I

I GIORNI PRECEDENTI

Nei primi giorni del febbraio 1945 l’aria frizzante di Dresda sapeva di fumo. Benché in tempo di guerra i rifornimenti di carbone non fossero mai garantiti, le stufe e le caldaie della città stavano combattendo contro il gelo del mattino. La neve era sparita, ma il freddo mutava ancora ogni respiro in una bianca nuvoletta. I ciottoli intorno alla Frauenkirche, umidi e insidiosi, costituivano un potenziale pericolo per chi camminava con le mani affondate nelle tasche del soprabito. Gli anziani signori che, mantenendo un simulacro di normalità borghese, si recavano ogni mattina al lavoro, cappello in testa, nelle banche e compagnie d’assicurazione nei pressi del Mercato Vecchio, stavano ben attenti a dove mettevano i piedi.

Altri, per quelle stradine, si muovevano a passo più sciolto. Gerhard Ackermann, un adolescente intento in quel momento a schivare i tram elettrici crema e marrone e i carretti in legno dei fruttivendoli, era riuscito a passare al cinema le ore migliori del fine settimana. Molti tedeschi, in quei giorni, s’immergevano famelici nei mondi alternativi evocati dal cinema. Ackermann aveva visto In flagranti. Screwball comedy, piena di farseschi colpi di scena, in cui un segretario diveniva un investigatore privato, In flagranti fu uno degli ultimi film prodotti sotto il regime nazista, ed era stato girato qualche mese prima.1

Durante quell’inverno s’erano proiettati film in tutti i diciotto cinema di Dresda. Uno dei più maestosi era l’Universum Kino, una sala da mille posti con una clientela d’alto livello. Il cinema era perlopiù la passione dei membri delle classi operaie, ma accadeva che drammi in costume e adattamenti di romanzi classici attraessero in sale come l’Universum anche le classi medie.2 In flagranti fu l’ultimo film proiettato a Dresda prima che i nazisti ordinassero la chiusura di tutti i cinema del paese.3 Il biglietto del giovane Ackermann stava per divenire un souvenir.

In ogni caso, per molti anziani in città l’evasione era uno sforzo troppo grande. Essi sapevano istintivamente, e con un senso di vertigine, che l’ordine delle cose, il mondo che conoscevano, sarebbe crollato da un momento all’altro. Vedevano con i propri occhi il ritmo febbrile che s’era impadronito di Dresda: il flusso costante, lungo le larghe strade principali e sui ponti, di camion che portavano da un capo all’altro della città, e poi verso Est, giovani soldati tedeschi e armamenti; i cavalli esausti che, trascinando carri su cui si ammassavano famiglie non meno esauste di profughi provenienti dalla campagna, si facevano penosamente strada nella direzione opposta.

A dettare tutto questo movimento era un’urgenza vera. In Polonia l’Armata Rossa, sotto la guida del maresciallo Georgij Žukov, aveva varcato l’Oder; lo sbalorditivo, strabiliante impeto dell’avanzata dei sovietici proseguiva senza tregua da metà gennaio, quando avevano sfondato le linee tedesche come si sfonda con un’ascia una porta marcia. A ovest americani e britannici, dopo l’offensiva delle Ardenne, avevano rinnovato la pressione facendosi strada attraverso gelide foreste e piccole città.

Molti tedeschi stavano iniziando a pensare alla prospettiva di un’occupazione americana con una certa ambivalenza, ma quella di una conquista sovietica suscitava autentica paura. Circolavano già voci sul gusto sociopatico con cui all’Est i soldati dell’Armata Rossa s’erano avventati su innumerevoli donne, e anche uomini. Nessuno dei contadini e dei braccianti tedeschi di quelle regioni, in fuga con le famiglie dall’ineluttabile avanzata nemica, poteva sapere che il loro futuro e quello della loro nazione veniva deciso proprio in quel momento in una località balneare sul Mar Nero oltre 2000 chilometri a sudest di Dresda, a Jalta, dove, in un palazzo un tempo riccamente decorato, Iosif Stalin, Winston Churchill e Franklin D. Roosevelt, giallo in volto e visibilmente malato,4 stavano discutendo nei dettagli di come la Germania sconfitta dovesse essere governata e tenuta sottomessa: il paese sarebbe stato diviso in quattro zone d’occupazione, americana, britannica, francese e sovietica, e governato in base a principi scrupolosamente democratici. Alla conferenza gli alti comandanti di Stalin chiesero che per ostacolare i movimenti tedeschi verso est, Dresda, importante snodo per i trasporti e città destinata a essere inclusa nella sfera d’influenza sovietica, divenisse un bersaglio privilegiato per le forze angloamericane.5

