelli, lunghi capelli grondanti d’acqua.
Avvicinò il volto e inorridì. Penzolante alla base della ciocca un’escrescenza biancastra attraversata da striature scure.
Ai capelli era attaccato un brandello di pelle del cranio.
Lasciò cadere il mastello e tornò correndo al pozzo. Si sporse cercando di scrutare sul fondo: una caverna nera, silenziosa, nemmeno uno sciacquio.
«C’è qualcuno?» urlò stupidamente. La sua voce, dopo essere rimbalzata sulle pareti, le si rivoltò contro. Fu presa da un’agitazione incontrollabile.
In quel momento un gruppo di manovali addetti alla costruzione del monastero stava ormeggiando una peata carica di altinelle.
«Aiutatemi, vi prego!» urlò Maria correndo loro incontro. «Nel pozzo, venite… nel pozzo» e spiegò in poche parole l’accaduto.
Gli uomini si avvicinarono. Uno si sporse verso l’imboccatura.
«Mi no vedo gnente».
«Ghè solo spussa de acqua marsa».
La monaca insistette perché uno di loro si calasse lungo la canna.
Presero una fune e la legarono saldamente alla trave che sosteneva la carrucola. Un giovane magro e agile si tolse i calzoni e si calò frenando la discesa con i piedi contro le pareti.
Dall’alto seguivano i suoi movimenti con distacco, quasi si trattasse di far scendere un tronco per le fondamenta di un palazzo. Solo Maria era in apprensione.
«Sta atento che il diavolo no te ciapa par le culate». Tutti risero.
Uno sciabordio annunciò che aveva raggiunto la superficie dell’acqua.
«Alura?» gridò qualcuno.
Per tutta risposta gocciolii, sbattere d’acqua.
«Alora? Ti ga magnà la lengua?».
Un fischio, forse uno sfiato d’aria emesso troppo violentemente. Poi la corda tesa e il rumore della risalita che rimbombava nel canale.
Il volto terreo e madido d’acqua apparve all’improvviso sopra la vera. Il ragazzo prese un lungo respiro, poi aprì bocca.
«Ghe xe un cristian in fondo al pozo».
«Dio misericordioso!» esclamò Maria.
«L’è tuto sotacqua, non se vede gnente».
«Anca desso un imbriago l’è cascà nel buso» commentò un manovale.
«O anca un de quei ramenghi che magna a maca all’hospitium».
«Bisogna avvisare subito sorella Zelda. Aspettate qui». Maria corse verso il porticato del monastero.
Passò giusto il tempo della muta di una serpe che il chiostro si animò come il mercato di Rivus Altus: monache, inservienti dell’hospitium, garzoni, pescatori e infine, trasportata sulla sua cadrega, Zelda Mastropiero, primiceria di San Giacomo in Paludo.
La massa di capelli color del rame spuntava disordinatamente dalla fasciatura, mettendo ancora più in risalto il biancore della pelle e il colore degli occhi quasi trasparenti in quel viso tondo e regolare.
Posarono la cadrega vicino al pozzo in attesa di un suo ordine che non si decideva ad arrivare. Fu Maria allora a intervenire.
«Bisogna tirarlo su».
Come se si risvegliasse da un torpore profondo, Zelda annuì.
«Certo, sorella. Dobbiamo portare alla luce il corpo di questo povero cristiano».
Sguardi smarriti, l’operazione non era semplice.
«Se vi calate in due riuscite a legarlo?» chiese Zelda ai manovali.
«Forse, siora, se lè magreto».
«Allora mettetevi all’opera».
Si imbragarono con le funi all’altezza della vita e con prudenza cominciarono a farli scivolare nella canna. Lo spazio era ristretto. Avrebbero dovuto raggiungere il corpo, assicurarlo alla fune e tirarlo in qualche modo in superficie.
L’operazione durò a lungo. L’attesa, invece di acuire la tensione, aveva trasformato l’opera in uno dei soliti interventi di manovalanza ai quali le monache erano ormai abituate. Alcune avevano preso a chiacchierare tra loro tranquillamente, altre avevano abbandonato il chiostro per dedicarsi alle quotidiane incombenze. Solo Zelda, inchiodata al suo scranno, conservava sul volto un’espressione di vuota imperturbabilità, scambiando di tanto in tanto lunghe occhiate con Maria che invece aveva gli occhi lucidi quasi presagisse il peggio.
Infine il momento giunse.
I due uomini risalirono e diedero l’ordine di sollevare il corpo.
Ci si misero in due piuttosto robusti, pensando che fosse un lavoro da ragazzi. Diedero un primo strattone, la corda si tese ma non si mosse. Che corpo era mai quello che resisteva alle braccia muscolose di due operai? Se ne aggiunse un terzo. Provarono con uno strappo ancora più deciso, secco.
Nella canna del pozzo rimbombò una specie di rigurgito, poi un risucchio simile a un lamento. La corda cominciò a scorrere.
«Piano fioi, andemo piano…».
Gocciolii, uno stridio e un forte odore di fanghiglia sputato fuori dalla canna come aria di un peto putrido.
«Lenti ora che vien fora». Pareva di assistere a un parto.
Un uomo si avvicinò alla vera per manovrare l’uscita del macabro resto.
Apparve all’improvviso come una statua di sale emersa dagli abissi, candida, splendente in un abito bianco dai riflessi d’argento.
Il corpo penzolava al centro del pozzo, sospeso, come sul punto di spiccare il volo. Un manovale si avvicinò e scostò i capelli dal volto.
Maria esplose in un urlo di terrore, nascose il volto tra le mani e scoppiò a piangere.
Il volto imperturbabile di Zelda Mastropiero si accartocciò in una smorfia di orrore.
Non vi erano dubbi: era il corpo senza vita di Persede Gradenigo, l’indemoniata.