Le discussioni, accese e aspre, riguardo a come condurre il conflitto s’erano da tempo lasciate alle spalle l’etica e, forse, anche la rigorosa razionalità. I sofisticati calcoli per calibrare con precisione le azioni militari avevano ceduto il posto a qualcosa di più confuso, e che non teneva granché conto della mortalità umana. La guerra globale aveva portato a questa sorta di sfinimento, particolarmente evidente in quanti erano ancora ossessionati dal precedente, terribile, conflitto. Ma l’idea che prendere di mira i civili potesse essere legittimo non era nuova. Tre anni prima, nel 1942, Iosif Stalin aveva suggerito a Winston Churchill che i bombardieri britannici avrebbero dovuto colpire le case, oltre che le industrie tedesche. A quel tempo c’era ancora chi, specie fra gli alti comandanti americani, era convinto che la sottile distinzione fra obiettivi militari e civili continuasse a essere possibile, e fosse moralmente necessaria. Ma Churchill non aveva bisogno al riguardo delle pressioni di Stalin: fra i vertici militari e politici britannici la guerra totale era già divenuta un fatto accettato. Prima che Stalin rendesse note le sue opinioni in proposito, uomini come il singolare consigliere scientifico del primo ministro, Lord Cherwell, avevano insistito perché i bombardamenti contro la Germania mirassero a de-house, privare della casa, la popolazione delle grandi città; in questo modo avrebbero iniziato a paralizzare l’industria e le infrastrutture dell’intero paese.1 Il termine de-housing aveva un sapore studiatamente blando e tecnocratico.
Il sostenitore più entusiasta di quest’idea era il generale Sir Arthur Harris, del Bomber Command, il cui nome sarebbe rimasto indissolubilmente legato al destino di Dresda. Uomo la cui unica traccia di sentimentalismo sembrava emergere di fronte ai bei paesaggi rurali e ai contadini che se ne prendevano cura, Harris non nutrì mai il minimo dubbio sulla necessità di distruggere le città tedesche. Al destino dei civili che ci vivevano era del tutto indifferente. E tuttavia non aveva difficoltà a giustificare tutto ciò dal punto di vista morale. In un discorso che tenne nel 1942 dichiarò che quello che voleva non era punire i tedeschi per le devastazioni subite dalla Gran Bretagna a opera dei loro bombardieri.2 Si trattava, a suo modo di vedere, soltanto di porre rapidamente fine alla guerra; ed egli s’aggrappò a questa convinzione con fervore religioso.
Il Bomber Command della RAF aveva la sua sede tra le verdi colline di Chiltern, circa cinquanta chilometri a nordovest di Londra. Lì Harris, sposato due volte, i cui capelli biondi si stavano facendo d’argento, aveva un semplice ufficio arredato con un sottile orologio a pendolo, una grande scrivania con un solo telefono nero e una lampada ad angolo; a una parete era appeso un paesaggio serale, a un’altra una grande carta dell’Europa e dalla finestra si godeva la veduta di sottili pioppi: un netto contrasto con il luminoso modernismo futurista della sala di controllo della base. Il generale era un uomo molto socievole; le sere in cui poteva allontanarsi dalla sua scrivania lui e sua moglie Therese organizzavano nella loro casa, poco distante, cene per una varietà di personaggi, fra cui alti comandanti e diplomatici statunitensi, che non mancavano mai, in seguito, di scrivere loro per ringraziarli della brillante ospitalità.3 Da quando nel 1942, all’età di cinquant’anni, aveva assunto il comando, Harris aveva raggiunto due tra gli obiettivi più urgenti: convincere il primo ministro che il bombardamento continuato delle città tedesche era vitale come in qualsiasi altro teatro di guerra (in un momento in cui molti la pensavano ben diversamente); e aumentare enormemente il numero di aeroplani e membri degli equipaggi, misura che portò a grandi passi in avanti nel progresso tecnologico e ingegneristico. Il suo carattere fieramente combattivo, tanto con i superiori quanto con i sottoposti, era ben noto; i suoi insulti, sempre magniloquenti e a volte venati di un humour nero, colpivano senza pietà. Chi esprimeva riserve morali o dubbi sull’operato del Bomber Command era una «quinta colonna».4
Una delle ragioni della sua incrollabile ferocia era forse il numero incredibile di uomini della RAF che avevano perso la vita sotto il suo comando e quello del suo predecessore: fino a quel momento erano rimasti uccisi nel corso di raid circa cinquantamila avieri, i cui corpi in fiamme avevano illuminato nella loro caduta i cieli notturni. «Non c’è equivalente in guerra a tale coraggio e determinazione per un periodo di tempo così prolungato di fronte al pericolo, e un pericolo a volte tale che a malapena un uomo su tre può aspettarsi di sopravvivere alla sua serie di trenta missioni» scrisse Harris.5 Oltre a ciò, come egli avrebbe sottolineato più tardi, un numero spropositato di uomini moriva durante l’addestramento; nelle basi aeree della costa orientale si lavorava sotto una tale pressione che anche esperti meccanici, esposti ventiquattr’ore al giorno ai rigidi inverni inglesi, soccombevano a malattie che colpiscono di solito soltanto gli anziani.
