I Flavi: il primato dell’amministrazione

di Giovanni Salmeri

In un brano degli Annali di Tacito la parsimonia è presentata come la qualità più tipica di Vespasiano, in opposizione al lusso e alla sfrenatezza dei cento anni precedenti. Lontano dai propri predecessori dagli aristocratici ascendenti, anche per essere figlio di un appaltatore d’imposte e originario di Rieti in Sabina, egli inaugura un nuovo stile di governo seguito anche dai suoi figli – Tito e in particolare Domiziano – che vede riservata un’attenzione tutta speciale all’amministrazione dell’impero e alla salvaguardia dei suoi confini.

La parsimonia di Vespasiano

La migliore introduzione alla figura di Vespasiano (9-79) è offerta da un brano di Tacito che si sofferma sui suoi costumi. Lo storico in un capitolo del terzo libro degli Annali ne mette in evidenza la parsimonia definendolo “uomo all’antica nel modo di mangiare e di vestire”. E aggiunge: “Con lui il rispetto verso l’imperatore e il desiderio di imitarlo ebbero più efficacia delle pene minacciate dalle leggi e della paura”. Molto significativamente del resto Tacito nelle righe precedenti aveva scritto che il lusso della tavola nei circa cent’anni dalla battaglia di Azio a Galba era stato sfrenato, e che solo le stragi del 69 con il timore che esse indussero degli effetti del mettersi in mostra contribuirono ad attenuarlo. I veri portatori di questo cambiamento, a parere dello storico, furono uomini nuovi venuti dai municipi, dalle colonie e anche dalle province, e Vespasiano è presentato come il loro campione.

Se però lo stile di vita modesto del capostipite dei Flavi – che tra l’altro lo indusse dopo la morte della moglie Flavia Domitilla a convivere in modo riservato con Antonia Cenide, una liberta di Antonia (la madre di Germanico) – ce lo fa apparire molto lontano dai comportamenti e dalle abitudini sregolate di alcuni dei Giulio-Claudii, quanto ai fondamenti del suo potere non è possibile individuare nulla di inedito o di nuovo rispetto al passato. Un importante, e mutilo, testo iscritto su bronzo, la cosiddetta lex de imperio Vespasiani, che risale ai giorni tra la fine del 69 e gli inizi del 70, elenca infatti le prerogative del princeps – concludere trattati, convocare il senato, avanzare o respingere proposte, raccomandare candidati alle magistrature e porre in atto qualsiasi provvedimento utile allo stato – e si cura di ricordarne i precedenti che risalgono ad Augusto, Tiberio e Claudio, senza peraltro nominare i principes damnati Caligola e Nerone. Lo stesso Vespasiano, inoltre, a pieno conscio del peso della tradizione, nel riparare ai danni provocati dall’incendio appiccato dai vitelliani al Campidoglio, s’impegnò nel fare riprodurre tremila tavolette di bronzo andate fuse per il calore, ordinando di ricercarne dappertutto le copie giacché ai suoi occhi, secondo le parole di Svetonio, “contenendo, si può dire dalle origini di Roma, i decreti del senato e i plebisciti relativi alle alleanze, ai trattati e ai privilegi concessi a chicchessia”, rappresentavano un imprescindibile strumento per l’esercizio del potere.

Anche nella scelta del successore Vespasiano – a differenza di Galba che in assenza di figli si era rivolto al candidato che riteneva il migliore – non si discostò dalla prassi dei Giulio-Claudii favorendo i membri della propria famiglia. Alla fine del 69 i suoi due figli, Tito (39-81) e Domiziano (51-96), furono onorati come principes iuventutis, mentre nel 71 al primogenito Tito il principe fece concedere la tribunicia potestas associandoselo così in qualche modo nel governo dello stato. Nominò inoltre lo stesso Tito prefetto del pretorio, andando contro la consuetudine che voleva questa carica assegnata a un cavaliere, ma neutralizzandone così le potenzialità eversive che erano emerse sotto i Giulio-Claudii.

Una tale linea d’azione non fu accolta favorevolmente da alcuni senatori, e in particolare dagli appartenenti a quella setta stoica, che aveva manifestato il proprio dissenso anche nei confronti di Nerone. Gli stoici, comunque, non erano ostili all’idea monarchica: essi piuttosto erano critici degli eccessi e delle mancanze degli imperatori e dei loro comportamenti poco rispettosi della libertas senatoria, tra cui rientrava l’individuazione del successore nell’ambito della propria famiglia. Il personaggio che pagò maggiormente per la propria opposizione fu il senatore Elvidio Prisco, il genero di Trasea Peto, che fu prima esiliato e poi fatto uccidere da Vespasiano nel 75. Il cavaliere Musonio Rufo, uno dei più rinomati, se non il più rinomato maestro della dottrina stoica della seconda metà del I secolo fu invece esiliato sotto Vespasiano, e poi richiamato da Tito.

