Un odore polveroso di fiori appassiti; chiazze dorate e cremisi che si rincorrevano dalle chiome degli aceri ai ciuffi della salicornia. E terra molle nella quale pareva di sprofondare.
Il giardino dei Gradenigo, chiuso tra alte mura, aveva perso il respiro, rantolava moribondo. Marino l’accompagnò in una radura circondata da salici piangenti. Nell’erba incolta era stato approntato una specie di giaciglio costruito con tavole e pali, quasi un letto a baldacchino.
Scendeva in quel momento dalla scalinata del palazzo il vecchio marinaio che stringeva tra le braccia, come una bambina, il corpo minuto e sfibrato di una donna anziana che Sicara faticò a riconoscere. Margherita Gradenigo, la madre di Marino, in poco tempo aveva perso ogni parvenza di vitalità, pareva un fuscello estirpato senza più radici.
Il marinaio si avvicinò e posò delicatamente il corpo della vecchia sul giaciglio. Era vestita con una specie di tonaca monacale, il capo coperto da un velo scuro, in segno di lutto.
«Non cammina più» spiegò Marino, «la portiamo tutti i giorni in giardino. Passa le giornate tra le piante, le foglie, i legni. Dice che le è di grande conforto».
La badessa si avvicinò. I loro sguardi s’incontrarono, Sicara ebbe l’impressione che fosse sul punto di piangere, ma che non ci riuscisse.
Marino strinse la mano della madre.
«Siamo venuti a disturbarvi perché alla badessa sta molto a cuore la salvezza dell’anima della nostra Persede. Vuole seppellirla in terra consacrata». La madre chiuse le palpebre. «Non crede si sia tolta la vita spinta dal demonio».
Margherita emise un soffio prolungato che poteva nascondere l’intenzione di una frase. Sicara si chinò su di lei.
«Volevo sapere, signora, se Persede prima di morire è venuta a trovarvi, qui a palazzo, per rendervi partecipe delle sue intenzioni».
La madre fece una smorfia, allungò una mano e si aggrappò alla veste della badessa cercando di balbettare qualche parola incomprensibile.
«Non è mai venuta in questa casa in quei giorni» intervenne con prontezza il marinaio. Sicara lo guardò sorpresa.
«Ormai non riesce più a parlare» spiegò Marino.
Allora la badessa si fece ancora più vicina al volto della donna.
«Persede non vi ha mai parlato dell’intenzione di sposarsi con Marco Mastropiero e di tenere il bambino. È così? Fate solo un cenno del capo».
«Non capisce» cercò d’intervenire il marinaio.
«Aspettate» ordinò Marino.
«Avete veduto, prima della morte, vostra figlia Persede?» ripeté Sicara.
Una lacrima scivolò sul viso smunto di Margherita, poi un lamento così profondo e cupo che le tolse il fiato. Quindi con uno sforzo enorme piegò la testa in avanti. Era un segno di assenso.
«Non ricorda, si confonde con la volta in cui Persede venne a farci visita, molti mesi prima» insistette il marinaio.
Marino s’inginocchiò vicino al giaciglio.
«Madre, avete parlato con Persede? Si è confidata con voi? Non mi avete detto nulla».
L’anziana donna girò il volto dall’altra parte.
Il vuoto, una specie di quiete innaturale, una sospensione delle parole, dei moti dell’animo, nell’attesa della catastrofe.
Pur provando una pena immensa verso quella donna divorata dai rimorsi, Sicara dovette affondare la spada della verità fino in fondo.
«Vi ha detto che intendeva lasciare il convento, sposarsi con Mastropiero e portare in dote le sue terre…». Si fermò, prese forza. «Quei terreni erano la vostra salvezza, l’unico modo di pagare il debito a Ziani e salvare la famiglia dalla rovina e dalla vergogna… così avete deciso…».
Raccogliendo le ultime forze, con un movimento improvviso, Margherita riuscì ad aggrapparsi al velo della badessa tirandola a sé.