In quella fase del conflitto stava divenendo evidente che le squadriglie di bombardieri pesanti erano già qualcosa di antiquato: il futuro della guerra era nelle mani dei fisici. Gli americani erano ormai in procinto di produrre in segreto l’arma atomica cui anche i nazisti, senza successo, si erano sforzati di giungere. Sempre in segreto, Stalin era tenuto pienamente informato sul lavoro in corso nei laboratori di Los Alamos, nel New Mexico, dallo scienziato e simpatizzante comunista Klaus Fuchs.

Per i civili tedeschi doveva essere difficile immaginare distruzioni più immani di quelle già avvenute e in corso. Il 6 febbraio 1945 l’8a forza aerea statunitense compì incursioni devastanti su Chemnitz e Magdeburgo. In quest’ultima città, situata sull’Elba circa 220 chilometri a nordovest di Dresda, i quartieri storici erano già un cumulo di macerie; il mese precedente, durante un raid a largo raggio contro una raffineria di petrolio, la sua imponente architettura civile, nonché innumerevoli case e palazzi, erano stati divorati dalle fiamme.6

Nonostante i bollettini radiofonici quotidiani parlassero dell’accanita resistenza tedesca alle scorrerie alleate e i giornali rassicurassero i lettori che l’aggressione angloamericana sarebbe stata fermata, ogni abitante di Dresda sapeva che la città stava ricevendo da parte del nemico un’attenzione sempre maggiore: come doveva ricordare Dieter Patz, allora undicenne, gli aerei da ricognizione si stagliavano «argentei contro il cielo».7 Le madri cercavano di proteggere il più possibile i loro figli dalla guerra. Frieda Reichelt, in attesa di un altro bambino per marzo, aveva una figlia di dieci anni di nome Gisela, che avrebbe in seguito ricordato: «Non vedevo l’ora che arrivasse il nuovo fratello. Dresda sembrava lontana dalla guerra e ai bombardamenti non facevamo molto caso. Mia madre, per quanto le fu possibile, mi permise di avere una bella infanzia».8

Malgrado l’ostentata indifferenza di tanti cittadini, Dresda aveva già subito incursioni americane, una nell’autunno del 1944 e un’altra il 16 gennaio 1945; in entrambi i casi gli aggressori erano comparsi nel cielo di giorno e avevano ucciso diverse centinaia di persone. I bersagli principali erano stati i vasti scali di smistamento non lontani dall’ospedale Friedrichstadt. Ad accrescere la tensione, le sirene del sistema di preallarme della città ululavano nevroticamente, e inutilmente, nel buio quasi ogni notte, rendendo per molti impossibile dormire. Anche se Dresda era parsa per alcuni anni lontana dalla guerra, ai suoi abitanti il conflitto veniva costantemente ricordato, anche mentre erano immersi nei loro sogni.

I notiziari serali secondo cui superiori forze tedesche stavano sbarrando il passo all’Armata Rossa erano contraddetti dalle voci che, sussurrate, dicevano che Berlino poteva cadere da un momento all’altro. Senza che gli abitanti di Dresda lo sapessero, le autorità di Berlino avevano recentemente designato la città «area difensiva»,9 il che significava che nel caso di una massiccia incursione sovietica i soldati tedeschi avrebbero dovuto fare delle sue strade e piazze un campo di battaglia. Dresda, che aveva una popolazione di circa 650.000 abitanti, più o meno la stessa di Manchester in Inghilterra o Washington, fu dichiarata parte della linea dell’Elba che, sotto il comando del generale Adolf Strauss, seguiva il corso del fiume da Praga e attraverso la Germania fino ad Amburgo: un fronte che in teoria i tedeschi avrebbero dovuto tenere a costo di un bagno di sangue.

