Introduzione

di Marco Bettalli

A differenza di quella greca, la storia romana ha una struttura lineare, poiché possiede un evidente elemento unificante nella città di Roma, che da piccolo villaggio del Lazio diventa una grande metropoli, capitale del più vasto impero della storia antica. Solo dopo la fondazione di Costantinopoli – la “nuova Roma” – da parte di Costantino (330 d.C.), le ultime vicende del tardo impero contrasteranno questa immagine: infatti, Roma perderà gran parte in quel momento della sua centralità politica.

Per molti secoli la storia romana coincide in effetti con la storia dell’espansione del potere e dell’influenza di Roma. Gli inizi di tale espansione si possono far risalire alla “grande Roma dei Tarquini”, ancora in età monarchica, se non allo stesso Romolo; più si sposta indietro la “missione” di Roma (“Tu regere imperio populos, Romane, memento / (hae tibi erunt artes) pacique imponere morem / parcere subiectis et debellare superbos”, canta l’Eneide virgiliana, il poema identitario della romanità, VI, 851-853), più ci si avvicina a una visione teleologica, a cui erano comprensibilmente inclini i Romani, una volta completata l’opera di conquista. Più concretamente, potremmo indicare un certo numero di date plausibili da cui far iniziare il processo: la presa di Veio, ultima grande città etrusca (396 a.C.), oppure la prima guerra sannitica (343 a.C.). La prospettiva “universale”, invece, inizia, secondo Polibio, lo storico greco della conquista romana del mondo, solo nel 220 a.C., o meglio con lo scoppio della I guerra punica nel 264 a.C.

Quello che è certo è che l’opera di conquista viene di fatto conclusa molto velocemente, al più tardi nella seconda metà del II secolo a.C. Non si riflette abbastanza, a volte, su quanto rapido sia stato tale processo. Ad esclusione della Gallia, conquistata definitivamente da Cesare nel 51 a.C., e di altre regioni che potremmo forse definire marginali (Britannia, Mauretania, Tracia, Cappadocia e Dacia), la geografia dell’impero romano non è molto diversa tra il 150 a.C. circa e il 117 d.C., anno nel quale, dopo le precarie conquiste mesopotamiche dell’imperatore Traiano, poniamo la cartina che reca la tradizionale dicitura “L’impero romano al tempo della sua massima espansione”.

I Romani e la guerra

I Romani come conquistatori, dunque. Non è certo un caso che la dimensione militare della loro storia abbia sempre suscitato un enorme interesse, senza mai passare di moda: ancora oggi, molti studenti inglesi che all’università decidono di specializzarsi in storia romana indicano, nei moduli che li interrogano sulle motivazioni delle loro scelte, l’interesse per l’esercito romano e per le legioni imperiali. Ciò può anche risultare inquietante – specie se si pensa a tutti i libri di cattiva divulgazione sulla guerra a Roma, che non conoscono crisi di produzione e qualche volta nascondono ideologie della cui rinascita non si sente minimamente la mancanza – ma è un dato di fatto: si tratta di un’eredità di Roma effettivamente universale. Dall’invenzione dei manipoli e delle coorti, che rendono l’esercito più flessibile (una parola magica, che si adatta a molti dei successi romani, non solo in campo militare), al grande genio militare di Cesare, unico vero candidato alla “successione” di Alessandro (un tema che ossessionava lo stesso Cesare e, in genere, molti pensatori romani: il figlio di Filippo era infatti il solo a contestare idealmente ai Romani il primato militare), alla straordinaria organizzazione delle legioni imperiali, non c’è dubbio che la guerra sia onnipresente nella storia romana. Tale presenza si riflette, almeno fino all’età tardo-repubblicana, in una società militarista, guidata da un’élite dirigente che, come ha brillantemente argomentato W.V. Harris, trovava nella guerra e nel successo militare la sua realizzazione e le possibilità di ascesa sociale; allo stesso tempo, le strutture organizzative della città erano fondate sulla guerra, “con i suoi cives censiti, classificati, organizzati in maniera da consentirne in qualsiasi momento l’impiego ottimale a fini difensivi o di conquista” (Claude Nicolet), così come le finanze della città erano sostanzialmente nutrite dai successi militari.

