XXIX.
SE VI PIACE

Aveva trascorso la notte a giocare a dadi nel retrobottega di un mercante di stoffe e aveva perso una somma considerevole. Sentiva che il ciclo fortunato della sua vita era giunto al termine. I giochi, i sotterfugi, gli inganni non rendevano più, anzi alla fine stavano chiedendo il conto. Era stanco, debole, forse poteva essere la peste. Uscì dalla bottega barcollando, aveva bevuto troppo. Non bastavano i vistosi abiti di seta e lino, con i quali si era sempre pavoneggiato, a farlo sentire giovane e in forze. Era arrivato alla fine. Puzzava di vecchio e di rancido.

La calle delle Merzerie era ancora deserta, i riflessi violacei dell’alba stendevano una patina lucente sui tetti di paglia delle casupole, trasformandoli in ricche coperture di pietre preziose.

A pochi passi dal brolo si fermò. Forse la locanda del Moro era già aperta e avrebbe incontrato Rachida. Preferiva non vederla. Era lo specchio del suo fallimento.

Girò in una calletta stretta e maleodorante, dove sapeva avrebbe trovato un forno aperto. Aveva fame, un pezzo di pane di segale avrebbe attenuato quei dolori alle budella che lo piegavano in due.

Il profumo della cottura gli ricordò di quando era ragazzo in campagna e sua madre, per i giorni di festa, cuoceva il pane nero in casa.

Mentre stava masticando con voluttà il primo boccone entrò un milite. Un ragazzo dall’aria assonnata. Chiese dell’acqua. Veniva dal palazzo ducale.

«G’avè fato de novo la notata?» chiese l’uomo del forno.

Il ragazzo annuì. «I fa, i disfa, i me fa andar de mato».

«Alora chi xe el nuovo doge?».

«Ieri era Mastropiero… stanote l’è cambià de novo… i dise che sarà Sebastiano Ziani».

Barattiero fece un balzo.

«Che cosa hai detto?».

Il milite lo guardò stralunato. «Go dito che Mastropiero ha rifiutato e han scelto Ziani».

«Sei sicuro di quello che dici?» lo aggredì Barattiero.

Il milite si spaventò. «Chi xe vu? Mi no go dito gnente, mi no so…». Finì di bere alla svelta e si precipitò fuori.

«Ha detto che il nuovo doge sarà Sebastiano Ziani» ripeté Nicolò eccitato.

Il fornaio annuì. «Tanto l’uno o l’altro par mi no cambia gnente».

Uscì all’aria, respirando a pieni polmoni. Si sentì all’improvviso dieci anni in meno. Era solo una voce, ancora niente di ufficiale, doveva restare calmo. Si avviò di buon passo verso il brolo.

Come aveva potuto dubitare dell’abilità di Sebastiano Ziani, l’uomo più potente, astuto, ricco di tutta Venetia? Avevano stretto un accordo. Era arrivato il momento d’incassare. Che sciocco era stato a credere che Mastropiero avesse avuto la meglio, era solo una mossa, furba, sottile. Al momento giusto Ziani aveva fatto pesare sulla bilancia quello che sapeva e che lui stesso gli aveva rivelato su uno dei figli di Orio e su Persede.

L’aveva minacciato, ricattato? Non doveva essercene stato bisogno, avevano trovato un accordo, da buoni alleati e sodali. «Se gli undici faranno il tuo nome, tu con una scusa rifiuterai, proponendo il mio. Non oseranno opporsi al tuo illustre giudizio». E così era stato.

Entrò nella locanda quasi senza fiato. Rachida stava spazzando a terra. Le si parò davanti e, senza pronunciare una parola, l’abbracciò con uno slancio infantile.

«Piano, piano, cos’è tutta questa confidenza?» reagì lei.

«Abbiamo vinto la partita» esclamò Nicolò.

Rachida lo guardò come se avesse perso il senno.

