No, non così, lo stai affogando, troppa acqua, troppa acqua». Sicara strattonò la giovane monaca che era sul punto di scoppiare a piangere e posò il secchio affranta.
«Il limone vuole poca acqua altrimenti non fa frutti».
Prese il secchio e lo inclinò lentamente. La badessa non aveva mai compiuto quell’operazione, non aveva alcuna dimestichezza con i lavori manuali. Il manico le scivolò tra le mani e il secchio si rovesciò.
«Ecco, hai visto cosa mi hai fatto fare? È colpa tua, solo tua». La monaca nascose il viso tra le mani per celare il pianto.
«Guarda se quella stupida doveva ammalarsi proprio adesso» brontolò tra sé Sicara. «Sarà rimasta a letto a dormire, altro che febbre». Si rivolse alla giovane. «Sorella Brasca cura questo herbularius da diversi anni, è grazie a lei se è così rigoglioso. Ci vuole amore, lei ci mette amore, anche quando dà l’acqua alle piante».
La giovane monaca non smetteva di singhiozzare.
«E adesso vai, non serve a niente piangere ora che il danno è fatto».
La badessa si guardò attorno. L’orto le pareva vuoto senza la presenza di Brasca indaffarata che correva avanti e indietro dal pozzo. Era spazientita. Quella febbre le pareva una specie di vendetta. Brasca non aveva mai avuto problemi di salute da quando era al monastero.
«Buongiorno, badessa».
Se lo ritrovò di fronte quasi all’improvviso.
«Finalmente, dove siete scomparso? Non ho vostre notizie da due giorni, Barattiero». Aveva un tono stizzito.
«Non è stato un compito facile».
Il volto era segnato dalla stanchezza e i vestiti dai colori sgargianti non riuscivano a nascondere l’avanzare della vecchiaia.
«Cosa avete scoperto?».
Nicolò prese tempo, si aggiustò il farsetto color rubino.
«Non molto, temo». Abbassò gli occhi.
«Come?» esplose Sicara. «Mi deludete, Nicolò».
«Nessuno vuole parlare». E si allontanò di qualche passo per non guardarla in volto.
«Siete riuscito ad avere notizie sul barcaiolo?».
«Ho chiesto, mi sono appostato… inutilmente».
La badessa si avvicinò scrutandogli le pieghe del volto.
«Vi vedo molto provato, Nicolò… è accaduto qualcosa?».
«No, badessa, è solo la stanchezza».
Con un movimento improvviso, facendo ruotare la tonaca, la badessa si allontanò.
«Dunque non abbiamo novità su Persede?».
«Direi di no, purtroppo».
«Era pregna, incontrava un uomo evidentemente». Sicara andava accalorandosi. «E non siete riuscito a scoprire come e dove? Vi sembra normale che una monaca intrattenga incontri carnali? Avrà ben avuto dei complici, qualcuno che era al corrente! Questa Maria che la conosceva così bene… la stessa Zelda, che controlla ogni movimento sull’isola, possibile che nessuno voglia parlare?».
Barattiero tacque.
«Hanno trovato Persede annegata nel pozzo, a tutti fa comodo credere che sia stato il demonio, il rospo… ne siete convinto anche voi?».
Non si era mai posto questa domanda. Ora doveva guardare nel fondo della propria coscienza.
«Conosco bene il demonio, l’ho incontrato nelle lunghe notti passate al tavolo da gioco, l’ho visto negli occhi di quei poveracci che avevano perso tutto e meditavano la morte… ma non credo che sia l’artefice della morte di Persede».
«Dio vi ringrazio, non sono la sola ad avere dei dubbi… troppe zone oscure, troppe domande senza risposta… speravo che voi riusciste a portare un po’ di luce». La badessa sospirò. «E ora? Che possiamo fare? Ammettere la nostra sconfitta e rinunciare a perseguire la verità?».