Durante l’impero, poi, la struttura organizzativa delle legioni, che anticipa, in molti particolari, gli eserciti moderni, sviluppando e perfezionando istituzioni ancora oggi più o meno familiari, quali la caserma, le gerarchie dell’esercito, le licenze, sancisce, con la nascita della figura del soltato di professione, la separazione tra civili e militari: un evento nuovo e di eccezionale importanza, sostanzialmente sconosciuto, soprattutto su vasta scala, nel mondo greco.

L’imperialismo romano e il trattamento dei vinti

Le modalità e le “spiegazioni” della conquista, che pure sono oggetto di approfonditi dibattiti che vertono in particolare sul fondamentale concetto di imperialismo romano, non ritengono più di accettare come valida la tesi dell’imperialismo difensivo secondo la quale Roma avrebbe agito reagendo al timore di essere sopraffatta, memore del terribile periodo della permanenza di Annibale in Italia (il celebre metus punicus); a volte però sembrano stemperarsi in affermazioni generiche, che sottolineano per esempio come anche tutti i nemici di Roma fossero potenzialmente ambiziosi, aggressivi e dunque imperialisti, e i Romani fossero mossi sì da un desiderio di gloria, un’ambizione di dominio, ma che tale ambizione fosse in fondo comune un po’ a tutti, suggerendo, quindi, che il “segreto” del successo romano vada cercato da qualche altra parte.

L’attenzione si è allora spostata sull’organizzazione dei territori conquistati, vale a dire sul trattamento riservato ai popoli che via via venivano soggiogati dalle armi romane. Abbiamo dunque la possibilità di seguire la storia affascinante dell’adeguamento delle strutture di una città-stato, le cui dimensioni e ambizioni inizialmente sono paragonabili a quelle di una polis greca, all’amministrazione quotidiana di un impero vastissimo. Un processo assai complesso, realizzato, tipicamente, senza mai abolire le strutture preesistenti, continuamente rifunzionalizzate, con uno sguardo rivolto costantemente al passato (anche le rivoluzioni, nell’antichità, sono sempre descritte come un ritorno alla costituzione dei padri).

È sempre salutare leggere Paul Veyne (1930-), impegnato a smitizzare le capacità amministrative romane: “L’impero romano non ha niente del capolavoro politico, la sua riuscita sta in due ricette tanto semplici quanto efficaci: non toccare lo status quo dei paesi conquistati e confermare il potere delle classi possidenti e dei dirigenti locali; in tempi in cui il nazionalismo non era ancora una passione, non serviva niente di più. Aggiungiamo a questo una potenza militare senza uguali e una considerazione: tra le diverse regioni dell’impero, la diseguaglianza poteva essere un rapporto di uno a due, e non di trenta a uno come nel mondo attuale, pieno di frustrazioni e gelosie”. Si tratta di considerazioni che colgono largamente nel segno, a sottolineare soprattutto il notevole pragmatismo dell’amministrazione romana, sempre in grado di appoggiarsi alle strutture già create dalle comunità inglobate. Non si può comunque non restare ammirati dalla capacità che i Romani mostrano nel coinvolgere le popolazioni sconfitte sul campo di battaglia, fino a integrarle completamente nella conduzione dell’impero. Ciò poteva avvenire non spontaneamente, ma dopo ulteriori conflitti, come nel caso dei socii italici, o del tutto pacificamente, come avverrà nel 212 d.C., quando la Constitutio Antoniniana di Caracalla concederà la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero: un atto riconosciuto come epocale più dagli studiosi moderni che dai contemporanei, con il quale comunque l’imperatore, desideroso, tra i tanti, di proporsi come un novello Alessandro, è riuscito in qualche modo ad avere un posto non di secondo piano nei libri di storia.

