XI.
I NON MORTI

Dubbi, domande, paure. Aveva passato la notte a rigirarsi nel letto senza riuscire a prendere sonno. Come prima di una battaglia, anzi forse peggio. In guerra sai chi è il nemico. Tra i tuoi pari a Venetia il nemico prende fattezze diverse e chiunque può accoltellarti alle spalle.

Di chi mi posso fidare ciecamente, si domandava Marino Gradenigo. Era questo il pensiero ossessivo che non lo lasciava dormire.

Orio Mastropiero, forse. Era un uomo leale, equilibrato, lo aveva sempre sostenuto. Conosceva il suo valore. Con le sue ultime parole però si era rivelato possibilista, incerto, alla ricerca di una mediazione.

E Sebastiano Ziani? Sempre muto, pensieroso. Chissà che cosa rimuginava, quale fazione avrebbe appoggiato l’uomo più ricco della città.

Gradenigo continuava a chiedersi perché una parte dei Savi aveva deciso, dopo centinaia di anni, di mettere in discussione il sistema elettorale del doge. Proprio ora che lui era a un passo dalla più alta carica del governo. Sembrava un affronto verso la sua persona. Sapevano quanto il popolo lo amava, erano tutti pronti ad acclamarlo doge. E invece no.

Quando i primi vapori dell’alba filtrarono esitanti attraverso le finestre con gli scuri spalancati per via del caldo afoso, Gradenigo decise di mettere fine a quella tortura e abbandonò il suo giaciglio. Pensò che il solo modo di trovare un po’ di pace fosse andare a pregare sulla tomba dell’amata sorella.

Lei che era stata così vicina a Dio, forse gli avrebbe indicato la strada. Si vestì di fretta e uscì.

L’aria non era ancora così calda da bruciare la gola. Le acque del canale ondeggiavano lievi, lasciando lungo le rive riflessi cangianti. Respirò a pieni polmoni. La brezza fresca cancellò gli incubi della notte.

Attraversò il campo davanti alla chiesa di San Zan Degolà e si avviò in direzione di quell’angolo dell’isola abbandonato e selvaggio, in cui venivano sepolti i cristiani che non avevano diritto alla terra consacrata.

Gli faceva male pensare alla sorella relegata in quel luogo. Si lasciò alle spalle il sentiero tra le canne e si ritrovò nella radura tra le querce. Quel campo trasmetteva solo tristezza e desolazione. Ferri arrugginiti, pietre spezzate. Si avvicinò alla tomba di Persede.

Non avevano ancora posato una lapide: i Gradenigo erano convinti che presto il corpo avrebbe trovato riposo in un vero camposanto.

In un primo momento non si accorse di nulla. Poi la sua attenzione fu attratta dal colore della terra: scura, bagnata, come fosse stata appena rivoltata. Si chinò, prese una zolla con la mano. Era terra fresca, come se la sepoltura fosse appena avvenuta. Preso da una frenesia rabbiosa si mise a scavare con le mani. Non vi erano dubbi, qualcuno aveva profanato la tomba.

Tornò di corsa a palazzo, prese con sé due garzoni muniti di pale e attrezzi.

Un timore terribile si era fatto largo nella sua mente. Un ladro di cadaveri aveva rubato il corpo della sorella. Erano molti, in quei tempi, a far commercio di morti, soprattutto se sepolti in terra sconsacrata. La richiesta era copiosa: medici che in segreto praticavano esperimenti di anatomia vietati dalla Chiesa, oppure speziali che se ne servivano per creare medicamenti portentosi a base di carne in decomposizione che spacciavano per quella di mummie egizie.

I garzoni cominciarono a scavare di buona lena. I primi raggi di sole che filtravano tra le foglie delle querce e il silenzio tutt’intorno davano al luogo un’aura di pace e armonia.

Dopo poco arrivarono alla cassa. Pulirono il bordo, così da liberare il coperchio. Un garzone scese nella buca.

«L’è stata verta, sior».

«Apritela subito» ordinò Gradenigo in preda all’agitazione.

