IX

RIPULIRE

Erano uomini giovani, intelligenti; e, come si evince da qualche carteggio rimasto, spesso erano anche molto sensibili. L’ombra della paura si riesce a intuire negli scambi di lettere con i loro cari, che partono calorose e poi iniziano – lettera dopo lettera, settimana dopo settimana – ad accorciarsi e farsi meno espressive, più distaccate. Era un’epoca in cui cose del genere non si potevano dire a voce alta. Gli aviatori dei bombardieri avevano tutti paura, ma a tutti loro era stato insegnato a credere che un’emozione simile potesse molto facilmente portarli a oltrepassare una linea morale sconfinando nella codardia e nel disonore: una prospettiva che li terrorizzava. Così quei giovani ostentavano ampi sorrisi e scherzi goliardici a base di acronimi, anche se i letti vuoti nelle basi aeree nei giorni successivi alle missioni alludevano alla prossimità della morte.

Al ritorno nelle basi dell’Inghilterra orientale, le autorità si premuravano che i giorni liberi da operazioni fossero pieni di tutte le distrazioni che dei giovani baldanzosi potessero desiderare: pinte di birra spumeggianti, uscite al pub con annessa possibilità di storielle con le ragazze del posto (le cosiddette «popsy», bamboline), spettacoli di varietà con comici che si esibivano nel loro repertorio più ardito. Eppure, niente di tutto questo avrebbe mai potuto, realisticamente, far dimenticare agli equipaggi dei bombardieri Lancaster quel che avevano passato, o ciò cui ancora dovevano andare incontro.

Contrariamente all’immaginario popolare, molti di questi giovani erano seri e riservati e preferivano divertirsi in maniera tranquilla. Un aviatore, per esempio, era veramente felice per la generosa assegnazione di arance severamente razionate; e scriveva alla moglie che aveva voglia di fragole.1 Erano uomini cui piacevano scrittori e poeti impegnati. La poesia era assai popolare in tutta la Gran Bretagna durante la guerra, ma molti nel Bomber Command rifuggivano da opere più leggere, preferendo T.S. Eliot e altri artisti altrettanto impegnativi. Miles Tripp, il giovane aviatore già incontrato nel capitolo VI e che si sarebbe trovato in prima linea nel peggiore dei raid di bombardamento su Dresda, dopo la guerra divenne un romanziere. La sua prosa riflette moltissimo le esperienze che fece, sia mentre era in servizio sia negli anni successivi. Le sue opere di fantasia hanno probabilmente fatto da parafulmine proteggendolo da ricordi più violentemente spaventosi e traumatici, ma non si è tirato indietro neanche da quelli. Quel che lui e i suoi colleghi aviatori sopportarono pare oggi totalmente inconcepibile.

Quando gli equipaggi venivano richiamati dalle operazioni in programma per via di avverse condizioni climatiche o di uno tra le centinaia di altri possibili ostacoli, ciò non faceva che alimentare la tensione e la paura, esasperando l’attesa dell’orrore di là da venire. Talvolta Tripp e i suoi commilitoni venivano trasferiti con gli autobus nelle grandi città limitrofe per farli distrarre, o a Cambridge per sentire delle lezioni, un ascolto più edificante delle chiacchiere dei comici di varietà.

L’ammirazione per le loro imprese non era generalizzata. Nel 1945, iniziava a divenire più evidente una certa ostilità politica e religiosa verso di loro e verso il ruolo che avevano nel conflitto, non solo negli accorati sermoni dei vescovi di Chichester e di Bath e Wells ma anche negli scritti del Bombing Restriction Committee, un gruppo che comprendeva svariati personaggi tra cui il laburista Richard R. Stokes, il filosofo Cyril E.M. Joad e l’attrice Sybil Thorndike.2 Nel 1944, la principale esponente del comitato, la scrittrice Vera Brittain, pubblicò insieme a Marie Louise Berneri Il seme del caos, un’accalorata denuncia del logorio morale causato alla civiltà dai bombardamenti di zona della RAF.3 Ci fu chi credette che alla fine, banalmente, sarebbero stati gli aviatori stessi a rifiutarsi di svolgere missioni del genere. Ma quei critici, a prescindere da quanto fossero solide le loro obiezioni di carattere etico, non capivano la natura della vita in quei campi d’aviazione, qualcosa che andava oltre il mero dovere.