Un tratto, questo dell’integrazione, che possiamo a buon diritto considerare centrale nella storia romana. Se ne rendevano conto gli stessi Romani, facendone un cardine della loro autorappresentazione: si veda per esempio il celebre discorso, riportato da Tacito (Annali, XI, 24), che l’erudito imperatore Claudio rivolge ai senatori, ricollegando questa capacità alle oscure vicende dell’età monarchica e istituendo un confronto con il mondo greco classico che era già stato proposto dal re Filippo V di Macedonia quasi tre secoli prima: “Per quale altra ragione decaddero Sparta e Atene, pur così potenti sul piano militare, se non per aver bandito da sé i vinti quali stranieri? Ma l’accortezza del nostro fondatore Romolo fu tale che molti popoli ricevettero da lui la cittadinanza nello stesso giorno in cui ne erano stati vinti come nemici”. In questo caso, possiamo ben dire che l’ideologia aveva costanti riscontri nella pratica istituzionale.

Roma arcaica e la conquista dell’Italia

Nell’affrontare ancora una volta una trattazione delle vicende della storia romana abbiamo adottato un impianto sostanzialmente tradizionale, nella speranza e nella convinzione che siano i contributi a offrire spunti, se non originali, quanto meno di riflessione.

Uno spazio adeguato è stato riservato alla prima storia di Roma, dalle origini al IV secolo a.C. Su di essa autorevoli studiosi (specie d’Oltralpe) avevano mantenuto in passato e in parte ancora mantengono un atteggiamento “ipercritico”, ritenendo che la storia primitiva di Roma sia stata in buona parte “ricostruita” in età tardo-repubblicana e che l’archeologia non sia in grado di sopperire alla pressoché completa assenza di documentazione letteraria ed epigrafica, non certo compensata da una serie di narrazioni leggendarie, tanto famose quanto sostanzialmente inutilizzabili dallo storico. Da qui, uno spazio assai contenuto riservato all’età monarchica e alla prima età repubblicana.

All’opposto, i recenti studi di Andrea Carandini (1937-), basati sugli scavi da lui diretti nella zona del Palatino, hanno ritenuto di proporre una saldatura tra narrazioni leggendarie e dati archeologici: dove i secondi confermerebbero i primi, garantendo non solo la correttezza dell’impianto cronologico tradizionale (fondazione di Roma intorno alla metà dell’VIII secolo a.C.), ma persino una patente di storicità a Romolo e alla saga incentrata sulla sua persona, così come a tante altre narrazioni del genere.

Da Arnaldo Momigliano (1908-1987) a Carmine Ampolo (1947-), solo per citare alcuni tra gli italiani, molti studiosi hanno cercato di completare il puzzle delle origini di Roma; è evidente che in tale impresa la documentazione archeologica ha un ruolo assolutamente fondamentale: l’impianto di Carandini appare difficilmente accettabile nelle sue estreme conclusioni, ma il dibattito è tuttora aperto e molta strada deve ancora essere percorsa per giungere a una vulgata condivisa. L’antropologia culturale, in un tale contesto, proponendo confronti con società orali simili per molti aspetti a Roma arcaica, ha di recente fornito contributi di grande rilievo.

Il periodo dei primi secoli della repubblica è anche quello della conquista dell’Italia. La penisola, a partire quanto meno dall’età del Bronzo, ha visto nascere una quantità infinita di culture, di cui la civiltà etrusca, fiorita nell’Italia centrale a partire dall’VIII secolo a.C., è solo la più famosa e la più celebrata per la sua arte. Non c’è dubbio che la conquista romana, realizzatasi tra il V e il IV secolo a.C., abbia nuociuto immensamente allo sviluppo di queste culture, così come ne ha ridotto in modo drammatico la “visibilità”. Tramontato ormai da generazioni il “trionfalismo” sotteso all’idea di una vera unificazione dell’Italia da parte di Roma (al più si potrà parlare, con Andrea Giardina, di “identità incompiuta” dell’Italia), negli ultimi decenni gli studi sulle popolazioni italiche si sono moltiplicati e ne hanno messo in luce i singoli percorsi, che non sempre, con la conquista romana e l’integrazione nell’impero, si sono risolti in una perdita di identità.