Nella difesa dell’impero, superata con il trascorrere dei decenni la visione augustea che prevedeva stati cuscinetto (vale a dire regni clienti o retti da dinasti amici) destinati a creare una fascia che tenesse separato il mondo esterno, il capostipite dei Flavi avviò una nuova politica, proseguita dal figlio Domiziano, che ebbe di mira il consolidamento dei confini. È stato da più parti sottolineato come il confine, nei decenni finali del I secolo, con la riduzione in province di diverse aree marginali, abbia progressivamente assunto una dimensione “lineare”, sia cioè venuto a costituire un limite – limes è del resto il termine latino usato per confine – in rapporto sia al processo di espansione sia agli attacchi di genti barbare, producendo un significativo cambiamento nell’organizzazione del sistema difensivo e nella dislocazione delle legioni. All’interno di questo quadro generale va collocata l’azione di Vespasiano in Oriente che cancellò regni clienti come quello di Commagene, in controllo dei guadi sull’Eufrate, annesso alla provincia di Siria nel 72, e costituì nel 74 la provincia di Cilicia semplificando una situazione caratterizzata per l’innanzi dalla presenza di vari principi e dinasti. Dal punto di vista squisitamente militare, ancora in Oriente, Vespasiano nel 70 assestò un colpo mortale alla rivolta dei Giudei della cui repressione era stato incaricato da Nerone: tra la fine di agosto e l’inizio di settembre di quell’anno, infatti, suo figlio Tito conquistò Gerusalemme, distruggendo il Tempio e dirottando su Roma i contributi ad esso versati. Il trionfo de Iudaeis fu celebrato dai Flavi nel giugno del 71, e un’“istantanea” del corteo, con la rappresentazione dei tesori del Tempio e di un candelabro a sette braccia, ci è offerta da uno dei rilievi dell’arco di Tito nel Foro Romano. Anche dopo il trionfo, comunque, le operazioni continuarono in Palestina, giacché alcune roccaforti in mano ai ribelli continuavano a opporre resistenza. Il conflitto si concluse nel 73 con la presa di Masada, una fortezza impressionante che guarda al Mar Morto da quattrocento metri di altezza, difesa eroicamente da uomini che per evitare di essere presi dal nemico decisero di suicidarsi.

In Occidente invece nel 70, nell’area renana, venne repressa la rivolta del capo batavo Giulio Civile che come Arminio, il vincitore di Teutoburgo, aveva militato nelle truppe ausiliarie romane. Nel clima incandescente del 69 egli si era inizialmente schierato dalla parte dei Flavi, ma dopo la vittoria di Antonio Primo a Bedriaco riuscì a fare insorgere contro Roma popolazioni galliche e germaniche e costituì, secondo la definizione di Tacito nelle Storie, un vero e proprio imperium Galliarum, che ebbe però vita molto breve. I generali Petilio Cereale e Annio Gallo, al comando di otto legioni, lo sconfissero infatti a Castra Vetera e lo costrinsero alla resa.

Quanto all’amministrazione dell’impero, l’obiettivo di Vespasiano – nelle parole di Svetonio – sarebbe stato quello di “rafforzare (stabilire) lo stato quasi abbattuto e vacillante, e poi di abbellirlo (ornare)”, un obiettivo di tipo pragmatico che risulta in perfetto accordo con la parsimonia, cioè a dire la morigeratezza, attribuita all’imperatore da Tacito. Vespasiano, dunque, in primo luogo si preoccupò di risanare le finanze dello stato dopo i dissesti dell’epoca neroniana e del 69, e naturalmente senza complessi ragionamenti di tipo economico impensabili ai tempi: molto concretamente sul versante delle entrate egli cercò di raggiungere il risultato con l’aumento, a volte addirittura con il raddoppiamento, dei tributi dovuti dalle province e con l’introduzione di nuove tasse su specifiche attività o servizi, come quelle sulle latrine (vectigal urinae). Il principe, inoltre, s’impegnò a recuperare i terreni pubblici abusivamente occupati dai privati – subseciva era il loro nome nelle colonie – che furono per lo più destinati alla vendita. Sul versante delle spese, invece, pur guidato da un criterio di rigore, Vespasiano non rinunziò, specie a Roma, ai grandi progetti come la costruzione di un maestoso anfiteatro, il Colosseo, nell’area della Domus aurea neroniana, o la ricostruzione del Campidoglio incendiato nel 69, o il ripristino degli acquedotti innalzati da Claudio. In tal modo, senza sfigurare nel confronto con i suoi predecessori, egli provvide ad abbellire la città legando il suo nome a importanti edifici.