Nella prima guerra mondiale Harris aveva combattuto con il Royal Flying Corps, e la sua bussola morale era stata in qualche misura orientata dai campi ricoperti di sangue che aveva visto sotto di lui; negli anni fra le due guerre era rimasto nella RAF e, mentre quest’ultima si batteva per conservare la propria indipendenza dall’esercito e dalla marina, s’era dimostrato un organizzatore brillante e incisivo. La sua visione dei tedeschi, sia civili sia militari, era irremovibilmente ostile, eppure negava di volere «bombardamenti terroristici»: non li aveva mai apprezzati, sosteneva.6 Il suo ragionamento era forse un po’ più gelido di tale sprezzante espressione: gli interessavano, sì, «la distruzione delle città tedesche, l’uccisione dei lavoratori tedeschi, lo sconvolgimento della vita civile», ma come un modo per abbreviare il conflitto ed evitare ulteriori carneficine. Non considerava la morte sotto un bombardamento il modo peggiore di perdere la vita. Quando i suoi superiori, come il capo di Stato maggiore dell’aeronautica Sir Charles Portal, pretendevano che i bombardieri venissero invece utilizzati per colpire specifici obiettivi industriali, la pazienza già scarsa di Harris giungeva al limite. In seguito avrebbe dichiarato che quanti «non facevano che parlare [di] singoli piccoli obiettivi» non avevano evidentemente mai pensato al «clima europeo», e che «la gente che diceva quel genere di cose» non era «chiaramente mai stata fuori» o aveva «guardato fuori da una finestra».7 Punti di vista del genere avrebbero probabilmente divertito o fatto sussultare il comandante dell’aeronautica degli Stati Uniti in Europa, generale Carl «Tooey» Spaatz, il cui «Piano petrolio», in base al quale centinaia di aerei statunitensi furono inviati dagli aeroporti inglesi in pieno giorno a sorvolare tutto il continente prendendo di mira specifici impianti e raffinerie per colpire i rifornimenti di carburante tedeschi, era giudicato da altri, specie nell’autunno del 1944, un successo eccezionale.
All’inizio del febbraio 1945 i bombardieri di Harris, operando in congiunzione con l’8a forza aerea statunitense, avevano attaccato quelli che egli liquidava come «obiettivi panacea»:8 in gran parte impianti per la produzione di olio sintetico (che, messi fuori uso, dimostrarono di corrispondere ben poco alla definizione del maresciallo: i danni provocarono vere difficoltà alle linee di rifornimento tedesche). Il 3 febbraio fu lanciato un attacco su Dortmund mirante a distruggere le fabbriche che vi producevano benzolo. Impianti simili furono attaccati senza successo a Osterfeld e Gelsenkirchen, ma negli stessi giorni le forze aeree compirono anche altre missioni strategiche efficaci. Il 7 febbraio, per esempio, truppe alleate stavano per attraversare le fitte foreste della Reichswald, al confine con l’Olanda, quando dei bombardieri attaccarono le forze tedesche di stanza nelle città di Goch e Kleve, distruggendo strade e ferrovie e aprendo così la strada agli alleati. Harris era convinto che il conflitto si stesse avvicinando al punto in cui incursioni decisive – operazioni ben collaudate in cui un migliaio di bombardieri avrebbe dovuto avventarsi in una fila infinita e irresistibile sulle città – avrebbero piegato l’alto comando tedesco. Quest’idea, coltivata da tempo, di area bombing, bombardamenti di zona, da realizzare attraverso molte centinaia di incursioni da Essen a Hannover, da Colonia ad Amburgo, da Mannheim a Magdeburgo, avrebbe riempito le città di profughi inermi fino a soffocarle. Era questo il punto in cui la normale civiltà quotidiana avrebbe potuto semplicemente disintegrarsi.