«Ci aggiriamo come ciechi in un labirinto». Barattiero si era fatto pensieroso. «Ma non ho perso la speranza di raggiungere la meta».
In quel momento arrivò di corsa una monaca.
«Brasca è peggiorata» annunciò alla badessa, «la febbre è alta, delira».
Sicara ebbe un sussulto, il volto deformato da un’espressione stupita, come se le fosse stato rivelato un segreto che non poteva accettare.
Era un giocatore abituato a condurre la vita come una partita a dadi. La posta in gioco era alta e non poteva perdere. Nicolò Barattiero uscì dal monastero di San Lorenzo tormentato da sentimenti contrastanti. Aveva tradito la fiducia di Sicara, le aveva mentito sulla sorte di Persede, era rammaricato per questo, però non aveva avuto altra scelta. Doveva giocare le sue carte e talvolta è necessario fingere e mentire per chiudere la partita a proprio vantaggio. Ed era esattamente ciò che doveva fare. Non aveva rinunciato a scoprire la verità sulla morte della giovane monaca, non aveva abbandonato la badessa, aveva soltanto ritardato la soluzione. Era la prima mossa. Ora si apprestava a compiere la seconda, quella determinante e più dolorosa.
Voleva passare inosservato, evitò quindi di andare a cercarlo a Rivus Altus dove si recava tutte le mattine. Non era prudente nemmeno che lo vedessero bussare al suo palazzo.
Sapeva però che il nobiluomo aveva il vizio di recarsi spesso da un mercante di manoscritti che aveva la bottega in una stretta calle nelle vicinanze di Santa Maria Formosa.
A Ziani, l’uomo più ricco e potente di Venetia, era preso lo sfizio di collezionare scritti di ogni argomento e provenienza, in lingua greca o latina e persino araba, pur non essendo in grado di leggere nessuno di quegli idiomi. Gli piaceva, come i saggi, contornarsi di sapere e cultura facendo credere ai nobili veneziani che la sua vita non era stata tutta spesa a macinare affari e accumulare ricchezze, ma che coltivare lo spirito e la mente era stata la passione che aveva sempre perseguito con amore e costanza.
Più che una bottega era un lungo e striminzito cunicolo che sfociava in una stanza, interamente foderata di pergamene arrotolate o cucite a forma di libro. Si respirava fin dall’ingresso un odore aspro di cartapecora e di cavolo, solfato di rame e noce di galla, usati per l’inchiostro.
In piedi, davanti a un leggio, Barattiero trovò il mercante che con aria rapita e lussuriosa accarezzava, come fosse il petto di una giovane pulzella, una pergamena ornata con miniature dorate.
Alto, magrissimo, indossava una palandrana lunga fino a terra e si aiutava nella lettura con un apparecchio composto da due occhielli in legno dentro i quali erano incastonati due roidi da ogli trasparenti.
«Buon dì, Filippino».
L’uomo si girò spaventato, come se un pievano l’avesse colto sul fatto.
«Ah siete voi, Barattiero» sibilò. «Cosa volete?».
Era sempre contrariato quando qualcuno interrompeva la sua attività quotidiana e addirittura irritato se un cliente osava manifestare l’intenzione di voler comprare qualcuno dei suoi manoscritti. Non avrebbe mai voluto separarsene. Così si scatenava una lotta, il cliente insisteva, offrendo cifre sempre più alte, e Filippino accampava scuse e panzane per non cedere alle lusinghe.
«Avete per caso veduto l’illustre Ziani?» chiese Nicolò.
«Che Dio me ne scampi. Ogni giorno mi tormenta per portarsi via qualche manoscritto che non leggerà mai».
In quel momento le campane di Santa Maria Formosa batterono la nona.
«Presto, presto, fatemi sprangare la porta, a quest’ora solitamente appare il fantasma». Fece per correre lungo il corridoio.
«È permesso?» risuonò una voce.