Oltre che dell’immagine di Roma, Vespasiano si prese anche cura, nel corso della sua censura del 73-74, di colmare i vuoti lasciati nel senato dagli anni neroniani e dal 69: intercettando il processo storico – di cui egli stesso originario di Rieti era stato il prodotto – che in parallelo alla scomparsa delle grandi famiglie romane lasciava che emergessero le figure dei notabili delle principali città dell’Italia e delle province, in primo luogo di quelle occidentali, egli aprì il supremo consesso a forze nuove che erano in possesso di una mentalità più disposta ad assecondare la politica del principe e che annoveravano nelle proprie file alcuni abili viri militares, divenuti ormai figure chiave nella conduzione dell’impero. Deve essere chiaro, comunque, che né a Vespasiano né ad alcun altro imperatore si può attribuire il merito di aver programmato l’entrata in senato dei provinciali prevedendone i risultati: fu tutta la storia di Roma degli ultimi tre secoli, con il suo succedersi di conquiste, con le sue diverse forme di presenza e intervento in Oriente e in Occidente, che fece sì che nella seconda metà del I secolo d.C. i provinciali più rappresentativi cominciassero a divenire parte a pieno titolo della classe dirigente dell’impero sostituendo la declinante aristocrazia romana. Nella stessa ottica la concessione da parte di Vespasiano del diritto latino (ius Latii) a tutte le province della Spagna, che assicurava ai magistrati delle varie comunità l’acquisizione della cittadinanza romana, va considerata come un provvedimento in linea con l’antica tradizione dell’Urbe favorevole all’allargamento della cittadinanza, e non come un espediente per aumentare il gettito fiscale.

Dopo così numerosi interventi e realizzazioni, e dopo tanti imperatori uccisi in congiure o suicidatisi, Vespasiano morì nel suo letto nel giugno del 79. A succedergli fu il figlio Tito.

La clemenza di Tito

Nonostante la brevità della sua permanenza sul trono, Tito è da annoverare tra gli imperatori romani che hanno maggiormente attratto l’attenzione di artisti e scrittori moderni: alla radice di ciò sta forse in primo luogo il ritratto contraddittorio – dunque altamente passibile di elaborazione – che di lui ha tracciato il biografo Svetonio opponendo i suoi due anni di regno a quelli della sua vita precedente. Così scrive l’autore latino: “Tito […] fu l’amore e la delizia del genere umano, tanto grande fu la sua capacità di guadagnarsi – vuoi per doti innate, vuoi per sua capacità, vuoi per buona fortuna – la benevolenza di tutti e cosa che è senz’altro difficilissima, nel periodo in cui fu imperatore. Come privato cittadino, e anche sotto il regno di suo padre, non sfuggì infatti all’odio e alle critiche violente della cittadinanza”.

Sebbene figlio di un senatore originario di Rieti e non appartenente alla nobilitas, valente uomo d’armi però, Tito fu educato a corte insieme a Britannico (41-55), il rampollo di Claudio, e acquisì quel comportamento violento e dissipato tipico della jeunesse dorée della capitale dell’impero, che in lui si consolidò negli anni neroniani. E mentre il padre Vespasiano sedeva sul trono non ebbe pietà di oppositori e nemici, che non di rado ordinò di sopprimere. A determinare l’abbandono da parte di Tito delle abitudini giovanili si può supporre sia stata la successione al padre e l’assunzione di una grande responsabilità, quella cioè di regere imperio populos, secondo un comportamento simile a quello già notato per Otone (32 ca. - 69) e ancor più a quello di Petronio che, nel profilo datone da Tacito, è irreprensibile come proconsole di Ponto e Bitinia e come console, mentre quando non ricopre cariche è un raffinato e spregiudicato cultore dei piaceri della vita. Al di là di qualsiasi interpretazione se ne possa dare, sulla base delle fonti a nostra disposizione resta comunque centrale nella vita di Tito la svolta che, novello principe, lo portò a mettere in mostra un alto senso del dovere e una non comune disponibilità a venire incontro alle esigenze dei propri sudditi.