Molti a Dresda, in quelle silenziose serate di oscuramento, immaginavano di sentire il rumore della morte echeggiare dalle lontane colline. Si raccontavano orribili storie di stupri e mutilazioni in serie, ed erano storie vere. L’Armata Rossa era a un centinaio di chilometri dalla città. Hertha Dietrich, una donna nubile che viveva nella casa di un direttore di scuderie in pensione, era in ansia: non potendo sopportare l’idea che Dresda cadesse in mano a gente del genere, disse che avrebbe «portato il vecchio da propri conoscenti» più a ovest.10

E a quanti in città era arrivata voce che, solo pochi giorni prima, i sovietici in avanzata s’erano imbattuti in un campo di concentramento nazista? Il professor Victor Klemperer e sua moglie avevano certamente saputo dell’orrore di Auschwitz, di come i soldati sovietici, esplorando il campo abbandonato, vi avessero trovato migliaia di scheletri viventi, prigionieri lasciati lì a morire. La raccapricciante scoperta risaliva al 27 gennaio. Le voci erano arrivate anche a Dresda, dando a Klemperer la conferma che le sue paure erano giustificate. Quando, negli ultimi anni, la Gestapo aveva detto ai suoi amici e vicini di fare le valigie per un breve viaggio, sapeva che sarebbero stati mandati verso la morte.11

I pochi ebrei rimasti a Dresda s’erano visti confiscare i loro beni ed erano stati stipati in apposite case, fatiscenti e divise in minuscoli appartamenti. Fredde e misere, quelle abitazioni erano rifornite di gas solo a intermittenza, per cui riscaldare l’acqua era un’impresa, e, per di più, i loro abitanti potevano essere soggetti a violente ispezioni da parte delle autorità in qualsiasi momento del giorno e della notte. Klemperer aveva visto consegnare documenti di «deportazione» a un grandissimo numero di ebrei, ed era stato testimone del ridursi della popolazione ebraica dalle migliaia di persone di prima della guerra a poco più di qualche decina. Molti a Dresda nutrivano i suoi stessi sospetti, ma tutti sapevano che parlare apertamente di cose del genere non era saggio. Sia la Gestapo locale sia la polizia avevano l’autorità di giustiziare chiunque fosse sospettato di tradimento, e nuocere al morale era considerato tradimento.

La vita quotidiana obbligava già a vedere e non vedere, udire e non udire, ma la dissoluzione delle comuni norme borghesi stava assumendo ora forme sorprendenti. Si potevano vedere i profughi provenienti dalla campagna, che si radunavano nella grande stazione ferroviaria centrale, accovacciarsi a defecare nei vicoli adiacenti: le code per i bagni della stazione erano troppo lunghe. Non era il genere di spettacoli cui gli schizzinosi cittadini di Dresda erano abituati ad assistere.

Il dottor Albert Fromme, sessantaquattro anni, vedeva arrivare nel suo ospedale, ammalati e disorientati, un numero sempre maggiore di profughi provenienti dalla Slesia, fermati nel corso del loro viaggio verso ovest. Fromme era il principale chirurgo del Friedrichstadt, i cui rigogliosi giardini si stendevano fra l’Elba e gli scali di smistamento. (Nonostante il conflitto, l’ospedale era ancora aperto a tutti.) Tra le difficoltà cui doveva fare fronte c’erano l’ansia per le scorte di medicine e antidolorifici e il fatto che le forniture di carburante per gli edifici ospedalieri stavano facendosi sporadiche.

Il dottor Fromme era tra i cittadini più influenti di Dresda. Soltanto un anno prima era stato nominato presidente della Società tedesca di chirurgia e aveva fondato in città una rinomata accademia per medici. Questo, tuttavia, non ne faceva un membro dell’establishment perché non era mai stato iscritto al Partito nazista. La sua casa era piena di sobri dipinti a olio e una grande varietà di libri. Secondo i suoi figli, era un uomo riservato: quando tornava a casa per il pranzo, come avveniva ogni giorno, si aspettava di trovarvi tranquillità e decoro, il che non stupisce, considerata la sua esperienza di medico nella prima guerra mondiale, quando non solo aveva assistito nelle trincee alle scene più turpi, ma s’era sforzato con tutto se stesso di salvare uomini passati attraverso le più atroci sofferenze. Come avrebbe potuto non essere un uomo severo?