Per alcune autorevoli figure del Bomber Command della RAF città come Dresda erano ormai soltanto zone colorate su dettagliate mappe, la cui popolazione era diretta da fanatici autoritari. In quella fase della guerra ben pochi si preoccupavano di distinguere fra civili e soldati, fra cultura tedesca e culto nazista. Quasi nessuno aveva il tempo di immaginare la vita della gente comune.
A Dresda c’era una passione diffusa per gli alberi: in tutta la città ne veniva piantata e coltivata una ricca varietà. Rudi Warnatsch, un ragazzo che viveva con la madre in un complesso residenziale, ricordava vividamente che «la maggior parte del cortile era occupata da un giardino coltivato. Vi si trovavano un magnifico castagno e un tiglio».9 In uno dei sobborghi orientali più eleganti della città Marielein Erler adorava «le grandi querce e i tigli» del parco vicino a casa.10 I genitori di Georg Frank avevano piantato nel loro giardino un pesco. Il professor Victor Klemperer e sua moglie Eva tenevano enormemente per motivi sia sentimentali sia culinari al ciliegio che si ergeva nel giardino sul retro della loro casa.11 I suoi frutti erano giunti a simboleggiare la dolcezza della vita loro sottratta.
Più in generale, le strade, le piazze e i cortili alberati riflettevano la rara cura che era stata rivolta alle infrastrutture a Dresda, una città in cui anche gli alloggi a basso costo per le classi lavoratrici erano di buona qualità per l’epoca. La ragione di tutto ciò risiedeva in parte al fatto che Dresda era, per tradizione, ormai da decenni, quasi ossessionata dall’igiene, e gli industriali più ricchi avevano paura delle malattie che potevano minacciare la loro manodopera. Così, nei quartieri più popolosi nei pressi dell’Altstadt si viveva in appartamenti ordinati e puliti in condomini di quattro o cinque piani le cui scale venivano tirate a lucido. Un po’ più a sud, invece, le classi medie prediligevano appartamenti più ricchi, alcuni dei quali ostentavano serre riscaldate.12
Anche la zona dove viveva Martin Mutschmann, il Gauleiter padrone a Dresda di ogni vita, era immersa tra gli alberi. A caccia nel folto dei boschi della Sassonia egli si sentiva particolarmente a casa. I tradizionali, antichi lavori artigianali in legno e le fiabe e i racconti popolari lo affascinavano. Se Dresda era in se stessa una consapevole espressione del valore dell’arte e dell’armonia, l’uomo che l’ebbe sotto di sé dall’inizio degli anni Trenta sino alla fine della guerra rappresentava una corrente inconscia oscura e primitiva, qualcosa di ingovernabile che sembrava più una parte di quelle foreste tanto vicine alla città. Mutschmann, uno dei Gauleiter che rimasero più a lungo in servizio in Germania, insieme ai suoi assistenti, apertamente sadici e molto temuti, rappresentava esattamente il tipo di nemico, inesorabile, fanatico, spietato, che il maresciallo Arthur Harris riteneva potesse essere sconfitto solo dal trauma della completa distruzione della città.
Mutschmann, gli occhi asimmetrici prominenti, lo sguardo lucido e indecifrabile, mostrava una leggera (e non lusinghiera) somiglianza con l’attore Peter Lorre. Capelli sottili e una grande pancia, nel febbraio 1945 aveva quasi sessantasei anni. Gauleiter della Sassonia dal 1925, nell’anno in cui Hitler salì al potere ne divenne anche governatore. Era inoltre stato prontissimo a aderire al nazionalsocialismo fin dal 1922, quando le sue disumane e aggressive opinioni politiche erano già ben consolidate. Vicino al Führer, di cui condivideva l’estremo fervore, era grazie a lui che Dresda era stata riempita fin dall’inizio di tutti i simboli del nazismo: non solo le grandi svastiche drappeggiate su tutti gli edifici pubblici, ma anche l’onnipresenza per le strade delle SS, della Gioventù hitleriana e del quotidiano nazista «Der Freiheitskampf», nonché l’obbligo per la gente comune di salutare a braccio teso nei luoghi pubblici esclamando «Heil Hitler». Anche in quelle prime incerte settimane del 1945, quando sulle lontane colline la neve non s’era ancora sciolta del tutto, Mutschmann continuava a esercitare il completo controllo non solo delle strade, ma di ogni famiglia: vecchi gentiluomini, madri con i loro figli, giovani lavoratrici, uomini addetti a occupazioni protette o riservate.