 

Il primo a rendergli omaggio fu Orio Mastropiero. Ziani lo accolse nel salone, seduto sullo scranno dorato che assomigliava sempre più a un vero trono. S’inginocchiò davanti a lui e gli baciò la veste. Come se fosse già doge. Nessuna parola, solo uno sguardo di complicità.

La nomina non era ancora stata ufficializzata. Gli undici avevano informato il Maggior Consiglio, che non aveva trovato la forza di mettersi contro il volere di Mastropiero e aveva accettato. Ora restava il passo più delicato, dare l’annuncio al popolo.

Era quello lo snodo che preoccupava di più.

Morosini, Dolfin e tutti i vecchi Savi temevano una reazione violenta. Marino Gradenigo avrebbe ancora potuto manovrare le passioni della gente e spingerla alla rivolta.

Ziani non sembrava impensierito. Tranquillizzò tutti: i vecchi contrasti erano stati appianati, Marino aveva rinunciato alle sue mire e gli eventi di quell’estate erano un ricordo lontano.

Quando a fine giornata Gradenigo si presentò a palazzo ducale, tutti i presenti erano in attesa di capire quale sarebbe stata la sua reazione.

Attraversò il salone a passo lento, chinò la testa e baciò la mano di Ziani come avevano fatto tutti. Un atteggiamento ossequioso, prudente. Molti pensarono che fingesse, altri che agisse per convenienza.

Ziani pareva il più sereno, quasi che quella nomina, per molti inaspettata, gli avesse infuso un’autorevolezza, una dignità che mai prima aveva manifestato. Si apprestava a diventare doge e quel passaggio poteva cancellare la vita precedente, creando un uomo nuovo.

Mastropiero, che lo conosceva da sempre, si accorse per primo che sembrava ringiovanito, nei lineamenti, nel modo di muoversi, nello sguardo brillante, fiducioso e nei modi affabili, quasi permeati di dolcezza. Il mercante furbo e senza scrupoli pareva scomparso.

Dunque il potere è come una pozione magica, trasforma in oro tutto ciò che tocca?, si domandò Mastropiero. Eppure aveva visto anche tanti casi contrari: diamanti che si trasformavano in pietre senza valore.

Dopo aver salutato e ringraziato le autorità di Venetia, Ziani annunciò che si sarebbe messo a disposizione di tutto il popolo, ben sapendo che proprio quel popolo avrebbe potuto farlo cadere ancor prima di raggiungere lo scranno ducale.

 

La voce della nomina si sparse rapidamente. Come i Savi avevano temuto, il popolo non accettò di buon grado di essere stato scavalcato.

In poco tempo si raccolse in brolo una moltitudine di facinorosi. Non c’era più Gradenigo ad aizzarli; la protesta era nata spontanea, sfociata dal sentire più profondo di un’intera città.

Non era solo sul nome di Sebastiano Ziani il disaccordo, ma anche sulla scelta fatta senza interpellare l’arengo. L’assemblea, che nel passato aveva proclamato all’unanimità il nuovo doge, ora si trovava di fronte a un nominato dall’alto, da un gruppo ristretto di persone, seppure scelte tra 480 rappresentanti.

Non ci volle molto perché scoppiassero i primi disordini. Un gruppo di scalmanati diede fuoco a un mucchio di legna accatastato davanti al portone del palazzo, altri si apprestavano a scalare le mura nel tentativo di raggiungere il primo ordine di camminamenti.

Le guardie cercavano di contenere l’assalto senza colpire con violenza, per non scaldare ancor più gli animi.

Ziani che, sebbene non avesse ancora ricevuto l’investitura ufficiale, sentiva già di stringere tra le mani il baculus, lo scettro simbolo del comando, si precipitò a Palazzo e, nonostante tutti lo sconsigliassero, decise d’incontrare una rappresentanza degli irriducibili.