Tra i requisiti preziosi che la RAF cercava nelle reclute c’era l’ordine innato, sia in termini fisici sia di carattere. La natura delle ore trascorse a bordo dei bombardieri Avro Lancaster richiedeva un’intensità di concentrazione e attenzione e qualcosa di più: la capacità di reagire rapidamente e con calma agli imprevisti. Quel che oggi si ha difficoltà a immaginare è in che modo tutte quelle migliaia di giovani riuscissero a condurre operazioni che sapevano benissimo avrebbero potuto condurli a una morte violenta, mantenendo comunque lo sguardo fermo.

Per servire nel Bomber Command della RAF, o anche nell’Army Air Force americana, non c’era leva obbligatoria. Nel caso della RAF, tutti quei giovani, di età compresa in genere tra i diciannove e i ventisei anni, erano volontari. Ma era faccenda ben diversa rispetto al Fighter Command, in cui i piloti singoli degli Spitfire si libravano tra le nubi e godevano di una certa autonomia quando si trattava di cacciare e distruggere il nemico. Ovviamente, ogni forma di combattimento aereo era estremamente pericolosa – la morte era il rischio più ovvio, per quanto le ustioni sfiguranti subite da alcuni superstiti potessero costituire un esito altrettanto temuto –, ma la figura dei piloti di caccia, che volavano da soli, si accompagnava a un innegabile romanticismo. Quando, dopo la guerra, l’ex comandante del Fighter Command, Lord Dowding, prese parte ad alcune sedute spiritiche a Wimbledon per mettersi in contatto con quei giovani morti da tempo, fu come se li immaginasse ancora in volo tra le nubi. Erano già stati a metà strada per il paradiso.4

Per i bombardieri era diverso: la loro era una forma di guerra industriale. I volontari avevano nutrito, sin dall’inizio, la ferrea convinzione che quello fosse il modo in cui si sarebbe sconfitto il nemico: come si sarebbe altrimenti potuto resistere alla paura? Ma c’era comunque, tra molti membri degli equipaggi, un tenace e spiccato senso del metafisico. All’Imperial War Museum, tra diari e carteggi, sono conservate anche parecchie poesie scritte da piloti. C’era chi rifletteva sull’euforia del volo, del «giocare a nascondino con le nuvole».5 La fase di addestramento aveva in sé i suoi pericoli: incidenti e morti erano all’ordine del giorno. Ma quei giovani, all’inizio, si lasciavano prendere dall’eccitazione di vedere il mondo da altezze sconosciute. Quella sensazione, di quando in quando, ne permeava i sogni: un membro di un equipaggio, l’ufficiale di rotta canadese Frank Blackman, aveva un incubo ricorrente spaventoso, in cui volava e veniva trascinato sempre più in alto, mentre la terra scompariva sotto di lui.6

Un bombardiere Lancaster aveva un equipaggio di sette persone. Alcuni di questi equipaggi si erano formati in fase di addestramento, erano bande di giovani amici che sapevano di potersi implicitamente fidare l’uno dell’altro in voli che duravano sette o otto ore. Esistono innumerevoli fotografie di equipaggi del genere in piedi sotto ai loro velivoli nella benevola luce bluastra dei pomeriggi inglesi, i volti all’apparenza spogli di qualsiasi tensione. Ma quando lasciavano la pallida luce del sole e si arrampicavano negli oscuri e scomodi abitacoli dei loro bombardieri, la realtà era tutt’altra. Nelle sue memorie, Miles Tripp scrive dell’«ottavo passeggero» che accompagnava i sette membri dell’equipaggio di ogni bombardiere, l’invisibile e ubiqua presenza che si trovava in ogni velivolo: la paura.7