Ogni caffè che gli abitanti di Dresda bevevano in un ristorante, ogni film che andavano a vedere, ogni acquisto razionato che facevano in un negozio di alimentari, ogni loro telefonata, ogni interazione con i soldati che attraversavano la città diretti a remoti fronti, ogni movimento e ogni parola potevano essere sotto controllo. Eppure, i cittadini avevano trovato il modo di adattarsi all’implacabile violenza del regime di Mutschmann: dalle truci testimonianze dell’oppressione, come i segni sui lampioni che, nella residenziale Johannstadt e altrove, proclamavano quei quartieri «zone ebraiche», alla Gestapo e alla polizia che, mentre terrorizzavano gli ebrei superstiti, schiacciavano altrove qualsiasi forma di dissenso politico. Sia sul posto di lavoro sia a casa, la conversazione era cauta. Non era raro che uomini e donne qualunque fossero arrestati a tarda notte e interrogati fino al mattino. Per finire in prigione, o molto peggio, bastava una sola parola proibita.
L’8 febbraio 1945, dopo una riunione del tribunale del popolo nazista, nel cortile lastricato di grigio del palazzo di giustizia di Dresda, appena a sud della stazione ferroviaria centrale, stava per essere eseguita una condanna a morte. La vittima, la dottoressa Margarete Blank, quarantatré anni, con uno studio medico in campagna, avrebbe affrontato, anziché la forca, la ghigliottina.13 Il suo crimine? Mentre stava curando i figli di un ufficiale, aveva espresso dubbi sulla vittoria finale della Germania. Denunciata alla Gestapo, la dottoressa era stata arrestata, accusata (falsamente) di far parte di un gruppo della Resistenza e infine condannata a morte per decapitazione. L’uso della ghigliottina non aveva nulla di segreto: sotto la sua pesante lama avevano già perso la vita durante il nazismo un gran numero di sospetti bolscevichi e membri della Resistenza. Tutti in città sapevano che cosa si rischiava per osservazioni imprudenti denunciate anonimamente da colleghi o vicini.
Per Martin Mutschmann resistere e combattere contro qualunque forza minacciasse la città era un ovvio dovere degli abitanti di Dresda. Qualsiasi forma di dissenso o riluttanza rappresentava un tradimento. Quell’uomo corpulento, soprannominato dalla gente del posto «re Mu», era cresciuto non lontano da Dresda, nella città di Plauen, aveva lasciato la scuola luterana a quattordici anni, nell’ultimo decennio del secolo, e, trovato un posto da apprendista, era divenuto abile in due attività che forse non ci si aspetterebbe: il merletto e il ricamo.
Era per questo, d’altronde, che Plauen era divenuta famosa in tutto il mondo. I disegni dei suoi merletti, sia per l’abbigliamento sia per uso domestico, erano intricati ma anche espressivi. Vi si vedevano grandi turbinii di foglie e viticci, una geometria ipnotica, meravigliose reti che abbracciavano lunghe tovaglie. In un’epoca sempre più meccanizzata, quell’occupazione richiedeva comunque delicatezza e concentrazione, e Mutschmann diventò un maestro ricamatore. Ma fuori dal laboratorio, quando aprì una propria attività nel settore, la sua aggressività divenne ben presto evidente. I colleghi avrebbero ricordato l’odio che esprimeva spesso nei confronti degli ebrei, specie per quelli provenienti dall’Europa orientale. Poi, alla vigilia della prima guerra mondiale, venne un duro colpo: il crollo del mercato del merletto in tutto il continente. Non era soltanto una questione di fredda economia, ma anche di mutamento dei gusti. I motivi frivoli e sovraccarichi del merletto stavano lasciando il posto ai disegni più nitidi e puliti del primo modernismo.
