XXIV.
IL SOGNO

Fu un agosto crudele. L’aria si raggrumò in un umidore denso e appiccicoso, un calore feroce scese sulla città. Nessun vento da settentrione né nuvole cariche di pioggia. Un velo biancastro soffocava la laguna. I campi, le viti, gli orti, si erano seccati e raggrinzivano. Gli animali si lamentavano per l’arsura. Sulla superficie delle acque apparivano pesci morti per l’eccessivo calore in profondità. Anche i miasmi della peste, portati dall’aria malsana, fecero nuove vittime. Non esisteva più un luogo sicuro, nemmeno sulle isole. Nelle calli si respirava un fetore dolciastro di corpi in putrefazione. Molti abbandonarono la città, rifugiandosi nelle campagne della terraferma.

Coloro che rimasero lottavano ogni giorno per non perdere il senno. Le menti, intorpidite, parevano sciogliersi, confondersi, incapaci di prendere decisioni, di articolare discorsi sensati.

Per giorni si attese una decisione dei Savi, il segno di una possibile svolta. Gli uomini che avevano sempre guidato Venetia parevano colpiti da una paralisi inspiegabile. Nessuno voleva fare la prima mossa, né Gradenigo aizzando il popolo, né Mastropiero mettendo ai voti la proposta di trasformare il regolamento di elezione del doge.

Tutti davano la colpa alla peste e al calore insostenibile che paralizzava la città. I cittadini, ormai privi dell’energia necessaria persino per ribellarsi, cominciarono a temere che la loro comunità non avrebbe più trovato la forza di rialzare la testa.

Quando i nobili, i mercanti più ricchi, cominciarono a temere di perdere ogni loro avere, soffocati da quell’inattività, Sebastiano Ziani, con una nuova decisione a sorpresa, annunciò che avrebbe chiesto ai Savi di mettere ai voti la proposta di eleggere un’assemblea rappresentativa di 480 membri.

Mastropiero la giudicò subito una mossa azzardata: se avessero perso la votazione sarebbe passata automaticamente la linea di Gradenigo e dei suoi alleati di conservare le vecchie usanze dell’elezione diretta.

Si riunirono al tramonto per evitare le ore più calde. Nella sala del Consiglio regnava un silenzio che non lasciava immaginare una facile soluzione. Le famiglie più importanti erano tutte presenti. Per la votazione ogni membro aveva a disposizione una ballotta, una sfera di legno di diverso colore: azzurra per approvare un provvedimento, rossa per bocciarlo.

Orio Mastropiero annunciò la proposta di formare un consiglio composto da 480 rappresentanti delle sei contrade.

Si aprirono le votazioni. Ognuno doveva posare la sua ballotta in un’urna in modo che tutti potessero vedere.

Molti voti erano scontati, tutti sapevano che la fazione di Mastropiero avrebbe depositato una ballotta azzurra.

Certo era anche il voto contrario di Gradenigo e dei suoi sostenitori. Così quando arrivò il suo turno non si prestò grande attenzione al colore della ballotta che stava depositando nell’urna. Solo dopo qualche istante, tra lo stupore generale, ci si accorse dell’accaduto.

Marino Gradenigo aveva depositato una palla azzurra, aveva votato a favore dell’elezione dei rappresentanti del consiglio. Esattamente il contrario di quanto aveva sempre sostenuto.

Lo sconcerto che si propagò tra i suoi alleati fu enorme. Alcuni cambiarono votazione all’ultimo momento, solo pochi conservarono la posizione originaria.

Al momento della conta, la proposta di Mastropiero risultò vincente con una considerevole maggioranza. Il primo passo per la ridefinizione dei princìpi costitutivi del comune di Venetia era compiuto.

Mastropiero era incredulo e nessuno sapeva spiegarsi il repentino voltafaccia di Gradenigo. Perché aveva agito in quel modo, che cosa aveva in mente? Rinunciava alla sua candidatura a doge?

L’unico a ostentare una calma esemplare fu Sebastiano Ziani. Sembrava il solo a conoscere le ragioni che avevano guidato la mano di Gradenigo.