Tra gli equipaggi dei bombardieri nascevano spesso amicizie straordinariamente forti, frutto della necessità di capire e intuire i pensieri e gli istinti dei commilitoni in momenti di terribile stress. Al comando, non importa che grado avesse a terra, c’era il pilota. In caso di emergenza era la sua voce che più andava ascoltata. Di fronte a lui, sul muso dell’aeroplano, si posizionava il puntatore. Guardava giù attraverso una guardiola di plexiglas, pronto per quando l’oscurità bianco-argentea delle nuvole avrebbe improvvisamente lasciato spazio al buio più profondo, molto più in basso, che lui avrebbe cercato di interpretare. Al pari della Gran Bretagna, la Germania nazista seguiva ferree regole sull’oscuramento. Per tutta la guerra la RAF sviluppò nuovi strumenti elettronici di navigazione e localizzazione dei bersagli: fasci di luce che rimbalzavano sulla terra, segnali su schermi a tubi catodici. Ma il puntatore doveva anche affidarsi al suo giudizio. Era difficile non farsi sviare dagli incendi che divampavano nelle città sottostanti; spessissimo si trattava di fuochi esca appiccati ai margini delle periferie, lontani dai centri gremiti di edifici. Miles Tripp era un puntatore, e nella fase cruciale di un raid, quando l’aereo era quasi sopra il bersaglio, era sottinteso che in quei pochissimi istanti il puntatore prendesse il posto del pilota come voce al comando. Era in base alle sue correzioni di rotta – «Vira un po’ a dritta, un po’ di più»8 – che si sarebbe agito negli immediati secondi prima che i marcatori (razzi di colori brillanti che indicavano ai velivoli di coda dove puntare), gli ordigni incendiari e le bombe venissero sganciati.

Poco dietro al pilota – nascosto da una tenda – operava il navigatore, l’ufficiale di rotta. La tenda era necessaria perché il navigatore non poteva essere distratto dal minimo baluginio. Al pari del pilota e del puntatore, il navigatore doveva rimanere perfettamente concentrato: ogni lettura o interpretazione errata della velocità dei venti contrari o del percorso di una linea ferroviaria avrebbero potuto significare errori di centinaia di chilometri nel bombardamento. Per tutta l’operazione non c’erano pause. Se anche si fosse protratta per sette, otto, persino nove ore, il navigatore non solo doveva portare il velivolo sul bersaglio ma poi doveva anche riportarlo al sicuro attraverso la Germania e la Manica, fino al suo campo d’aviazione.

Vicino c’era l’operatore radio. Per certi versi, questi giovani erano un po’ come gli informatici di oggi, tutti dediti alla tecnologia. Benché non fossero addestrati al volo, gli operatori radio dei Lancaster avevano superato un processo di selezione altrettanto rigoroso di quello applicato ai piloti. I giovani volontari dovevano essere degli assi della matematica e avere un’ottima dizione. Dovevano inoltre conoscere alla perfezione il codice Morse: era già un’attività abbastanza impegnativa tradurre e trascrivere con grande rapidità a terra, ma lassù in cielo, nell’aria gelata, con la maschera per l’ossigeno, i guanti, una tuta ingombrante addosso e lottando per tutto il tempo contro il rombo potente dei quattro motori Rolls-Royce Merlin del Lancaster, diventava la tecnica più difficile da padroneggiare.

Gli operatori radio non solo dovevano gestire tutto il traffico della messaggistica di volo, ma anche stilare rapporti sulle condizioni meteo e aiutare il navigatore identificando le fonti di altri segnali. Oltretutto, ci si aspettava che si occupassero loro delle mitragliatrici del Lancaster ogni volta che i mitraglieri della torretta centrale e posteriore dovevano lasciare la propria postazione. Praticamente costretti a restare immobili e al freddo, i mitraglieri dovevano fare delle pause, sia per un’ovvia ragione (ogni aereo era dotato di un bagno chimico) sia per sgranchirsi le gambe, nel vero senso della parola. Stare fermi su un aereo dotato solo del più primitivo sistema di riscaldamento poteva portare all’assideramento, di certo a una sorta di paralisi da congelamento. Dovevano avere l’opportunità di far tornare a pulsare il sangue.