«Maledizione, troppo tardi» imprecò Filippino. «È già qui».
«Lasciate fare a me» si intromise Barattiero. «Ve ne libero subito».
«Davvero ne siete capace?».
«Ho buoni argomenti che gli faranno dimenticare le pergamene».
Quando lo vide pararsi davanti nel bel mezzo del cunicolo, Ziani si bloccò intimorito.
«Barattiero, che ci fate qui?» esclamò.
«Ho deciso di allargare le mie conoscenze».
Ziani lo fissò sospettoso. Da un lato temeva che gli soffiasse qualche buon bocconcino, dall’altro paventava che gli rinfacciasse la spiata a proposito di Persede.
«Ho delle informazioni molto più interessanti di qualunque studio potreste trovare su queste pergamene, e molto più succulente di quelle che vi ho già dato».
L’aveva preso in contropiede. Ziani parve titubante, poi fece marcia indietro dirigendosi verso l’uscita. «Torno subito, Filippino» urlò.
Non aspettava altro, appena i due furono all’esterno il mercante si affrettò a sprangare le porte.
«Difficile che abbiate da offrirmi qualcosa di maggior pregio di tutto il sapere raccolto in questa bottega» disse Ziani incamminandosi con passo malfermo lungo il rio.
«Il sapere in mio possesso non è profondo come quello di un filosofo o di un matematico, può però aprire squarci di conoscenza in grado di cambiare le sorti di questa città».
Gli occhi di Ziani si fecero attenti. «Sentiamo».
«È un sapere di grande valore il mio, dovete promettere che questa volta sarò ricambiato nel modo giusto».
«Se l’informazione vale, sarete ricompensato in modo appropriato».
«Niente denaro, dovete farmi una promessa».
«Non prometto nulla al buio».
Da buon giocatore Barattiero capì che doveva azzardare.
«D’accordo» e lo prese confidenzialmente sottobraccio. Ziani si stupì di tanta familiarità. «So con certezza che Persede, la monaca sorella di Gradenigo, aveva incontri amorosi segreti con qualcuno di una famiglia molto in vista. Con ogni evidenza era rimasta pregna e voleva liberarsi dell’impiccio… e forse, non essendovi riuscita, ha deciso di togliersi la vita…».
Un filo di bava fece capolino tra le labbra sottili di Ziani.
«E conoscete anche il nome di quella famiglia?».
«È naturale».
Gli occhi di Ziani s’illuminarono di una luce perversa.
In poche ore il volto di Brasca aveva subìto una trasformazione che la rendeva irriconoscibile: la pelle aveva assunto una tonalità grigiastra e si era raggrinzita. Le labbra, spaccate, si erano tinte di una colorazione violacea, e un velo di sudore innaturale si stendeva sulla pelle, appiccicando al volto i capelli ormai sfibrati.
Quando la vide, la badessa provò un moto di orrore. Dove era finita la montanara instancabile dal volto rubizzo? Pareva che uno spirito maligno le stesse divorando l’anima.
Sicara si avvicinò al capezzale e comprese perché la monaca che l’aveva accompagnata si manteneva a distanza. Il corpo di Brasca emanava un odore nauseante, acuto, simile a quello di carne di salamandra in putrefazione. Si coprì la bocca e il naso con il velo.
Un tremore costante le squassava i muscoli e percorreva gli arti e il busto.
Solo la luce che attraversava lo sguardo aveva conservato una limpidezza cosciente.
«Sorella Brasca…» mormorò la badessa.
La monaca avrebbe voluto rispondere. Socchiuse le labbra, invece di parole uscì un rivolo di bava verdastra. Gli occhi però ebbero un guizzo, un lampo di amorevole compassione, quasi volesse scusarsi con la sua badessa di presentarsi in quello stato.
«Andate subito a chiamare un magister mædicarum» ordinò Sicara alla consorella.