Mutschmann, però, era sicuro di sapere che cosa stava mandando a gambe all’aria il suo mondo: la deleteria attività degli ebrei. Avrebbe fatto di tutto per riuscire a incolpare i suoi concorrenti ebrei di avere sabotato il mercato. In effetti, riuscì a suscitare sentimenti ostili verso le imprese ebraiche e mancò poco che nella città di Plauen, apparentemente così ordinata e stabile, si assistesse a un pogrom.
La desolazione e gli indicibili orrori della Grande Guerra lasciarono il segno: nel 1916 Mutschmann fu congedato per motivi di salute – in seguito avrebbe affermato che era stato colpito da un’infezione ai reni – e tornò ai suoi affari.14 All’apice del successo, la sua azienda era giunta a impiegare circa cinquecento persone, ma sfuggire al crollo vertiginoso della Germania del primo dopoguerra era impossibile. La feroce anarchia che si diffuse nel paese dopo l’amara conclusione del conflitto, con violenti scontri fra comunisti e uomini della destra, non fece che rafforzare i pregiudizi di Mutschmann.
Per come egli vedeva le cose, il suo mondo veniva trascinato sempre più in basso da una cospirazione ebraica internazionale, e l’umiliazione e il decadimento strazianti della Germania, l’invasione delle sue strade da parte di agitatori socialisti ne erano la conferma. Così, nel 1922, Mutschmann entrò nel Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori (NSDAP) e non tardò a intrecciare uno strettissimo legame con Hitler. Per il Natale del 1928 inviò al futuro Führer un libro di fiabe illustrato da Hermann Vogel, in cui aveva vergato i suoi auguri dalla foresta del Vogtland.15
In questa nuova vita politica recitò la sua parte anche la moglie Minna (nata Popp), che Mutschmann aveva sposato nel 1909. Entrò nella sezione femminile del partito e, mentre il marito saliva nella scala gerarchica, assunse un proprio ruolo nell’organizzazione di eventi, a volte raccolte fondi, cui partecipavano le sue compagne naziste. Al partito aderì anche la madre di Mutschmann.
Nel 1925 egli era ormai il Gauleiter del Partito nazista in Sassonia, e alcuni pensavano che la sua fissazione sull’identità sassone escludesse ambizioni politiche più ampie. La trionfale ascesa al potere di Hitler nel 1933, tuttavia, conferì a ogni Gauleiter regionale una nuova grande autorità. E a Dresda la violenza politica non tardò a manifestarsi: una riunione nella sala del comune di circa duemila «comunisti» si concluse con una rissa preordinata in cui persero la vita nove persone. Seguirono in breve arresti di esponenti della sinistra.16 In quel periodo, inoltre, Mutschmann fu nominato Reichsstatthalter (governatore) della Sassonia. E mentre si trovava a godere di questo enorme potere, l’ex merlettaio si immerse sempre più in ciò che erano ai suoi occhi la cultura e l’arte popolari sassoni.
Fece costruire nella foresta di Tharandt un grande capanno da caccia, una curiosa struttura sormontata da una piramide tronca, dove invitava camerati e alleati per battute. La caccia era un’ossessione per lui, non solo come sport, ma anche, più in particolare, per il ruolo che essa occupava nell’immaginario popolare della regione. Accanto all’ingresso del capanno aveva fatto erigere la statua di un cervo e, nei dintorni della costruzione, quella di un cinghiale. L’atavismo primitivo di tali immagini l’attraeva. S’è avanzata l’ipotesi che l’interesse per cose del genere rientrasse, nella prima parte del XX secolo, in una tendenza generale dei sassoni ad affermare la propria identità nel momento in cui la Germania si faceva sempre più centralizzata e omogenea. Ma l’interesse nazista per il folklore e le leggende parlava di qualcosa di più profondo e parareligioso.