I mitraglieri nelle loro torrette di plexiglas si trovavano di fronte a un paradosso. Da una parte, la loro era la postazione più pericolosa e terrificante, con visuale completa sui caccia nemici che si avvicinavano, sulle luci di ricognizione che arrivavano dal basso e l’aria circostante della notte che esplodeva dei fuochi della contraerea; dall’altra, almeno potevano vedere quello che arrivava da tutte le direzioni e in teoria potevano prepararsi a rispondere. Le torrette erano dotate di un sedile e la canna dell’arma sporgeva attraverso la fusoliera metallica. Anche dopo svariati aggiustamenti, e a guerra inoltrata, questi abitacoli lasciavano comunque passare l’aria gelata. I mitraglieri pertanto dovevano indossare la gamma più inverosimile di indumenti protettivi: il sergente Russell Margerison avrebbe ricordato come il primo oggetto da mettersi, prima di un’operazione, fosse un paio di calze di seta da donna.9 Poi veniva la biancheria classica lunga. C’erano delle babbucce riscaldate elettricamente, da indossare dentro stivali foderati di pelliccia; c’erano anche pantaloni e casacca foderati di pelliccia. La tuta di volo a pezzo unico era anch’essa riscaldata elettricamente. Prima di salire nella torretta, i volti dei mitraglieri venivano completamente spalmati con un preparato a base di petrolio per scongiurare l’assideramento e via via che l’operazione andava avanti erano loro, grazie alla loro visuale panoramica, a decidere se aprire il fuoco su caccia nemici che potevano non averli individuati. Erano i mitraglieri a guardare mentre i candelotti incendiari e poi gli esplosivi atterravano sulle città sottostanti: la distruzione di massa ridotta a uno spettacolo di luci scintillanti.

L’addestramento era difficile, e rischioso; a molte giovani reclute la combinazione tra sobbalzi violenti dell’aereo e oscillazioni della torretta faceva venire una nausea tremenda. Ma per quei giovani, che erano a un tempo combattenti e testimoni, la realtà andava ben oltre ogni normale descrizione. Oltre a prendere la mira e colpire i caccia nemici che arrivavano da angolazioni assurde, i mitraglieri nelle torrette assistevano al destino di tantissimi bombardieri che volavano nelle vicinanze. Erano loro a guardare gli altri aerei accendersi di un rosso ciliegia intenso, o esplodere in fiamme e scintille prima di precipitare giù dal cielo.

Il settimo membro dell’equipaggio aveva la responsabilità delle operazioni più pratiche, ma era anche il più vicino al cuore dell’aereo. L’ingegnere di volo doveva essere un esperto di questioni meccaniche, idrauliche ed elettriche. In volo, aiutava nel decollo e a monitorare il livello del carburante, e doveva essere svelto a correggere i guasti e a capire l’origine di qualsiasi malfunzionamento. Inoltre, a volte coadiuvava il puntatore e anche lui doveva prepararsi a rimpiazzare l’attività dei mitraglieri per dare la possibilità agli altri membri dell’equipaggio di fare una pausa. Egli, però, aveva un ruolo importante anche a terra: coordinarsi con le squadre di manutenzione del velivolo. Conosceva intimamente tutte le magagne della macchina, o i problemi ancor più gravi che avrebbe potuto sviluppare. L’ingegnere di volo si occupava dell’aereo quando era a riposo e ne traeva il massimo quando era in azione.