Una delle prime manifestazioni del senso del dovere – o forse meglio dello stato – dell’erede di Vespasiano fu la rottura del legame che da dieci anni lo univa alla principessa giudea Berenice, una creatura avvolta di mistero. Dopo che era andata in sposa a uomini importanti e influenti come il fratello di un prefetto d’Egitto e un re sacerdote di Olba in Cilicia, ed era anche stata accusata di incesto con il fratello Giulio Agrippa II, Tito l’aveva incontrata in Palestina mentre era impegnato con il padre nella repressione della rivolta giudaica. Ebbe così inizio una delle più tormentate storie d’amore dall’antichità.

Berenice, come altri membri della sua famiglia, si era schierata dalla parte dei Romani, ma in seguito alla conquista di Gerusalemme del 70 d.C., nell’Urbe non poteva non essere assimilata al suo popolo vinto. Eppure Tito non ruppe, anzi rafforzò, il vincolo con la principessa straniera. Solo quando ascese al trono, per non urtare la suscettibilità del senato e del popolo, assumendo insomma una prospettiva politica, si separò da Berenice. Come scrive Svetonio: “Allontanò immediatamente da Roma Berenice, contro la propria volontà e contro quella di lei (invitus invitam)”. Questa vicenda colpì a tal punto l’immaginario dei posteri che un autore dalla grande sensibilità come Racine (1639-1699) dedicò alla passione di Tito e della principessa uno dei drammi più commoventi del Seicento: Bérénice.

Divenuto imperatore, in Tito sembra anche essersi dileguato quel comportamento violento e vendicativo che in precedenza lo aveva indotto a sopprimere brutalmente Cecina Alieno sospetto di una congiura contro Vespasiano. Subentrò in suo luogo – di certo favorita da riflessioni di ordine politico relative alla sua opportunità – una disposizione alla clemenza che portò, tra l’altro, l’imperatore, caso più unico che raro nella storia di Roma, a non condannare a morte alcun senatore e a scoraggiare i delatori con punizioni e limitazioni varie. Un atteggiamento questo che ha dato lo spunto per la trama, di grande fantasia, dell’opera mozartiana La clemenza di Tito, che vede un imperatore romano fungere da precursore e modello di un principe settecentesco. Essa infatti fu composta per l’incoronazione a re di Boemia nel 1791 di Pietro Leopoldo di Toscana (1747-1792), che come granduca cinque anni prima era stato il primo sovrano europeo ad abolire il delitto di lesa maestà, la tortura e l’esecuzione capitale.

La munificenza di Tito come imperatore si manifestò soprattutto in occasione delle sciagure che funestarono il suo regno. Al 24 agosto del 79 risale l’eruzione del Vesuvio che cancellò vari centri della Campania, tra cui Pompei, Stabia ed Ercolano. Tito accorse subito sui luoghi del disastro, e in gran parte con il suo patrimonio provvide agli interventi necessari. L’anno successivo un furioso incendio divampò a Roma, e nonostante le offerte di privati e persino di principi stranieri, l’imperatore si assunse in prima persona l’intera spesa della ricostruzione. Come se non bastasse, alla fine dello stesso 80, un’epidemia colpì Roma, e Tito s’impegnò personalmente nell’opera di soccorso e nella pratica dei riti espiatori. Sempre nell’80, comunque, venne inaugurato il Colosseo con feste e spettacoli in gran numero: anche in questa occasione l’imperatore mostrò la sua generosità, certo con maggior gioia che nelle altre.

La presentazione del regno di Tito da parte dagli autori antichi come un regno in cui i sudditi non furono vessati e godettero di una certa felicità, è stata a volte posta in discussione, ma mai in modo radicale. Qualcuno, ad esempio, ha pensato che la definizione dell’imperatore data da Svetonio di “amore e delizia del genere umano” sia stata dettata soprattutto dal confronto con il quindicennio di potere dispotico del suo successore, il fratello Domiziano. Senza alcuna pretesa di risolvere la questione, qui si può concludere rimandando alla “saggia” riflessione del senatore greco Cassio Dione (163-230 ca.) – autore della più completa storia di Roma mai scritta nell’antichità, a noi giunta solo in parte – secondo il quale la fama che Tito si guadagnò come imperatore va con molta probabilità attribuita al fatto che egli sedette sul trono solo per poco più di due anni fino alla sua morte nel settembre dell’81, e perciò non ebbe molto tempo a disposizione per compiere azioni malvagie e disdicevoli.