Gli undici erano ansiosi di vedere come si sarebbe svolto lo scontro e, conoscendo l’abilità diplomatica di Ziani, erano anche curiosi di scoprire quale sarebbe stata la controproposta.

Nella grande sala consiliare li ricevette da solo. Niente guardie o consiglieri.

Un vecchio contro un gruppo di giovani decisi a farsi giustizia.

Avrebbero potuto liberarsi di lui con la violenza, in un attimo, come già era accaduto con il doge Michiel.

Avanzarono compatti fino a metà sala, stretti l’uno all’altro per darsi forza, un po’ intimoriti dalla solennità del luogo.

Sebastiano Ziani si alzò dallo scranno e chiese di poter parlare. Le voci dei manifestanti si affievolirono. Quindi attaccò con voce pacata, quasi dimessa, da uomo umile, non come il mercante più ricco di Venetia.

Disse che riteneva un immenso onore essere stato scelto come possibile rappresentante supremo della città, che il suo unico desiderio era il bene, la pace, la prosperità di Venetia e che quindi avrebbe accettato la nomina solo se l’investitura fosse stata confermata da tutto il popolo.

Spiegò che il suo nome sarebbe stato proposto all’arengo con la formula definitiva “Ecco il vostro doge… se vi piace”.

Il giorno della cerimonia, prima di raggiungere il trono ducale, avrebbe percorso tutto il brolo tra la folla. Se la risposta non fosse stata positiva si sarebbe ritirato in buon ordine.

I presenti rimasero in silenzio, increduli, non si aspettavano una proposta così ragionevole; in fondo, in quel modo, l’ultima parola sarebbe spettata ai cittadini che potevano accettare o rifiutare.

Dopo un breve conciliabolo risposero a Ziani che erano d’accordo, la formula “se vi piace” avrebbe segnato da allora in poi la nuova regola per l’elezione del doge di Venetia.

 

Quanto sentiva la mancanza di Brasca! Quando la confusione era al culmine, lei riusciva con la sua semplicità a trovare la soluzione giusta. Sicara cercava ancora una volta di mettere ordine. Aveva un’unica certezza: Persede non era indemoniata, quindi se si era tolta la vita non era stato a causa di Satana.

L’incontro con Zelda era stato un fallimento. Ora che suo padre era fuori dai giochi del dogado, forse avrebbe agito in altro modo non dovendo più proteggerlo?

Era una vicenda ingarbugliata. Barattiero le aveva chiesto di non rivelare l’intrigo amoroso, per non compromettere l’elezione del padre. Nonostante la cautela era stato scelto Ziani.

In quali manovre si erano esercitati i nobili che tenevano i fili del governo della città? Sicara non riusciva a comprenderlo. Di Persede sembrava non importare più a nessuno, nemmeno alla famiglia. Barattiero era diventato sfuggente, misterioso. L’aveva delusa ancora una volta, non sapeva più se poteva fidarsi di lui.

Si svegliava all’alba e dopo la preghiera scendeva nell’orto dove passava lunghe ore a rimuginare su quale sentiero prendere.

Quel pomeriggio, dopo nona, quando arrivò una monaca da San Giacomo in Paludo che chiedeva d’incontrarla, pensò che fosse un segno che Brasca le aveva inviato.

La religiosa portava un messaggio di Zelda Mastropiero nel quale le chiedeva se come badessa reggente poteva concederle il permesso di lasciare il monastero e far ritorno provvisoriamente nella casa paterna. La peste dilagava fra le religiose e quel luogo non era più sicuro.

Sicara la immaginò segregata nella sua cella, affumicata da vapori purificatori, terrorizzata e per un attimo pensò che non poteva presentarsi occasione più favorevole.

Rispose che avrebbe volentieri ascoltato la richiesta di sorella Zelda direttamente dalla sua persona. L’aspettava quindi a San Lorenzo, dove sarebbe stata lieta d’incontrarla.