Impero, spazio mediterraneo, globalizzazione e comparazioni

La creazione e la conservazione per molti secoli di un impero di circa 5 milioni di km2, che inglobava il territorio di oltre 30 stati moderni e una popolazione non inferiore a 60-70 milioni di esseri umani, è un tema il cui studio comporta l’esigenza di allargare quanto più possibile la prospettiva: non ci è voluto molto, per alludere a tale realtà multietnica, ad adoperare il termine tanto di moda di globalizzazione, già entrato nel lessico del mondo antico a proposito dell’età ellenistica.

Più di cinquanta anni fa, Arnold Toynbee (1889-1975) già ci mostrava come lo studio della storia romana avesse bisogno di un ampliamento della nostra visuale: collegando Roma all’Oriente, fino alla Cina (l’altro grande impero, con cui i Romani intrattennero relazioni diplomatiche e commerciali pur saltuarie) alle civiltà che l’hanno preceduta e a quelle coeve, ma anche, a volte, correndo vertiginosamente nel tempo, fino ai nostri giorni. La parola globalizzazione, che tanto ci affascina e ci tormenta, non era ancora stata inventata, ma studi del genere già mostravano l’impellenza di una storia che allargasse il suo sguardo: in primo luogo, al Mediterraneo, il grande mare visto come luogo di incontro e interazione, di tessuto connettivo di realtà frammentate da un punto di vista economico, culturale ed ecologico (si veda lo splendido The Corrupting Sea. A Study in Mediterranean Sea, di Peregrine Horden e Nicholas Purcell); ma anche, perché no, una storia dai confini ancora più vasti, una connected world history in grado di legare fili apparentemente lontani in un insieme coerente, anche alla luce delle contestazioni che di recente sono state rivolte all’importanza del concetto di Mediterraneo nel mondo greco-romano.

In un tale contesto si inserisce la possibilità di confrontare l’impero romano con il dominio degli Stati Uniti nel mondo di oggi, quale è andato profilandosi dopo la caduta dell’Unione Sovietica. I rozzi e arroganti Romani/Americani vs i colti e imbelli Greci/Europei, Crasso e Bush nel pantano mesopotamico di Carre/Iraq, a causa della loro incompetenza e ignoranza del nemico che andavano ad affrontare; Mitridate/Bin Laden, grandi collettori dell’odio che gli imperi, inevitabilmente, generano; e via ancora, fino ad analisi più raffinate che prendono spunto dalle strutture dell’impero romano per comprendere quelle dell’impero americano e rifletterci sopra, o si soffermano sulla diversa natura e gli eventuali punti di contatto dei due imperialismi.

In mano a giornalisti armati di Bignami e divulgatori dell’ultima ora tali argomenti possono essere esiziali e, da scorciatoie per la comprensione dei Romani (e di noi stessi), possono facilmente trasformarsi in vicoli ciechi. Adoperati invece da chi ha ben presente la distanza che ci separa dai Romani e la loro diversità (fattori che paragoni pur arditi non intendono comunque, in alcun modo, annullare) tali riflessioni comparative possono anche risultare sensate e utili.