 

I giorni di quell’agosto furono devastanti anche per Sicara. La sofferenza aveva preso possesso del suo corpo, un dolore fisico che spezzava le ossa e confondeva la mente. Il fantasma di Brasca l’accompagnava in ogni momento, quando si svegliava al mattino, quando camminava nell’herbularius o pregava. Pensava a lei in continuazione e riviveva ogni atto che l’aveva vista al suo fianco. Quella presenza costante la consumava e arrivò a sperare di dimenticarla presto. Non avvenne e Sicara pensò che non si sarebbe mai ripresa.

La calura ossessionante non faceva che accrescere la sensazione di assenza, di distacco dal mondo.

Non desiderava vedere nessuno, nemmeno Barattiero; si occupava a malapena delle faccende quotidiane del monastero.

Anche la vicenda di Persede, le ragioni della sua morte le apparivano come un ricordo lontano che quasi non la riguardava.

Si trascinò così per buona parte del mese, fin quando una notte accadde qualcosa che ruppe inaspettatamente quell’interminabile giaculatoria di sofferenza.

Brasca le apparve in sogno. Viva, presente, allegra, sorridente e nuda.

Ripeteva nel sogno il rito della bendatura che era solita eseguire ogni mattina, solo completamente svestita. Era a suo agio e si muoveva con naturalezza e tranquillità.

Sicara percepì sulla carne viva la sensazione delle sue mammelle dure che le sfioravano la schiena e le braccia e provò piacere, uno sdilinquimento diffuso che scendeva fino all’inguine.

Poi una notte, senza nessun preavviso, Brasca la baciò sul collo più volte e lei, nel sogno, non mostrò nessuna volontà di sottrarsi a quell’atto vergognoso.

Si svegliò di soprassalto, il corpo caldo e sudato, devastata da un senso di colpa che non aveva mai provato prima. Non aveva mai avuto visioni di quel genere; fantasie a occhi aperti sì, ma era riuscita subito a scacciarle. Ora le ombre della notte avevano preso il sopravvento, comandavano la sua mente, non poteva controllarle.

Andava a dormire con la preoccupazione che Brasca si manifestasse di nuovo. In fondo al cuore lo desiderava. Aveva l’impressione che quelle apparizioni notturne alleviassero un poco il suo dolore.

Per qualche notte Brasca non si presentò, poi all’improvviso tornò a trovarla e quanto accadde la lasciò esangue e terrorizzata.

Erano nella sua cella. Brasca in fondo al letto si spogliava come per andare a dormire, togliendosi però anche l’ultima sottoveste e rimanendo come al solito nuda. Quindi si avvicinava al giaciglio e si distendeva al suo fianco. Tutto avveniva con estrema naturalezza e senza alcuna intenzione lasciva.

Una volta coricatasi vicino a lei cominciava a sfilarle la camicia. Erano tutte e due nude, vicine, Sicara sentì persino l’odore della sua pelle che sapeva di pulito. I corpi si sfioravano, i volti sorridenti, pieni d’amore.

Poi Brasca prese ad accarezzarla con una delicatezza di cui mai avrebbe potuto immaginare sarebbero state capaci quelle sue mani da montanara.

Le dita ruotarono intorno ai capezzoli, solcarono il ventre e s’infilarono tra le gambe, penetrando nel sesso.

Sicara viveva tutto questo senza alcun senso di colpa né vergogna, come un’esperienza naturale. Sentì persino il suono ansimante che usciva dalla sua bocca e il languore diffuso che le percorreva le membra.

Le labbra di Brasca si posarono sulle sue e ne percepì il sapore, come di biancospino.

Una risata di gioia esplose nella cella, ridevano insieme, felici, spensierate, come quella volta sulla spiaggia dell’isola di Nasina.

Poi l’espressione di Brasca si era fatta seria all’improvviso e un’ombra di malizia aveva attraversato il suo sguardo. L’aveva sentita muoversi, rigirarsi, senza capire cosa stava accadendo. All’improvviso se l’era trovata inginocchiata sopra di lei con le gambe aperte e il sesso all’altezza della sua bocca. Un profumo aspro di terra bagnata, e lo smarrimento di non sapere a cosa sarebbe andata incontro. Brasca la fissava e avvicinava sempre più il bacino, fino a incollare il sesso alle sue labbra. Si sentì risucchiata in un vortice che mescolava piacere e paura. Una scossa le attraversò il corpo, inarcò la schiena e urlò.