In quel periodo il suo lavoro a Dresda non gli lasciava un attimo di tregua. Ogni giorno, mentre percorrevano i corridoi dell’ospedale, dall’aria pungente che sapeva di disinfettante, lui e i suoi colleghi più giovani si trovavano di fronte a problemi logistici che in tempo di pace sarebbero potuti sembrare insormontabili. Ma, come tutti in città, anch’egli s’era in qualche modo adattato a vedere il suo vecchio mondo sottosopra.

A pochi passi dall’affollato ospedale c’era un’altra venerabile istituzione di Dresda, la possente fabbrica Seidel und Naumann, attraverso i cui cancelli entrava e usciva ogni giorno una moltitudine di operai. Da tempo un nome familiare – il dottor Fromme si fidava ciecamente di uno dei prodotti qui realizzati con massima cura: la sua macchina da scrivere personale –, nel febbraio 1945 produceva quasi esclusivamente per la guerra.

Al di sopra del complesso della Seidel und Naumann dominavano l’orizzonte due grandi ciminiere, echi industriali delle guglie della cattedrale della città vecchia, meno di un chilometro a est. Ma c’erano anche altri echi, di eleganza. Gli edifici della fabbrica avevano un’austera dignità: a guardarli dall’esterno sembravano un po’ grandi condomini. Formavano un enorme quadrato al cui centro uno spazio aperto permetteva alla luce di giungere in ogni reparto. Prima della guerra – anzi, prima dell’inizio del secolo – l’azienda produceva articoli per la casa dagli elaborati dettagli e di splendido disegno. Le sue macchine da scrivere, vendute sotto le etichette «Ideal» ed «Erika», venivano esportate in tutta Europa, e anche le sue macchine da cucire si potevano trovare nei salotti dell’intero continente. Le sue biciclette godevano da tempo di grande popolarità. Inoltre, l’azienda s’era dimostrata non meno innovativa in tema di relazioni industriali. La Seidel und Naumann forniva ai suoi lavoratori non solo una grande mensa dove venivano serviti pasti nutrienti, ma anche un servizio sanitario aziendale e gite ricreative.

Prima dello scoppio della guerra le sue officine di Dresda davano lavoro a circa 2700 persone, soprattutto di sesso maschile, ma in seguito la composizione della manodopera che varcava quotidianamente i cancelli della fabbrica nella Hamburger Strasse era molto cambiata. In assenza di uomini in età da combattere, la stragrande maggioranza dei lavoratori era costituita da donne, per molte delle quali, ebree ma anche tante provenienti dall’URSS, il lavoro era forzato. Durante la guerra la manodopera aveva subito, giorno dopo giorno, un inesorabile degrado, e nel 1945 quei lavoratori schiavi – macilenti, spettrali, malvestiti – erano ormai in qualche modo accettati dagli abitanti di Dresda come parte della quotidianità. Anche la natura del lavoro nelle fabbriche era cambiata radicalmente. E il carattere dei prodotti finiti, da spolette per shrapnel a detonatori per cariche di profondità e cannoni antiaerei, era tenuto rigorosamente segreto anche a coloro che lavoravano lunghe ore a produrne i componenti. Tanto l’offerta quanto la domanda di articoli per la casa erano comprensibilmente crollate.

A Dresda, tuttavia, c’erano ancora uomini in età da prestare servizio militare che, invece, lavoravano. Il padre dell’undicenne Dieter Patz era impiegato in un’officina per la lavorazione dei metalli relativamente poco distante, specializzata in strumenti complessi. Il ragazzo era convinto che egli lavorasse «in una fabbrica di forbici».12 La verità, ovviamente, era alquanto diversa: l’impianto era stato convertito da anni alla produzione un po’ più delicata di componenti di armi, e i suoi abili operai avevano ora doveri extra, fra cui la partecipazione obbligatoria alle riunioni del Volkssturm al termine di ogni giornata.