Domiziano, l’amministratore e il despota

Diversamente dal fratello Tito, a cui succedette senza problemi di sorta, Domiziano non ha avuto dalla maggior parte delle fonti un trattamento positivo: insieme a Nerone si può anzi dire che sia stato l’imperatore più vituperato. Autori latini come i senatori Tacito e Plinio il Giovane, che furono attivi nel corso del suo regno, esprimono su di lui un punto di vista fortemente ostile; mentre il retore greco Dione di Prusa non esita a considerarlo un tiranno. Anche il biografo Svetonio non è tenero nei confronti di Domiziano, eppure attraverso alcune notizie che fornisce nel suo testo, che trovano riscontro in iscrizioni e monete, consente di ricostruirne un profilo in cui la cura per l’amministrazione civile e per l’apparato militare assumono il meritato rilievo. I poeti Marziale e Stazio, d’altronde, estranei al coro delle voci contrarie e per questo solitamente definiti adulatori di Domiziano, lasciano intravedere una vita culturale e artistica nel corso del suo regno per nulla da disprezzare.

Grandi furono lo scrupolo e la diligenza, per usare le parole di Svetonio, con cui il principe, nonostante le défaillances della sua vita privata (basti pensare alla sua discussa convivenza con la nipote Giulia figlia di Tito), si applicò al controllo della morale pubblica, in specie di quella sessuale: tra l’altro punì severamente le vergini vestali che avevano infranto il voto di castità; combatté la prostituzione; impose il divieto dell’evirazione. Nel campo più specificamente amministrativo, invece, Domiziano, ampliando le competenze dell’ordine equestre secondo una tendenza in atto già da tempo, affidò a suoi rappresentanti anziché a liberti, com’era stato in precedenza, la direzione di uffici del Palazzo come quelli dell’ab epistulis e dall’a rationibus, e in tal modo ne favorì la conduzione secondo criteri burocratici piuttosto che privatistici. Nel settore giudiziario fu in special modo favorevole a perseguire gli abusi dei magistrati cittadini e dei governatori provinciali ottenendo significativi successi, almeno a parere ancora una volta di Svetonio, accompagnati dall’approvazione dei sudditi. Attenzione per le condizioni di vita di questi ultimi è poi testimoniata da un provvedimento di Domiziano rivolto a vietare l’impianto di nuovi vigneti in Italia e a ordinare la distruzione di metà di quelli esistenti nelle province. Per lo più ritenuto dai moderni come destinato a favorire gli interessi dei viticultori italiani, l’intervento del principe, sulla base di quanto si ricava dalle fonti antiche, appare piuttosto discendere dalla sua volontà di individuare un rimedio alle difficoltà causate dalle annate di carestia che all’inizio degli anni Novanta crearono gravi problemi in Asia Minore. Assumendo un’ottica moralistica, e non dettata da ragionamenti economici, Domiziano pensò che impedire l’espansione dei vigneti nella penisola e mettere a disposizione nuovi terreni per la coltura dei cereali nelle province potesse rappresentare la soluzione; la sua decisione ebbe comunque una brevissima validità.

L’accortezza di Domiziano come amministratore si manifestò anche nella cura per gli aspetti finanziari e nell’attenta sorveglianza delle casse dello stato, che gli consentirono di mettere in atto una misura molto impegnativa, l’aumento cioè di un terzo della paga dei soldati, il primo dall’inizio del principato. Il principe si conquistò così il favore dei militari, ma non bisogna dimenticare che ad esso contribuì anche il suo impegno personale nella conduzione di alcune campagne belliche. All’83 risale quella vittoriosa contro i Chatti, una popolazione germanica residente sulla riva destra del Reno, che si concluse nell’85 e fu seguita dalla realizzazione di quella poderosa struttura che fu il primo limes germanico. Esso consisteva di una rete di forti affidati a truppe ausiliarie, di strade, di palizzate, collocati dinanzi agli accampamenti delle legioni e destinati a consolidare la linea di confine. A questa sistemazione può essere collegata la nascita, non oltre il 90, della Germania Superiore e della Germania Inferiore in quanto regolari province.