Una vibrazione, un moto dell’anima, una preghiera che partiva dal cuore.
«Per… do… no» ansimò. E quella parola si disperse tra i rami dei salici, tra le foglie stanche, tra i fiori appassiti.
Il volto di Marino era ridotto a una maschera di pietra.
«No, la signora non ha deciso nulla, non sapeva nulla» fu la strenua difesa del marinaio, il servo fedele.
Marino lo prese per la casacca con violenza.
«Dimmi la verità».
«Ho deciso tutto da solo. Era l’unico modo di salvare l’onore della famiglia, l’ho fatto in memoria di vostro padre… e anche per voi, per la vostra carriera politica». Si strofinò il volto quasi volesse cancellare un ricordo. «Ho cercato di convincere Persede a vendere quei terreni, mi disse che non era possibile, il vecchio Mastropiero aveva posto come condizione che li portasse in dote… Vi odiano, i Mastropiero, vi hanno sempre odiati, erano felici di vedervi andare in rovina… fecero di tutto per opporsi alla decisione del figlio». Si avvicinò alla padrona, si chinò su di lei come in confessione. «Così ho fatto quello che si doveva fare…».
«Tu non sapevi nulla?» urlò Marino alla madre.
Solo lacrime e un balbettio stentato. «Perdono».
«Non vi accanite, non lo sapremo mai!». Poi Sicara si rivolse al marinaio: «Così vi siete recato a San Giacomo in Paludo… Persede si fidava di voi, non sarà stato difficile colpirla, soffocarla… e gettarla nel pozzo facendo credere che si fosse tolta la vita».
«Ho pregato per lei, la conoscevo fin da bambina, le volevo bene… non voleva capire che il nome dei Gradenigo viene prima di ogni altra cosa».
«E avete organizzato la messa in scena del rospo per evocare la presenza del demonio» concluse Sicara.
Il marinaio si stropicciò la barba, facendo un passo indietro come se avesse ricevuto un colpo inaspettato.
«Di quale rospo parlate?».
«Di quello che le avete infilato in gola».
«Io non ho infilato un bel niente, i rospi sono esseri immondi. A nessuno verrebbe in mente di mettere una bestia di quel genere in bocca a una monaca, neanche da morta».
Sicara avrebbe voluto ribattere che quel rospo l’aveva trovato lei stessa e che in qualche modo doveva essere arrivato fin là; non poteva essersi infilato da solo. Se non era stato il marinaio poteva essere solo… allora esisteva davvero! La bestia immonda che s’insinua nelle menti devastate dal senso di colpa, pronta a incarnarsi per tormentare le anime di coloro che hanno peccato.
La vecchia madre abbandonata sul giaciglio respirava a fatica. Marino, inginocchiato vicino a lei, le teneva la mano… forse l’aveva perdonata. La verità sulla morte di Persede era stata finalmente raggiunta e probabilmente nessuno avrebbe pagato per quel crimine.
«Seppelliremo Persede» annunciò Sicara rivolgendosi a Marino, «nel cimitero dietro la chiesa di San Zan Degolà, in terra consacrata».
Talvolta è sufficiente saper immaginare un sogno per infondere la forza di ricominciare. Con il disegno della Venetia futura che aveva offerto al suo popolo, il nuovo doge aveva sconfitto la rabbia, il pessimismo, l’inedia. Aveva debellato persino la peste che, con l’arrivo dei venti freddi da nord, pareva aver perso la capacità di diffondere morte.
La città stava lentamente ritrovando la sua energia, l’ottimismo. Le botteghe riaprivano, le galee si apprestavano a nuovi viaggi verso la Terrasanta, i pellegrini stavano tornando, e le reliquie di San Marco avevano ricominciato a essere un punto di riferimento per tutti i fedeli di Cristo.