Per quanto riguarda l’artigianato, la Sassonia vantava una ricca tradizione anche nel campo delle marionette: quei pupazzi dagli occhi grandi e spalancati e lo sguardo fisso venivano usati in spettacoli destinati agli adulti oltre che ai bambini. Mutschmann fu fotografato mentre, a una mostra, li guardava affascinato. La fabbricazione delle marionette, con i loro fili per le braccia, le gambe e le teste, richiedeva maestria. Ma nelle loro espressioni immutabili c’era qualcosa, era facile accorgersene, di estremamente inquietante; qualcosa che non avrebbe reso piacevole trovarsi da soli in una stanza silenziosa piena di marionette. Lo scrittore del XIX secolo E.T.A. Hoffmann, che visse per un certo tempo a Dresda, colse tale sensazione in un frammento intitolato L’automa, in cui una marionetta risponde meccanicamente alle domande e tuttavia sembra misteriosamente in grado di leggere nella mente di coloro che l’interrogano.17
Negli anni Trenta e Quaranta, all’uso satirico delle marionette a opera di indocili artisti modernisti come Otto Griebel, di Dresda, si contrappose il Reichsinstitut Für Puppenspiel (Istituto del Reich per il teatro di marionette); fra i pupazzi presentati negli spettacoli messi in scena dalla Gioventù hitleriana, sottoposti a censura preventiva, c’erano grottesche caricature di ebrei dal naso adunco e gli occhi grandi e terribili. Osservando i movimenti delle marionette «ariane» gli spettatori non potevano mancare di riflettere, almeno occasionalmente, sul simbolismo di manipolatori e manipolati.
L’interesse di Mutschmann per la scultura e la pittura sassoni si rifletteva nel suo atteggiamento verso l’arte in generale. Fu lui che, a metà degli anni Trenta, bandì il jazz da Dresda (e più tardi, nel 1943, da tutta la Sassonia), definendolo «musica degenerata».18 Oltre al razzismo, sottesa a questa posizione c’era la sensazione che si trattasse di una forma musicale, nel suo senso più puro, ingovernabile, che evocava reazioni anarchiche e sfrenate. Mutschmann assunse un atteggiamento simile anche nei confronti dell’umorismo in pubblico. Forse per un’innata sensibilità di classe, per tutti gli anni Trenta e quelli della guerra si adoperò a bandire dal discorso pubblico barzellette e battute a spese della Sassonia. Il dialetto della regione veniva spesso deriso (e lo è ancora a volte nell’Ovest della Germania), e così quella che era giudicata l’arretratezza contadina della sua gente. Non è difficile immaginare che i cittadini di Dresda, più sofisticati, fossero divertiti e nello stesso tempo sconcertati dalla popolazione rurale dello Stato, che ancora negli anni Quaranta viveva in un mondo in cui il principale mezzo di trasporto era il carro trainato da cavalli e l’attività prevalente il lavoro agricolo manuale.
Non tutti i nazisti, però, erano contrari all’umorismo come Mutschmann. Alcuni anzi, nei primi tempi del regime hitleriano, ritenevano che una frecciata satirica ogni tanto potesse rappresentare un’utile valvola di sfogo per sentimenti che, altrimenti, avrebbero potuto portare a forme di resistenza più serie. Sin dall’inizio dell’era nazista era emersa una nuova sottocultura fatta di «battute sussurrate», e il periodico delle SS «Das Schwarze Korps» arrivò persino a dichiarare che un bonario umorismo sulle autorità, espresso apertamente, era sano e andava incoraggiato. E citò una battuta sulle incessanti visite di Goebbels in ogni angolo del paese che lo stesso ministro della Propaganda aveva udito: «Oh, di nuovo quel vecchio!».19
Se tale tolleranza da parte delle SS scomparve del tutto solo più tardi, Mutschmann fu invece sempre un rigido dottrinario, e governò Dresda con brutalità medievale fin dal 1933. Persino sull’elegante Prager Strasse chiunque mancasse di esibirsi nel saluto nazista di fronte a un funzionario rischiava l’arresto all’istante e la prigione. Nelle scuole, insisteva Mutschmann, si dovevano instillare in tutti i bambini i valori del nuovo regime, e gli insegnanti che davano l’impressione di essere anche vagamente restii a un simile indottrinamento andavano cacciati.