Romani e Greci

Fra le tantissime popolazioni che vivevano nell’impero un posto a parte occupavano i Greci: da non intendersi come gli abitanti della Grecia propriamente detta, ma in senso estensivo, come le popolazioni della parte orientale, la più ricca, popolosa ed evoluta, che condivideva l’uso generalizzato della lingua greca. Al fratello Quinto, che ha avuto in sorte il governo della provincia d’Asia, una terra dove si parlava greco e dove la cultura greca era penetrata più che in ogni altra zona dell’impero, Cicerone (106-43 a.C.) fa delle raccomandazioni, incentrate sul ben noto quanto sfuggente concetto di humanitas, quel complesso di conoscenze e atteggiamenti culturali che, detto in breve, distingue l’uomo provvisto di tale bagaglio dai barbari e dagli stessi animali: “Anche se il sorteggio ti avesse preposto al governo di africani, o di spagnoli, o di galli, genti feroci e barbare, tuttavia, in ragione della tua humanitas, avresti il compito di provvedere ai loro vantaggi, assecondare i loro profitti e la loro salvezza; ora però, siccome teniamo soggetta a noi una popolazione di livello talmente elevato che l’humanitas non soltanto è insita in essa, ma si crede che da essa sia stata trasmessa ad altre popolazioni, ci corre l’obbligo, quanto meno, di agire con humanitas specialmente nei confronti di quelli dai quali l’abbiamo ricevuta” (Ad Quintum fratrem, I, 1, 27). L’accettazione del dominio romano, attraverso la formula fortunata e tante volte ripetuta di impero “greco-romano”, che sottintende il primato culturale della parte greca (il cosiddetto patriottismo culturale), nasconde una forte identità di quest’ultima, seconda solo a quella giudaica, che farà sì, per esempio, che non ci sarà mai un imperatore greco, proprio perché i Greci non verranno mai assimilati, non si sentiranno mai Romani.

Ironia della storia: con la divisione dell’impero tra i figli di Teodosio (a Onorio la pars Occidentis, al figlio maggiore Arcadio la più importante pars Orientis), alle soglie del V secolo d.C. (395), con una decisione certo non clamorosa (se è vero che un’ipotesi del genere circolava già alla corte dei Severi due secoli prima, ma all’epoca al più anziano e autorevole – Caracalla – sarebbe toccato l’Occidente), i Greci riceveranno, in un certo senso, il loro impero dai Romani; allora, finalmente liberatisi di questi ultimi, si faranno chiamare Romaioi, come unici eredi rimasti del grande impero romano unificato.

Fine della storia romana

Nonostante continue rivisitazioni e nuove mappature della storia, la data del 476, quando Odoacre (434 ca. - 493) depone il giovanissimo e imbelle Romolo Augustolo (459-476), inviando le insegne imperiali a Costantinopoli (la celebre “caduta senza rumore dell’impero romano” di Arnaldo Momigliano), resiste come spartiacque tra mondo antico e mondo medievale. È una data come un’altra, in un certo senso: il 395, che abbiamo appena ricordato, o il 565, anno in cui muore Giustiniano, il grande sovrano dell’impero bizantino che, nel corso del suo regno, cercò di riunificare l’impero e provvide alla redazione del Corpus Iuris Civilis, sono date altrettanto importanti, in realtà molto più “forti” da un punto di vista evenemenziale.

È importante sottolineare, in ogni caso, che la scelta di interrompere la narrazione della storia romana in una di queste date privilegia in ogni caso una prospettiva occidentale: si tratta infatti di date che sottolineano il ruolo – o la perdita del ruolo – della pars Occidentis dell’impero. Come è a tutti ben noto, infatti, la pars Orientis continua la sua storia, ricca e appassionante, il cui studio è affidato a una disciplina separata, che chiamiamo storia (o civiltà, nella dizione accademica) bizantina: e continua per un altro intero millennio, fino al 1453.