Il Volkssturm era, nel senso più ampio, l’ultima ridotta delle forze armate tedesche: ne facevano parte tutti coloro che per un motivo o per l’altro non erano stati arruolati. Ogni città e quartiere aveva il proprio plotone di uomini spesso di mezz’età o già anziani. L’organismo, che non aveva alcun legame ufficiale con le forze armate, era stato riportato in vita solo nel 1944, e gli uomini tenuti a partecipare alle sue riunioni sapevano che c’erano ben poche possibilità che venissero mai riforniti di armi ed equipaggiamento adeguati. In altre città alcuni dei suoi membri erano stati incaricati di riempire le buche e i crateri lasciati dai bombardamenti. Il Volkssturm aveva il che di una setta: nei suoi incontri venivano ripetute a non finire esortazioni naziste a base di morte, sangue e onore intrecciate a evocazioni quasi mistiche dell’antica patria. Patz ricordava che quando suo padre tornava finalmente a casa «era passata da un pezzo la normale ora di cena e aveva un’aria del tutto esausta».13

Quanto ai lavoratori forzati, a impiegarne il maggior numero erano gli stabilimenti Zeiss Ikon nel sudest della città, vicino al parco del Grande Giardino, dove si producevano fotocamere. Nel 1942 quegli stabilimenti s’erano dimostrati preziosi per la fabbricazione di strumenti di precisione e lo sviluppo di tecnologie ottiche per l’esercito. Fra coloro che erano costretti a lavorarvi vi erano gli ebrei di Dresda, compreso il professor Victor Klemperer.14 Nel febbraio 1945, dopo che tanti di loro erano stati deportati nei campi di sterminio a Est, la fabbrica dovette fare ricorso a nuovi lavoratori forzati: donne portate lì dalla Polonia e dalle zone periferiche dell’URSS. Furono alloggiate all’interno di baracche, con cuccette su tre piani. Il riscaldamento era inadeguato, la scarsità di cibo cronica e la stanchezza le rendeva apatiche, mentre fra loro si muovevano operaie del posto che, pagate il dovuto, andavano al lavoro dalla periferia a piedi o in tram.

Si sarebbe detto che gruppi del genere non avrebbero mai potuto convivere senza che venissero in superficie sentimenti di intenso rancore o inorridita pietà, eppure avvenne. Fra quegli operai di Dresda, avrebbe ricordato Klemperer, c’era chi sembrava non nutrire per gli ebrei della fabbrica alcuna sorta di animosità, né sentire il bisogno di tenerli a distanza, fosse per ostilità o muta compassione. L’atmosfera sul posto di lavoro era spesso, al contrario, giocosa.

Per i cittadini liberi la giornata lavorativa a Dresda iniziava presto, e altrettanto presto i loro figli, assidui negli studi anche nel caos crescente attorno a loro, si recavano a scuola, senza nessuna certezza che fosse aperta. Era frequente infatti che il calendario scolastico subisse gravi interruzioni e le scuole chiudessero, spesso per risparmiare il combustibile per il riscaldamento; in quei casi i bambini venivano lasciati ai loro giochi invernali nei parchi e nei sobborghi boscosi della città. Alcune aule, inoltre, erano state convertite in improvvisati ospedali da campo per i feriti provenienti dal fronte orientale.

Nel 1945 i bambini tedeschi minori di tredici anni erano tutti cresciuti senza conoscere altro che il regime nazista; era quello, per loro, l’ordine naturale del mondo. Quei pochi i cui genitori, in gran segreto e dietro porte chiuse, mettevano in discussione lo stato delle cose dovevano sentirsi alquanto in conflitto quando, a scuola, veniva loro chiesto di imparare e ripetere le frasi di propaganda assorbite così volentieri dai loro compagni di classe. Uno degli istituti più brillanti della città – in termini, almeno, di orgoglio e risultati scolastici – era il Vitzthum-Gymnasium, la scuola frequentata dal figlio maggiore del dottor Fromme, Friedrich. Nel 1943 esso aveva subito due gravi colpi: il primo era stato la requisizione per uso militare di uno dei suoi principali edifici, il che l’aveva costretto a traslocare per condividere dei locali con un’altra scuola; poi, nel 1944, quei locali erano stati ridotti in macerie da bombe americane durante un raid condotto alla luce del sole.