I lavori promessi da Ziani nel brolo avevano avuto subito inizio. Il primo a dare principio alla sua impresa era stato proprio Nicolò Barattiero. I patti erano chiari: se non avesse innalzato le colonne, niente baratto. E senza baratto sfumava il guadagno e la società con Rachida.
Il problema non era di facile soluzione. Le colonne di granito giacevano abbandonate nell’erba. Il peso spropositato e l’altezza avevano impedito a chiunque di portarle in posizione eretta.
Per prima cosa si doveva spostarle in riva, davanti al palazzo ducale, in quello spazio che dopo l’interramento della darsena rappresentava la porta d’ingesso alla città per chi proveniva dal mare.
Con l’aiuto di molti uomini e di cavalli, imbragandole per bene, Barattiero riuscì a trascinarle nel luogo deputato. Ora veniva il bello. Si era spaccato la testa per diverse notti, seduto al tavolo della locanda sostenuto dalla presenza assidua di Rachida, per studiare un sistema per sollevarle.
Quanti uomini gli sarebbero serviti? E quali macchine avrebbe dovuto costruire per vincere il peso di tali masse?
Ordinò sartie, legname, travi. Quindi pensò a puntellare le basi, poi costruì gli argani con un sistema di carrucole come quelle che aveva usato per portare le campane sulla cima della torre.
Decise di fare un primo tentativo. Intorno agli operai si erano raccolti i soliti curiosi. Alcuni scettici – «No ghe la farà mai!» –, altri ottimisti – «Ghe la fa, ghe la fa».
Rachida era al suo fianco quando diede l’ordine. Gli uomini cominciarono a tirare le funi: i pilastri si mossero, scivolando. Le impalcature sembravano reggere il peso, ma i puntelli alla base non facevano presa. Le colonne strisciavano senza sollevarsi di un dito. L’angolazione degli argani non era sufficiente. Avrebbe dovuto costruire impalcature ancora più imponenti, ma avrebbero retto al peso?
«Temo di avervi promesso la luna» confidò a Rachida.
«Non vi ho mai visto darvi per vinto».
«Un giocatore deve sapere quando ritirarsi».
«Voi non siete un giocatore, siete un uomo d’ingegno, un architetto».
«Lo credevo anch’io».
Passò tutta la notte a disegnare schizzi sui muri con un pezzo di carbone, poi esausto si ubriacò addormentandosi sul tavolo della locanda.
Lo svegliò Rachida all’alba. Gli facevano male le ossa e sentiva nella testa una moltitudine di galline che starnazzavano.
Immerse il capo in un secchio d’acqua e tornò davanti alle colonne che giacevano inerti davanti alla laguna.
Altro che porta d’ingresso di Venetia, parevano il simbolo di una sconfitta. Ziani non lo avrebbe mai perdonato.
Scoraggiato, si sedette sul basamento. Quante braccia sarebbero state necessarie per sollevarle?
In quel momento sentì un fastidio intorno alla gola. Il cordoncino con la croce che teneva appeso al petto, impregnato d’acqua, si era gonfiato, accorciandosi, fino a stringergli il collo.
Balzò in piedi. Ecco la soluzione!
Appena giunsero gli operai, Nicolò li mise al lavoro. Ordinò loro di bloccare un’estremità delle colonne scavando una buca profonda. Quindi fece legare all’altra estremità un fascio di corde che avvolgevano il fusto ed erano fissate saldamente al suolo sul lato opposto, accanto alla buca. Le funi furono poi bagnate. Aumentando di diametro diminuirono di lunghezza. La trazione esercitata dall’accorciamento fu sufficiente a sollevarle di pochi pollici. A quel punto fece sistemare delle zeppe di legno sotto il marmo. Gli operai continuarono così per tutto il giorno, sostituendo via via il cordame bagnato con altro asciutto.
All’imbrunire le colonne avevano raggiunto l’angolazione giusta per poter essere sollevate da uomini robusti. Attorno agli operai si era raggruppata una folla considerevole di curiosi. Ormai era diventata una questione di orgoglio, che coinvolgeva tutta la città.