I due si guardarono preoccupati, poi anche il secondo scese con due sbarre di ferro. Le infilarono nell’intercapedine e fecero leva. Uno schianto. Si volsero verso il padrone prima di procedere alla rimozione. Gradenigo s’immaginò la cassa vuota e il dolore per l’atto sacrilego gli invase il petto.

«Procedete».

Fu un movimento fluido, lento, come far ruotare un mantello, il coperchiò volò via.

Il volto rugoso di Gradenigo si deformò in una smorfia di orrore. Mai aveva visto uno spettacolo così raccapricciante, neanche in battaglia.

I garzoni con un balzo si arrampicarono fuori dalla fossa, tremando.

Il corpo di Persede giaceva al suo posto ma si erano accaniti su di lei come se non fosse stata una cristiana, figlia di Dio. Nemmeno un cane bastardo meritava di essere ridotto così.

All’altezza del cuore avevano conficcato un paletto di legno. La testa era stata recisa di netto e posata tra le gambe nude, spalancate a mostrare il sesso. Il viso era rivolto verso l’alto come se avesse partorito se stessa.

Un quadro grottesco, orribile, che solo una mente malata avrebbe potuto concepire.

Gradenigo non riusciva a staccare gli occhi da quell’orrore, annichilito, incapace di prendere una decisione. Sentì i due garzoni che confabulavano tra loro, riuscì a cogliere la parola demonio ripetuta più volte. Per prendere tempo ordinò loro di richiudere la cassa ma i due si rifiutarono. Dovette scendere lui stesso nella fossa. Dal corpo proveniva un odore molle, simile a quello di un dolciume andato a male. Il volto pareva tinto di un colore verdastro, un occhio aperto, le labbra nere. Ne aveva visti di morti in guerra, mai però gli era capitato di provare una tale sensazione di disgusto e ribrezzo. Ed era sua sorella, la sua Persede. Si vergognò di se stesso.

Posò il coperchio sulla cassa, risalì e, seguito dai garzoni, fece ritorno a palazzo.

Era sconvolto, confuso, incapace di prendere una decisione. Una sola persona avrebbe potuto forse fornire una spiegazione e placare il tormento. La mandò a chiamare.

 

Era il maligno che sembrava accanirsi contro quella povera ragazza? Il male si trascina dietro altro male, in una catena che non ha mai fine. Quando scoperchiarono la cassa, Sicara non riuscì a restare impassibile. Brasca vide una lacrima scivolare sul suo volto pallido.

Marino Gradenigo attendeva impietrito una risposta alle sue domande.

«È un rituale molto antico» spiegò Sicara, «l’ho già visto quando ero presso il monastero di Rupertsberg. Per impedire che il morto torni tra i vivi, per sconfiggere il demone si ficca un palo nel cuore e si taglia la testa. Hanno voluto fermarla. Il fantasma di Persede era troppo invadente».

«Perché la testa tra le gambe?» domandò Marino.

«Un messaggio al maligno o forse hanno voluto indicarci qualcosa».

«Chi può aver compiuto questo atto sacrilego?».

«I morti che tornano non piacciono a nessuno. Pare che Persede non volesse lasciare San Giacomo in Paludo, capite? Da un certo punto di vista è un atto di misericordia, ora riposa in pace».

«Che dobbiamo fare?». Gradenigo era sempre più smarrito. La baldanza del combattente era scomparsa di fronte alle forze oscure degli inferi.

«Portate il corpo a palazzo». Sicara indicò la cassa. «Voglio esaminarlo, poi lo ricomporremo e pregheremo per lei».

«Nessuno vuole toccarlo, hanno paura» confessò Gradenigo.

Sicara si girò verso Brasca che assisteva impassibile. Le bastò un cenno.

«Fate portare dei sacchi di canapa».

Dopo essersi sfilata il velo e aver rimboccato le maniche, Brasca si calò nella tomba.

«Prima il palo, fai piano, con delicatezza».