Nel 1935, sotto la guida del Gauleiter, Dresda si pose con entusiasmo alla testa della campagna nazista di sterilizzazione di coloro che presentavano ritardi d’apprendimento e disabilità. Solo quell’anno furono sterilizzate in città 8219 persone, più che a Berlino, dove furono 6550.20 La cosa non era un segreto: fu riportata in primo piano dalla stampa britannica. Quanti espressero preoccupazioni etiche vennero messi a tacere, come accadde a «diversi pastori evangelici» sottoposti ad «arresto protettivo», misura giudicata «inevitabile» per mantenere l’ordine pubblico. Quei pastori avevano anche parlato ad alta voce della necessità sempre più pressante dell’osservanza religiosa. Il Gauleiter non era d’accordo; la Festa naturale nazista per celebrare il 1o maggio, per esempio, disse, «ha assunto la precedenza legale su tutte le feste della Chiesa».21
Quello che valeva per la religione valeva anche per la cultura. Il passato che dava lustro alla città venne pervaso, per quanto era nelle possibilità di Mutschmann, della nuova visione totalitaria. Nel 1934, quando Hitler e Goebbels resero un’importante visita a Dresda per celebrare la prima Settimana del teatro del Reich e furono accolti da grandi folle entusiaste, Mutschmann li accompagnò in una passeggiata attraverso gli splendori barocchi dello Zwingergarten. Il primo spettacolo del festival sponsorizzato dal nazismo, messo in scena al teatro d’opera Semper, fu una sontuosa produzione del Tristano e Isotta di Richard Wagner.
Anche per il Gauleiter vi furono momenti di trionfo sociale. Nel 1937 il duca di Windsor, dopo l’abdicazione come re Edoardo VIII, si recò in Germania per incontrare Hitler, ma prima, con la nuova moglie americana, visitò Dresda. Per il Partito nazista fu un momento straordinario, non soltanto a fini di propaganda, ma anche perché fece sentire i suoi alti funzionari culturalmente accetti. Mutschmann organizzò in onore del duca un grande banchetto, al termine del quale l’ex sovrano tenne di fronte al Gauleiter e agli altri nazisti presenti un caloroso discorso: «Ho visitato la Germania per la prima volta da studente per conoscere la vostra lingua, la vostra arte e la vostra letteratura. Dopo vent’anni vi torno di nuovo da studente, ma questa volta per studiare il fondamentale problema, che interessa il mondo intero, del benessere della popolazione della classe operaia».22 Il Gauleiter Mutschmann cercò di impressionare il duca con un minuzioso modello in scala del palazzo Zwinger. Era, in contrasto con la semplicioneria degli ospiti regali, un esempio di intraprendenza e arte.
Circa otto anni più tardi, dopo sei di guerra, Dresda era una città più affollata e logorata; il suo grande teatro d’opera, le gallerie e i musei avevano dovuto con riluttanza chiudere. Non era, tuttavia, una città completamente annientata dall’ottusa brutalità di Mutschmann, anche se i segni della paura erano visibili dappertutto. L’antico, iperdecorato palazzo di giustizia gotico in Mathildenstrasse, a pochi isolati dalla città vecchia, ospitava, come tutti sapevano, una prigione particolarmente brutale. La Mathilde, così chiamata dal nome della via, era usata per rinchiudervi e torturarvi ebrei, dissidenti politici, prigionieri di guerra e combattenti della resistenza ceca. Le condizioni di prigionia erano medievali: paglia sul pavimento in pietra, catene ai muri, fruste. A poca distanza, di fronte alla stazione ferroviaria centrale, l’hotel Continental, un tempo elegante, era ora il quartier generale della Gestapo. L’invasione dello spazio commerciale e civile della città era deliberata: nessun momento della vita doveva rimanere libero dalla presenza del regime. I bambini giocavano con palloni che recavano dipinte svastiche, e svastiche si vedevano anche su alcuni tubetti di dentifricio.
Un’assenza degna di nota nell’infrastruttura bellica della città era, con una sola eccezione, quella dei rifugi antiaerei. Mutschmann li aveva considerati una spesa inutile. Al loro posto, in tutta l’Altstadt innumerevoli cantine ammuffite erano state dotate di nude lampadine e qualche raro mobile in legno. L’eccezione era, ovviamente, il bunker in cemento costruito nei terreni di una magione confiscata al suo proprietario ebreo per Herr Mutschmann.