Il doge Ziani sorvegliava le operazioni dal balcone del palazzo.
A un cenno di Nicolò gli uomini cominciarono a tirare, incitati dalla folla. Le colonne scivolarono di qualche palmo, ma l’alloggiamento scavato nel terreno le arginò e l’inclinazione favorevole alleggerì lo sforzo. Le carrucole cominciarono a cigolare, le funi si tesero fin quasi a spezzarsi. La gente urlava, era come se tutto il popolo unito stesse sollevando le colonne simbolo della rinascita.
Quando il sole spezzò in due l’orizzonte della laguna, le colonne di marmo si stagliavano dritte e imponenti davanti a San Marco.
Scoppiò un grido di giubilo. Barattiero fu portato in trionfo. Alla fine Rachida lo abbracciò.
«Non siete più il giocatore, siete l’architetto. E per questa impresa sarete ricordato nei secoli».
La pavoncella dal pennacchio irriverente osservò curiosa dall’alto dei cieli quella moltitudine festante, poi planò lentamente fino a posarsi con leggerezza sulla sommità di una colonna.
Erano trascorsi pochi mesi. A Sicara erano parsi anni, tanto denso, imprevedibile, oscuro era stato il suo cammino prima di vedere la luce. Quanti errori aveva commesso, quanti sentieri sbagliati aveva imboccato. La strada del pellegrino è lunga e tortuosa. Ora si apprestava a compiere l’ultimo atto, la salvezza dell’anima di Persede.
Solo lei e Marino Gradenigo. La madre giaceva moribonda nel suo giaciglio di frasche. Colpevole, innocente? Non l’avrebbe mai saputo.
I becchini avevano dissotterrato la cassa con le spoglie di Persede dal campo sconsacrato e si erano avviati verso il cimitero dietro la chiesa. Un misero corteo per una povera monaca sacrificata per la difesa del potere.
Entrando al cimitero trovarono ad attenderli il pievano in compagnia di Marco Mastropiero. Quella presenza le aprì il cuore. I due uomini, rappresentanti di famiglie avverse, si trovavano uniti davanti alla morte di una donna che entrambi, seppur in modo diverso, avevano amato.
Zelda, già nominata badessa di San Giacomo in Paludo, le aveva chiesto di recitare una preghiera al posto suo.
Dal campanile arrivarono i rintocchi della nona ora. I becchini calarono la cassa nella fossa già approntata. Il pievano iniziò la preghiera.
La terra buttata sul legno rimbombava con un suono delicato come l’anima di Persede. Quando la fossa fu colma, il religioso intonò un breve canto che l’accompagnasse nel suo viaggio di ricongiungimento con l’Altissimo. Poi sparse vapori d’incenso e si allontanò.
Un ultimo pensiero, una preghiera. Il fratello e l’amante si incamminarono insieme.
Sicara restò sola. Voleva lasciarla con un saluto appropriato.
«Grazie Persede, la tua morte non è stata inutile. Ha aperto l’anima di molti, in primo luogo la mia».
L’ultimo becchino, prima di andarsene, infilò con forza nella terra una croce ricavata da due lame di ferro. La terra smossa esalò profumo di bosco.
Sicara si segnò e si avviò verso l’uscita. Un fruscio alle sue spalle. Si voltò.
Il terriccio del tumulo si muoveva. Piccoli smottamenti, come se qualcuno scavasse da sotto. Poi si aprì un varco. Apparve qualcosa. Una zampa, poi un’altra, un muso schiacciato. La terra franò e con un risucchio saltò fuori un rospo.
Era panciuto, color rubino, la pelle lucida maculata. La fissò con gli occhi fiammeggianti per qualche istante. Sicara fu attraversata da un brivido di terrore. Quindi l’essere immondo, con un balzo prodigioso, scomparve tra la verzura.