Fra i suoi allievi molti sarebbero in seguito divenuti avvocati, ingegneri, medici o giornalisti, ma sempre più numerosi erano i ragazzi della città dai quindici anni in poi che in quei giorni venivano reclutati, tramite la Gioventù hitleriana, per prestare servizio nelle batterie antiaeree e puntarne i pezzi contro il cielo notturno, non solo sopra Dresda ma anche sopra altre città.

Alla Gioventù hitleriana dovevano aderire tutti i ragazzi, anche i più posapiano e secchioni, che in compiti di difesa non erano di certo granché utili. Winfried Bielss, per esempio, che nel 1945 aveva quindici anni, aveva le sue responsabilità dopo la scuola, anche se probabilmente non dovevano interferire molto con la sua più grande passione, la raccolta di francobolli. Viveva con la madre in un appartamento situato in un sobborgo signorile sulla riva nord dell’Elba. Il padre era allora militare in Boemia, una delle regioni in cui il nazismo diede maggior prova della sua ferocia. In Cecoslovacchia gli ebrei erano stati quasi tutti sterminati e anche altre minoranze, come i rom, erano perseguitate. E mentre suo padre si trovava a dover fronteggiare non soltanto le forze in avanzata di Stalin, ma anche gruppi di resistenza locali che stavano combattendo con grande energia, a poco più di 160 chilometri di distanza, Winfried Bielss stava tornando a casa per la cena.

Anche in tempi di penuria come quelli, il cavolo rosso e le patate fritte non mancavano mai e, com’era solita esclamare sua madre, c’erano pochi motivi per essere depressi se si «potevano ancora gustare patate fritte».15 In tempo di pace i piatti preferiti in Sassonia erano sempre stati la zuppa di patate (con cetrioli e panna acida) e gli gnocchi di patate (con latticello). Ciò di cui si sentiva realmente la mancanza ora erano le sontuose torte, tradizionale oggetto del desiderio degli abitanti di Dresda.

In quei primi giorni di febbraio 1945 la Gioventù hitleriana di Bielss era impegnata perlopiù ad accogliere il cospicuo numero di profughi che sbarcavano nella grande stazione ferroviaria centrale e a indirizzarli ai loro nuovi alloggi temporanei nelle fattorie e nei villaggi attorno a Dresda. L’architettura della stazione, con le eleganti curve delle sue lunghe tettoie in vetro e la maestosità delle banchine e dell’atrio, non poteva non impressionare i nuovi arrivati, dando loro un’idea della città che Dresda era stata fino a poco tempo prima. La struttura parlava di cosmopolitismo: c’era qualcosa di paneuropeo nelle spirali delle opere in ferro battuto come nella luce che, filtrando attraverso il vetro delle tettoie, trasformava il fumo denso delle locomotive a vapore in una foschia romantica.16 Fino a poco tempo addietro vi giungevano anche profughi provenienti da città dell’ovest bombardate. Inoltre vi sbarcavano soldati tedeschi in congedo o convalescenza.

Quanti arrivavano alla stazione venivano spesso indirizzati a nord, verso la Città Nuova, la Neustadt, sull’altra riva del fiume. Lì le strade avevano un sapore decisamente parigino: lunghe e alte case a schiera con negozi e ristoranti ai piani terra e dietro, celato alla vista, un dedalo di cortili alberati. Un’atmosfera sofisticata che si ritrovava anche nella Città Vecchia, l’Altstadt, nei pressi della stazione ferroviaria, nell’elegante e sontuosa Prager Strasse, via di negozi che, pur nella morsa perversa dell’economia di guerra più rigida, continuava a esercitare una forte presa sull’immaginazione e i desideri di tanti abitanti della città.