Si svegliò di soprassalto, ancora fremente e spaventata per la violenza di quell’esperienza mai provata prima.

 

Nelle notti seguenti il fantasma di Brasca tornò a trovarla nel sonno altre volte, e Sicara si abbandonò a quell’esperienza con sempre maggiore naturalezza.

I baci, le carezze, la fusione dei loro corpi erano il frutto di un impulso primordiale e il sano coronamento di un sentimento d’amore. Nel sonno realizzava, attraverso il simulacro di un corpo, la carnalità di un incontro amoroso. Nessun peccato né senso di colpa; viveva quell’esperienza come un Eden riconquistato.

Quando si svegliava non aveva rimorsi, affrontava la giornata con una nuova energia, nutrita da quell’esperienza onirica che rappresentava ormai una specie di seconda vita accanto a una Brasca rinata.

La morte della sua amata le aveva permesso di scoprire, di sperimentare quella parte nascosta di lei che aveva sempre soffocato. Era l’ultimo regalo che la giovane monaca le aveva fatto. Ormai senza corpo fisico, l’aveva portata a svelare desideri e pulsioni che in vita non avrebbe mai accettato di riconoscere.

Dolce, generosa Brasca. Ora che non c’era più poteva finalmente amarla in totale libertà. Dio non era adirato con lei, se le permetteva di scendere nei suoi sogni.

Ormai Sicara trascorreva le sue giornate in attesa del riposo notturno sperando che la sorella tanto amata si palesasse. Qualche volta accadeva, poi passavano alcuni giorni di vuoto e all’improvviso tornava con il suo sguardo dolce.

La badessa pensò che quella doppia vita avrebbe potuto continuare all’infinito. Non conosceva la natura subdola e infida dei sogni.

Una notte si coricò inquieta, in uno stato d’inspiegabile agitazione. L’amata non si presentava da molti giorni. Quando finalmente si addormentò cadde in un sonno profondo e opaco. All’avvicinarsi dell’alba fu svegliata dal forte scrosciare della pioggia e dal vento che fischiava tra le scandole del tetto. “È finita l’estate”, pensò, poi si riaddormentò.

Brasca entrò nel sogno sbattendo la porta. La vide apparire in fondo al letto nuda, come sempre. Aveva sul volto un’espressione corrucciata e malinconica. Senza alcun indugio si buttò a gambe aperte sopra di lei e portò il bacino all’altezza del viso come era accaduto altre volte.

Il sesso di Brasca era davanti ai suoi occhi, aperto, gonfio. A Sicara parve di percepire persino un odore fangoso di alghe macerate.

Poi il ventre ebbe un sussulto, il bacino si spinse ancora più avanti, fino a sfiorarle il volto. La vulva ebbe un fremito e si allargò come se qualcosa spingesse dall’interno. Sicara fu invasa da un senso di sgomento, ebbe l’impressione precisa che qualcosa di tremendo stesse per abbattersi su di lei.

E così fu. Percepì una presenza, un essere che cercava di guadagnare l’uscita dall’utero di Brasca. Lo sentiva muoversi all’interno, rovistava, scivolava in avanti a poca distanza dai suoi occhi. Infine un profondo risucchio, un odioso raspare. E apparve. La fissò con i suoi occhietti a sfera, il muso gocciolante.

Il rospo dalla pelle color rubino, grasso, soddisfatto, se ne stava così, metà dentro e metà fuori, e continuava a fissarla, fin quando, con un ultimo guizzo, uscì del tutto e fece un balzo verso il suo volto.

Sicara si svegliò gridando, agitando le mani davanti agli occhi per scacciare la bestia immonda.

Passarono alcuni istanti prima di prendere coscienza che era stato solo un terribile incubo.

Si mise a sedere sul letto. Bevve un sorso d’acqua. Ansimava ancora. Il rospo era riuscito a cancellare in un baleno la gioia, la purezza di quegli incontri con Brasca. Aveva sporcato ogni immagine di felicità, ogni ricordo lieve.