Non voleva uscire, come se il cuore lo trattenesse a sé. Brasca tirò con tutte le sue forze. Alla fine, con un risucchio inquietante, scivolò fuori e un fiotto di liquido giallastro inondò il petto di Persede.

«Ora metti la testa in un sacco e ricopri il ventre con la veste».

Brasca eseguiva in silenzio, con minuziosa attenzione, ogni suo movimento provocava un brivido nel corpo di Sicara.

Per trasportarla chiamarono Raul, il vecchio marinaio, che non aveva paura di nulla.

La ricomposero su un tavolaccio, in un magazzino vuoto, al pian terreno del palazzo.

Sicara chiese di poter restare sola con Brasca, adducendo come spiegazione la volontà di rispettare le regole del monastero che non prevedevano presenze maschili durante la preparazione del defunto.

«Spogliala completamente» disse alla giovane monaca, che eseguì senza alcuna titubanza.

Il corpo nudo, e venato di striature bluastre, aveva perduto ogni consistenza che potesse ricordare l’energia che l’aveva sostenuto una volta. Un pezzo di carne, il capo appoggiato nella sua posizione originaria, il buco nero all’altezza del petto.

Perché avevano spostato la testa tra le cosce aperte, proprio davanti al sesso? Era un segno, un messaggio?, si chiese Sicara.

«Allarga bene le gambe». Brasca la fissò per un attimo incerta, poi obbedì senza fiatare.

La badessa aggirò il corpo e si fermò davanti ai piedi, quindi si sporse in avanti per esaminare il sesso. Studiò con attenzione, liberando dalla peluria il collum, in tutte le sue pieghe. L’organo aveva preso una colorazione grigiastra, un fiore strappato.

Di tanto in tanto la badessa spiava Brasca per cogliere le sue reazioni.

La giovane monaca pareva indifferente, come se fosse abituata da sempre a quel genere di operazione. Allora Sicara, quasi per provocarla, con gesto sicuro e deciso, infilò due dita dentro la vagina e spinse fino in fondo.

A quell’atto Brasca strinse i pugni, come fosse stato il suo corpo a essere violato.

L’aveva visto fare molte volte a Ildegarda quando visitava le giovani donne che si rivolgevano a lei per qualche disturbo.

Ne aveva scritto anche nel suo trattato di medicina Liber compositæ medicinæ. Era stata la prima a descrivere lo stato di piacere che prova la donna durante l’atto dell’accoppiamento.

L’ispezione durò a lungo; Brasca ebbe l’impressione che la badessa cercasse qualcosa, come era stato per il rospo in bocca.

A un certo punto Sicara ritrasse le dita e le annusò. Poi restò immobile, pensierosa.

«Adesso girala sul fianco» disse.

«Il tronco?».

«Sì, il tronco».

«La testa no?».

«No, la testa lasciala dove si trova».

Brasca si aggrappò a quei poveri resti e tirò a sé. Era strano vedere il corpo piegato di lato e la testa di fronte. Il buco all’altezza del cuore era ormai asciugato. Grumi violacei.

Sicara si appoggiò con le mani sul torace e spinse con tutte le sue forze, una, due, tre volte, controllando se dal foro provocato dal paletto uscisse qualche liquido. Nulla, nemmeno dal canale, reciso di netto, che collegava gli organi respiratori alla testa.

«Va bene, puoi rivestirla».

La rigirò, la piegò, fece ruotare braccia e gambe come un pupazzo, ma sempre con amore e delicatezza. Sembrava che Brasca non avesse mai fatto altro nella vita che rivestire cadaveri. Tanto che alla fine sentì il dovere di spiegare.

«Aiutavo mia madre, quando al paese la chiamavano a vestire i morti. Era il suo lavoro… ma così senza testa è più difficile, è la prima volta. Non ne avevo mai visti».

«Nemmeno io» confidò Sicara.

Quand’ebbe finito recitarono insieme una preghiera per l’anima di Persede.

«Ora cerca Gradenigo, devo parlare con lui e con sua madre, subito».

Brasca capì che la badessa non aveva buone notizie e corse via.