Inserita totalmente nella prospettiva occidentale è la visione della storia spezzata (Aldo Schiavone), che vede nel 476 la data simbolica per rappresentare non solo la fine dell’impero d’Occidente, ma la fine stessa del mondo antico, con un crollo delle strutture economiche e sociali che avrebbero reso inevitabile una nuova ripartenza: un tema enormemente impegnativo e ricco di sfaccettature. Certo, riflettendo, per esempio, sulle vicende demografiche della città-simbolo, Roma, che nei decenni successivi alla prima “profanazione” – il sacco di Alarico del 410, che tanta impressione destò nei contemporanei – scese probabilmente a non più di alcune decine di migliaia di abitanti, da forse un milione che ne contava secoli prima, viene da pensare effettivamente alla fine di un mondo. Ma la grandezza della città eterna rimaneva, nonostante tutto; Rutilio Namaziano (V sec.), che scrive pochi anni dopo il sacco di Alarico ed è costretto ad allontanarsene per tornare in Gallia, nelle terre in cui era nato, trabocca di amore per Roma e la vede ancora come il centro del mondo: “È troppo lungo venerare Roma tutta una vita? Non dura mai troppo a lungo ciò che piace senza fine”. Un sentimento comune a molte persone, ancora per lungo tempo.

I Romani e noi

Anche per la storia romana è legittimo tentare un lavoro di straniamento, sottolineandone aspetti antropologicamente splendidi, che dipingono inevitabilmente i Romani come altri da noi: basti pensare alla descrizione di Polibio dei bizzarri usi funerari delle grandi famiglie aristocratiche, o alla passione morbosa per ludi di spaventosa violenza e degradazione umana, seguiti da milioni di persone in ogni luogo dell’impero. Gli esempi si potrebbero facilmente moltiplicare, ovviamente, riflettendo in primo luogo sulla natura di una società che si reggeva sul lavoro degli schiavi, di milioni e milioni di persone deprivate della loro identità di esseri umani. Ma ugualmente sarà inevitabile concludere che studiare il mondo romano non è come studiare una qualsiasi altra civiltà del mondo antico: soprattutto per la nostra cultura, intrisa di contatti, di legami, di rapporti di ogni genere con la Roma di un tempo, a partire in primo luogo dalla lingua.

Questi legami a volte – e oggi più che mai – sembrano quasi recisi, o quanto meno messi da parte; nondimeno esistono e non potranno mai essere cancellati perché – ci piaccia o no – la storia di Roma costituisce ancora, nonostante la distanza, una parte fondamentale del nostro passato. Toynbee, in un suo celebre saggio sull’Italia dopo la II guerra punica, collegava esplicitamente la questione meridionale italiana alle scorrerie di Annibale nel Meridione. Probabilmente non aveva ragione, ma un esempio come questo ci rende consapevoli di come non sia possibile, in effetti, capire chi siamo senza risalire nel tempo fino a Roma antica: la sua eredità è qui con noi.

Due punti fermi di tale eredità, che non si può evitare di citare: in primo luogo il cristianesimo, che nasce sotto l’impero e, a partire da Costantino, se ne appropria grazie ad un’organizzazione – la Chiesa – sempre più capillare e impressionante, che in Occidente finirà per surrogare le strutture politiche entrate in crisi. Una vera e propria rivoluzione, quella del cristianesimo, “che modificò durevolmente la concezione che gli uomini avevano di se stessi e degli altri […] e noi viviamo ancora sotto il suo effetto” (Robin Lane Fox): una rivoluzione sorprendente e inattesa, che stravolge dalle fondamenta un mondo intriso di una religione politeistica molto più tollerante, molto meno pervasiva.

Secondariamente, il diritto, una straordinaria costruzione intellettuale, per la prima volta isolata in una forma che i suoi esperti, i giuristi (un termine anch’esso inventato dai Romani), codificheranno e garantiranno, preservandone nel contempo – aspetto quanto mai centrale nella sua attualità – la separazione e l’indipendenza da altri campi, quali la politica o la religione.

Tante altre “eredità” possono ancora essere elencate, grandi e piccole; ma forse è opportuno concludere riflettendo sulla struttura stessa dell’impero, che imponeva il rispetto delle minoranze, vale a dire di tutti i popoli che vi vivevano, consentendo loro di servirsi delle proprie leggi e tradizioni (suis moribus legisbusque uti), dandoci così una lezione che suona ancora attuale nel nostro presente.