Curiosamente, negli anni precedenti le vetrine di Prager Strasse non avevano solo offerto immagini di sfolgorante bellezza – sontuose sete indaco e smeraldo, alta moda, voluminose e lussuose pellicce, il bagliore di ghiaccio dei gioielli –, ma avevano anche lasciato trapelare una forma di stabilità sociale: beni incantevoli che, a differenza della moneta tedesca degli anni Venti crudelmente colpita dall’inflazione, avrebbero mantenuto il loro valore, garantendo ai proprietari sicurezza e tranquillità. Molti negozianti, tuttavia, non godevano di alcuna sicurezza del genere: da quando, nel 1935, erano state approvate le cosiddette leggi di Norimberga, che avevano fatto penetrare l’antisemitismo nel cuore costituzionale della Germania, gli uomini d’affari ebrei avevano dovuto rendersi amaramente conto che quei beni potevano essere loro sottratti, espropriati dallo Stato. Nemmeno in quegli ultimi mesi di guerra, tuttavia, mancavano eleganti signore della buona società di Dresda che andavano in Prager Strasse a fare acquisti, cenare e prendere il caffè, anche se un surrogato dal retrogusto di avena.

I cittadini di Dresda che avevano meno pretese preferivano negozi tradizionali come quello di abbigliamento Böhme, che nel 1945 era divenuto un fiorente crocevia di pettegolezzi e teorie sulla guerra. Ma c’erano anche grandi magazzini più moderni: da Renner, sull’Altmarkt (il Mercato Vecchio), nonostante la penuria degli anni di guerra, si trovava di tutto, da abiti per bambini a casalinghi. E alcune vie più in là c’era un originale magazzino chiamato un tempo Alsberg. In contrasto con il fascino antiquato delle vie adiacenti, era un tempio del modernismo futurista, costruito in obbedienza a una geometria accuratamente calibrata di sottili curve orizzontali. I grandi magazzini Alsberg erano stati i primi a installare scale mobili che, con il loro movimento senza scosse, permettevano ai clienti più raffinati di non affaticarsi troppo. Come tante altre attività commerciali a Dresda e in tutta la Germania, nel processo di arianizzazione il magazzino era stato confiscato ai proprietari ebrei dalle autorità naziste, che gli avevano cambiato il nome in «Möbius».17 Con l’avanzare del decennio, proseguire l’attività non sarebbe comunque servito molto ai proprietari: il boicottaggio nazista non risparmiava nessun negozio ebraico.

L’ostentazione di altri, più maestosi negozi doveva suscitare sorrisi sarcastici in giovani donne di Dresda appartenenti alle classi lavoratrici come Anita Auerbach. Anita, diciassette anni, faceva la cameriera all’Arco Bianco, un ristorante economico e affollato a poca distanza dal centro. In anni passati il locale, sempre pieno di sobri politici di estrema sinistra, era stato un teatro informale di accese riunioni e lunghi e infuocati dibattiti. Un’esponente comunista di primo piano a Dresda in quegli anni, una giovane madre di nome Elsa Frölich, era stata imprigionata dalle autorità naziste e poi rilasciata. Adesso lavorava come contabile in una vicina fabbrica di sigarette convertita in una fabbrica di munizioni. Frölich era tra le poche persone che a Dresda, nel febbraio 1945, desideravano vedere le forze di Stalin per le strade.18 Per ora, tuttavia, l’Arco Bianco brulicava di soldati tedeschi (e a volte furtivi disertori che cercavano di evitare i controlli), e le sue finestre erano appannate dal vapore del brodo vegetale caldo che vi veniva servito.

Nel sudovest della città un’altra ragazza di diciassette anni, Margot Hille, aveva ultimato pochi mesi prima un tirocinio cui in tempo di pace non sarebbe stata probabilmente ammessa e, ora, aveva un posto di lavoro a tempo pieno nella fabbrica di birra Felsenkeller, uno dei tanti birrifici che prosperavano in città. Fondata a metà del XIX secolo, l’azienda aveva scavato speciali tunnel per conservarvi la birra.19 La guerra aveva obbligato la fabbrica a inaugurare in gran segreto e nelle zone più inaccessibili dei suoi edifici una nuova di linea di produzione: componenti ad alto contenuto tecnico per attrezzature militari. Ma la birra non era scomparsa. La Felsenkeller era specializzata in una birra chiara e forte pubblicizzata dall’immagine di un sorridente ragazzo dai capelli biondi in pantaloni a quadri che esibiva un boccale traboccante di schiuma.