Sempre nell’85 divenne zona di operazioni l’area danubiana, dove i Daci invasero la provincia di Mesia sconfiggendo e uccidendo il governatore Oppio Sabino. Domiziano fu presente nella regione nell’85 e nell’86, ma perché la situazione fosse a pieno ristabilita a favore dei Romani si dovette attendere la vittoria di Tettio Giuliano, governatore della Mesia Superiore, che nell’88 sconfisse il re dei Daci Decebalo a Tapae in Transilvania. Da questa vittoria però non si poté trarre alcun vantaggio, a causa della ribellione delle popolazioni germaniche dei Marcomanni e dei Quadi, stanziate a ridosso della Pannonia, che richiese l’intervento di Domiziano, e che obbligò ad una pace affrettata con il re dei Daci – etichettata come vergognosa dalle voci critiche del principe – che contemplava la corresponsione di grosse somme di denaro allo straniero, il quale a sua volta s’impegnava a entrare nella sfera d’influenza romana senza assumere posizioni ostili.

Qualche anno dopo nel 92 una legione venne annientata in Pannonia dalla popolazione sarmatica degli Iazigi, che furono comunque sconfitti personalmente dal principe e ricacciati oltre il confine. In tutt’altra area, in quella Britannia cioè, conquistata da Claudio, che non era mai stata facile da governare per Roma, Gneo Giulio Agricola – per il quale il genero Tacito avrebbe composto un elogio di grande profondità storica – proseguì nell’espansione verso nord e nella riorganizzazione della provincia, sino a quando dopo sette anni in carica come legato non fu richiamato a Roma dal principe nell’84.

Molto attento dunque alle questioni amministrative e a pieno cosciente dell’importanza rivestita dalla saldezza dei confini dell’impero, Domiziano non fu invece in grado di stabilire un rapporto fondato sulle ragioni della politica con i rappresentanti dell’ordine senatorio. Anziché mostrare nei loro confronti – come avevano fatto il padre e ancor più il fratello – quel rispetto formale indispensabile per superare attriti e contrapposizioni, egli non seppe o non volle camuffare la sua visione autocratica del potere imperiale. Essa si manifestò in vari modi: dall’assunzione per ben dieci volte del consolato da parte sua durante gli anni di regno, all’esplicita pretesa dell’appellativo dominus et deus, all’uso di indossare gli abiti trionfali in senato e soprattutto all’autonomina a censor perpetuus nell’85, attraverso la quale il principe rese evidente la sua volontà di controllo permanente del supremo consesso. A ciò si aggiunga la reazione durissima alla ribellione del legato della Germania Superiore Lucio Antonio Saturnino nell’89: lo stesso Domiziano si mosse per reprimerla, ma essa lo rese ancora più sospettoso che nel passato di insidie e tradimenti. Almeno dodici ex consoli furono eliminati nel corso del suo regno; nel 93 in particolare furono tra le vittime i senatori Elvidio Prisco junior, figlio dell’Elvidio Prisco mandato a morte da Vespasiano, Aruleno Rustico ed Erennio Senecione, tutti e tre appartenenti alla setta filosofica stoica, condannati per lesa maestà o partecipazione a congiure. Nel 95 fu invece la volta di Flavio Clemente, cugino di Domiziano e padre dei due successori designati del principe: l’accusa che gli venne rivolta fu quella di atheotes, cioè di empietà (verso la religione dello stato), che ha fatto supporre una sua vicinanza addirittura al cristianesimo, ma su ciò non vi è alcuna certezza. La morte colse Domiziano il 18 settembre del 96: egli venne ucciso in modo prevedibile in seguito a una congiura a cui avevano aderito alcuni senatori, i prefetti del pretorio, funzionari degli uffici del Palazzo, e molto probabilmente anche sua moglie Domizia Longina. Gli succedette un anziano e navigato senatore di rango consolare, discendente da una famiglia originaria dell’Umbria, Cocceio Nerva, scelto dai congiurati di comune accordo. Si conclusero così i ventisette anni di governo di una dinastia non originaria della città di Roma, che in specie con Domiziano mostrò per le province, per la loro amministrazione e per la loro rilevanza strategica un’attenzione non trascurabile.

Vedi anche
Augusto: il fondatore dell’impero
I Giulio-Claudii: il consolidamento dell’impero e le origini del cristianesimo
La cristianizzazione dello stato
La resistenza del paganesimo
Seneca e lo stoicismo latino
Senso dell’ordine e dominio del mondo nell’arte flavia
Cammini della curiosità da Svetonio ad Apuleio
Spettacoli ed esecutori nella Roma imperiale
Eventi sonori e politica nella Roma imperiale