In piena attività nei giorni precedenti il bombardamento era anche un personaggio che, soprattutto per gli ebrei di Dresda, incarnava la più odiosa perversione. Come Mutschmann, l’Obersturmführer Henry Schmidt della Gestapo cittadina, che dirigeva uno speciale dipartimento dedicato alla persecuzione degli ebrei, non aveva perso nulla della sua fiducia nel regime nazista né nella sua capacità di prevalere sugli alleati occidentali e sui sovietici. Schmidt, anche qui come Mutschmann, aveva aderito con entusiasmo al nazismo relativamente presto, e imparato il suo mestiere nella polizia segreta con uno zelo che lo aveva portato a operare in tutto il paese.23 Nel 1942 aveva esplicitamente chiesto di essere trasferito a Dresda, non molto lontano da dove era cresciuto, e aveva salutato le sue nuove responsabilità con esultanza. Nel 1945 era ancora giovane, non aveva che trentadue anni, e godeva del potere di condannare a morte chiunque volesse. I crimini di guerra che commise a Dresda in soli tre anni avrebbero fatto di lui un fuggiasco per decenni a venire.
L’appartamento in cui viveva con la moglie era stato espropriato a una coppia ebrea mandata nel campo di concentramento di Theresienstadt e da lì alla morte. Era a lui e ai suoi colleghi Hans Clemens e Arno Weser che veniva denunciato ogni possibile focolaio di dissenso in città. Clemens, un uomo biondo e robusto, s’era fatto notare e apprezzare dai superiori per una particolare spietatezza e brutalità che rasentava la psicopatia; i suoi interrogatori in celle di nude e bianche piastrelle consistevano, più che in domande e risposte, nel mero esercizio del terrore e di una straordinaria crudeltà.
Clemens non riusciva a controllare il suo impulso a fare uso della violenza fisica e dell’intimidazione neanche nei suoi quotidiani rapporti con i cittadini di Dresda, sia che effettuasse un’«ispezione» nell’appartamento di un sospetto o controllasse dei documenti per strada.24 È impossibile sapere se, camminando per la città vecchia, qualche parte della sua anima entrasse anche minimamente in risonanza con quella dolce bellezza.
Di sicuro, tale bellezza era molto apprezzata da una delle più importanti autorità civili di Dresda, anche se non servì a mitigarne i violenti pregiudizi. Il dottor Rudolf Kluge fu, per un certo periodo, borgomastro (sindaco) della città. Era nato a Dresda nel 1889 e, sebbene avesse studiato altrove, laureandosi in giurisprudenza a Berlino, vi era sempre tornato. È possibile che gli sbandamenti e il crollo economico degli anni Venti, sotto il regime di Weimar, avessero colpito duramente lui e la sua giovane famiglia: non si capirebbe, altrimenti, che cosa l’avesse indotto a aderire nel 1928 alla NSDAP. Comunque sia egli finì, e senza sentirsi molto a disagio, per occupare la più cupa delle posizioni morali: quella di avvocato chiave per escogitare giustificazioni legali non solo a vantaggio del Partito nazista, ma dell’intero nuovo regime che stava stringendo in una morsa il corpo politico tedesco.25
Un’altra figura rivestita di effettiva autorità in città in quella prima settimana di febbraio era Hans Nieland. Altro fedele militante della NSDAP fin dai primi tempi – aveva aderito al partito nel 1926 – era un membro delle SS. Aveva intitolato la sua tesi di dottorato in legge Il potere come concetto governativo di diritto.26 A mano a mano che il Terzo Reich si consolidava, a Nieland erano stati assegnati aridi incarichi da tecnocrate in istituzioni civili. Ma questo non significava che, in fatto di ideologia, fosse meno fanatico e violento. Nel 1940, all’età relativamente giovane di trentanove anni, era stato nominato borgomastro di Dresda al posto di Kluge, che divenne suo vice. Era quindi Nieland che avrebbe dovuto dare alla città i mezzi per difendersi, e che, nel febbraio 1945, sapeva bene quanto essa fosse inerme.
Negli anni Trenta Rudolf Kluge s’era pateticamente convinto che l’industria turistica di Dresda avrebbe conosciuto un boom grazie alle conquiste di Hitler, che avrebbero portato in quel nuovo centro della Germania visitatori sempre più affascinati.27 Nel 1945 poteva ancora ammirare con affetto dalla finestra le cupole e le guglie intatte della città; eppure quell’esteta era freddamente indifferente alle incredibili sofferenze che aveva contribuito a infliggere.