Se nel vedere le manifatture e le fabbriche di bevande locali portare avanti i loro affari come se il mondo poggiasse ancora su fondamenta solide si poteva avere l’impressione di qualcosa di irreale, da nessuna parte quest’impressione era più forte che nell’Altstadt, dove banche e compagnie d’assicurazione proseguivano le loro attività quotidiane. Come i grandi magazzini, anche le banche di Dresda erano state vittima del ladrocinio nazista. Uno degli istituti finanziari più importanti della città, di proprietà della famiglia ebraica Arnhold, era stato colpito dall’arianizzazione già nel 1935, quando era stato ceduto alla Dresdner Bank che, pur avendo trasferito la sua sede centrale a Berlino, aveva ancora importanti succursali a Dresda.

Gli affari della Dresdner Bank erano ora interamente legati alla guerra e i suoi tentacoli giungevano in ogni parte dell’Europa orientale sotto il dominio nazista. È legittimo supporre che in quei mesi bui alcune figure di spicco all’interno della banca sapessero con certezza che cosa era avvenuto nei campi di concentramento nel cuore delle foreste orientali. Parte delle loro attività era consistita nel finanziare simili imprese e trovare modi per trarne profitto. Nelle vie in cui gli alti dirigenti della Dresdner Bank svolgevano il loro lavoro il nero e il rosso acceso della svastica nazista sventolavano al vento d’inverno, stagliandosi contro il grigio dei muri degli edifici.

Non lontano, tuttavia, sopravvivevano i segni di una città non completamente travolta dalla guerra. C’era (e c’è ancora) la Pfunds Molkerei, una latteria incredibilmente pittoresca, decorata a profusione con piastrelle di ceramica dipinte a mano del XIX secolo di Villeroy & Boch, raffiguranti un più antico spirito del cittadino di Dresda, giocoso e allegro: un piccolo tempio alle virtù della dolcezza.20 Attrazione turistica in tempo di pace, vi si trovavano pasticcini e latticello, una tentazione non solo per i bambini, ma anche per i genitori che non avevano mai davvero dimenticato le grandi gioie dell’infanzia. Più avanti lungo il fiume, vigneti ricoprivano le pendici dello Schloss Eckberg, splendida e grandiosa magione del XIX secolo costruita nello stile e nello spirito di un castello inglese da un ricco mercante locale.21 Lì e in molti altri vigneti vicini, si diceva, il terroir era straordinario. Certamente vi si produceva un Riesling fine, leggero e pungente come le mele autunnali. Dal vigneto Eckberg si godeva una veduta del fiume e del ponte del primo XX secolo noto a Dresda come la Meraviglia Blu. Era questo, fra l’altro, il ponte che molti in città menzionavano parlando dell’avanzata dell’Armata Rossa. La gente si domandava se la struttura, ritenuta un esempio di ingegneria rivoluzionario e grande motivo d’orgoglio per gli abitanti, avrebbe dovuto essere sacrificato per rallentare il nemico.

All’assillante paura di brutalità e violenze inarrestabili s’intrecciavano altre profonde angosce. Per ogni abitante di Dresda la città era di una bellezza senza eguali, se non addirittura sacra: cattedrali, chiese e palazzi che fiancheggiavano da secoli la curva disegnata dall’Elba rappresentavano una forma dell’eternità. C’era da temere invece che i barbari riducessero quella bellezza in polvere. Quel senso religioso dell’estetica aveva trovato in qualche modo la maniera di coesistere con il rosso sangue delle svastiche.

Ma l’ombra che incombeva sulla città non era in realtà quella dei sovietici: la minaccia, in gran parte insospettata, veniva dai piani e dalle intenzioni segrete degli Alleati in Occidente.