Prese uno sgabello e lo accostò al letto. I miasmi che avevano invaso la cella angusta rendevano l’aria irrespirabile. Un dubbio terribile si era già insinuato nelle mente di Sicara. Gli insegnamenti di Ildegarda le avevano dato le nozioni sufficienti per individuare i sintomi, ma voleva sentire il parere autorevole di un medico. Sperava di sbagliarsi, di non aver letto nel modo giusto i segni che le mandava il corpo di Brasca.
Quando vide apparire il magister sulla porta della cella comprese che la sua ipotesi non era lontana dalla realtà.
Intabarrato nella sua veste color rubino, il capo coperto da un berretto rosso, con appeso al collo un sacchetto colmo di chiodi di garofano, la bocca protetta da un fazzoletto, chiese subito di spalancare la finestra, poi incendiò un bastoncino di sandalo, affumicando la stanza.
«Da quanto tempo ha la febbre?» domandò.
«Stamattina all’alba».
Il magister, un uomo robusto di età avanzata, sollevò il fazzoletto e si spalmò tempie e narici con un unguento profumato di canfora. Solo allora si avvicinò alla malata e le sollevò la mano per tastarle il polso.
«Avete dolori al cuore come se fosse stretto in una morsa?».
Brasca annuì con fatica.
«Attacchi di vomito veementi?».
Ancora una volta Brasca fece cenno di sì.
Allora il medico sollevò un braccio della malata e lo scoprì fino alle ascelle, indagando tra le pieghe della carne. Indi passò alla testa, soffermandosi a scrutare dietro le orecchie. Il corpo di Brasca si adattava passivamente a ogni movimento.
Finita la visita il magister si accostò a Sicara.
«È febbre pestilenziale» mormorò, «la città ne è invasa».
«Può guarire?» chiese la badessa profondamente turbata.
Il dottore guardò in alto. «Siamo nelle mani di Dio» rispose.
«Cosa possiamo fare per lei?».
«Sono apparse le macchie. Per ora infusi di persicaria e pimpinella, salassi e clisteri per liberare il corpo degli umori cattivi e infine precipuamente teriaca, una dose grande come una nocciola, se ne avete possibilità. Con la peste è diventata assai costosa e quasi introvabile a Venetia».
«Penserò io stessa a procurarmela» annuì Sicara.
«Aprite le finestre mentre soffiano i venti puri da settentrione e bruciate incenso e sandalo nella stanza».
«Quando sapremo se la malata riuscirà a superare l’attacco pestilenziale?» chiese Sicara.
«Se entro tre giorni appaiono i primi bubboni sotto le ascelle o nelle zone inguinali mandatemi a chiamare, proveremo ad ammorbidirli con unguenti, poi li incideremo per spurgarli dalla linfa putrescente. Se dopo due o tre giorni non cala la febbre…». Fece una smorfia. «Potete solo pregare, madre, pregare con tutto il cuore».
Sicara si sentì quasi offesa: come si permetteva quel medico di consigliare a lei, badessa di San Lorenzo, la preghiera.
Chinò la testa in segno di saluto.
Il magister lasciò la cella senza aggiungere una parola di conforto. Era abituato a quelle scene, i malati ormai non si contavano più.
Quando restò sola, Sicara si rese conto che nessuno nel monastero si sarebbe fatto carico di assistere la povera Brasca.
Avrebbe potuto trasportarla all’hospitium di San Giacomo in Paludo, insieme agli altri appestati. Oppure tenerla a San Lorenzo. Se avesse deciso per questa soluzione era consapevole che una sola persona avrebbe potuto prendere su di sé il peso di questo rischioso compito.
Alzò lo sguardo sul volto di Brasca. Gli occhi parevano sorriderle. Scostò i capelli dalla fronte madida.
«La battaglia sarà cruenta e dolorosa, sorella. La affronteremo insieme e la vinceremo» disse Sicara ad alta voce.
Brasca chiuse gli occhi, grata.