All’improvviso si accorse che la vergogna e il senso di colpa stavano divorando la sua coscienza. Dio l’aveva scacciata dal paradiso terrestre. Il rospo, il demonio, le aveva teso un tranello e l’aveva precipitata nel peccato.

Dopo quell’agguato vide la notte con altri occhi. Il sonno divenne un antro buio e infido dove l’attendeva il demone pronto ad assalirla. Se aveva nutrito qualche dubbio, quell’apparizione l’aveva fugato: Satana esisteva e aveva preso possesso della sua anima. Era cascata nella sua ragnatela come un’ingenua fanciulla.

Da quel giorno Sicara, quando si avvicinava il tramonto, veniva assalita da un’agitazione incontrollabile e si rifugiava nella preghiera per espiare il peccato di orgoglio: l’aver creduto di potersi abbandonare ai desideri della carne, seppure in sogno, senza precipitare nella vergogna e nella disperazione.

Durante le notti seguenti né Brasca né il rospo andarono più a visitarla. Come se ormai avessero compiuto la loro missione.

La badessa trascorreva sonni agitati ma privi di presenze inquietanti. Pensò di aver sconfitto Satana con la penitenza. Riprese così la sua vita regolare e si ripromise di dedicarsi alle faccende del monastero con maggiore sollecitudine. Fin quando all’alba di un giorno di fine estate qualcuno apparve di nuovo. Era un’ombra indefinita, in un angolo della cella. Poteva essere Brasca, ma le fattezze erano celate da una specie di nebbia densa. La figura avanzò di qualche passo. Solo allora Sicara la riconobbe.

Era Persede. Indossava la veste da monaca, sul volto un’espressione addolorata, la guardava come se si aspettasse una risposta da lei.

«Persede» mormorò Sicara nel sonno.

La monaca socchiuse la bocca, quasi volesse parlare. Invece di un suono, tra le labbra fece capolino il muso color rubino di quell’essere immondo; la fissava con sfida con i suoi occhietti aguzzi. Persede allora allungò una mano verso Sicara, quasi una richiesta di aiuto, e sul volto apparve una espressione stanca, addolorata.

«Persede» ripeté la badessa. Ma la visione si dissolse nella nebbia.

Sicara si risvegliò confusa e passò tutta la mattina cercando di decifrare il significato di quell’apparizione.

Il rospo la perseguitava. Era rimasto nel corpo di Persede. Questo aveva voluto comunicarle: che il demonio era il padrone della sua anima, che era ancora sepolta in terra sconsacrata e aspettava di essere liberata. Le era apparsa in sogno per chiederle di non dimenticarla, di non abbandonare la ricerca della verità.

Ora più che mai poteva capire il tormento di Persede. Dopo i sogni con Brasca, dopo la scoperta dei suoi sentimenti, la badessa sentiva di essere ancora più vicina alla giovane monaca morta. Senza perdere la fede si era abbandonata al sentimento d’amore e aveva ceduto al richiamo della carne.

Qualche tempo prima non avrebbe potuto accettarlo. Ora, dopo aver compreso e vissuto, seppur in sogno, quelle pulsioni, aveva capito che nessuno poteva permettersi di giudicare.

Persede la richiamava al suo dovere. Tutto ricominciava, bisognava riprendere il cammino.

Si ricordò allora che, quando soggiornava nel monastero di Ildegarda, aveva visto sul pavimento di una cattedrale vicino a Bingen un mosaico che riproduceva un labirinto e occupava tutto il pavimento della navata centrale. Rappresentava il percorso simbolico che un pellegrino doveva affrontare prima di raggiungere la meta, la Terrasanta e la vera fede. Si soffermò a pensare che anche la vita seguiva gli stessi meandri del labirinto.

Si avanza a tentoni, provando a percorrere una via, e quando sembra di essere arrivati a un passo dalla comprensione di sé stessi ci si trova invece di fronte a un muro che costringe a tornare indietro e ricominciare da capo.

La strada verso l’illuminazione è contorta e faticosa, talvolta procura cocenti delusioni. Il labirinto è oscuro e complesso. Il percorso dell’esistenza non è una linea retta costellata di prove, di alti e bassi. Al contrario, è pieno di circonvoluzioni, di passi falsi, di entusiasmi e sconfitte. Un modo diverso di avvicinarsi alla verità.