All’incirca quattro aviatori di bombardieri su dieci restavano uccisi, gravemente feriti o venivano fatti prigionieri. Gli equipaggi dei raid che coinvolgevano un migliaio o anche più bombardieri verso la fine della guerra non erano a conoscenza delle statistiche esatte, ma ugualmente non nutrivano alcuna illusione di invulnerabilità. Dai diari dell’epoca traspare il filo conduttore della superstizione. Ci furono aviatori che svilupparono quello cui oggi daremmo il nome di disturbo ossessivo-compulsivo: uomini che dovevano strofinarsi la faccia in un certo modo appena prima di salire a bordo; un mitragliere che aveva un particolarissimo ordine in cui doveva vestirsi, dai calzini a salire; un ingegnere di volo che si era fissato in maniera maniacale con un certo berretto di tweed, e non poteva prendere in considerazione l’idea di volare in missione senza.10 Questo perché, ovviamente, il genere di coraggio necessario a svolgere un’attività così letale, ancora e ancora, non era – e mai avrebbe potuto essere – innato.

C’erano particolari equipaggi il cui autocontrollo e la cui determinazione parevano così sovrumani da farli apparire quasi automi. Erano i Pathfinder, l’élite speciale e selezionata tra tutto il personale del Bomber Command. Al contrario degli altri, che avrebbero affrontato una quota prevista di una trentina di operazioni, a questi uomini – appunto in virtù della loro esperienza e competenza – ne erano richieste quarantacinque. E non era quello l’unico fattore a passare su menti e nervi già tesi. Il compito di questi equipaggi era di guidare la massa degli incursori e – una volta sul bersaglio – iniziare a lanciare i razzi di segnalazione che infuocavano la notte. «L’ora H era il momento di bombardare» ricordava il luogotenente Leslie Hay.11 Questi uomini erano i primi ad affrontare il fuoco nemico da terra; i primi a essere localizzati nei pallidi fasci delle luci di ricognizione che rischiaravano le nubi. I master bombers erano gli ultimi ad andarsene, continuando a sorvolare in cerchio l’area via via che i bombardieri che seguivano arrivavano e puntavano i bersagli che loro avevano segnalato. Sebbene si trattasse di bombardamenti a tappeto, comunque puntavano alla precisione, e operavano con l’ausilio di mappe su cui erano segnate fabbriche di munizioni o di cuscinetti a sfera, tentando di individuarne le sagome nell’oscurità sottostante.

La prima ondata di Pathfinder avrebbe sganciato all’inizio dei razzi di un verde intenso, nel raggio di un chilometro e mezzo dall’obiettivo. A questi sarebbero seguiti quelli che Hay chiama «luci», una cascata di candelotti incendiari di un bianco brillante;12 una volta illuminata la città sottostante, gli aerei successivi avrebbero sganciato razzi rossi, che avevano la funzione di segnare i bersagli precisi. C’erano anche altri colori – arancione, blu, rosa – che stavano a indicare obiettivi diversi. Queste vistose luminarie, soprannominate «pink pansies» (mammole rosa) e «red spots» (foruncoli rossi),13 erano comodi contrassegni su cui sganciare le mostruose bombe «biscotto», concepite per sventrare interi edifici, squarciandoli affinché potessero accogliere al loro interno il fuoco degli ordigni incendiari. Una volta che, sganciate le bombe, gli aerei tutt’a un tratto alleggeriti risalivano a maggiori altitudini, i Pathfinder viravano e indicavano la strada di casa, verso la Manica e da lì in direzione del santuario dei campi d’aviazione della contea orientale. Nel frattempo, i master bombers si sobbarcavano il doppio del pericolo. Sorvolavano le città ruggenti, in fiamme, per accertarsi che i bersagli fossero stati colpiti. I membri di questi equipaggi erano consapevoli che sarebbero stati i primi obiettivi di una vendetta; quelli che restavano nel cielo nemico più a lungo, sempre resistendo alla più elementare delle tentazioni umane, quella di volarsene via.

È difficile immaginare come questi equipaggi potessero trovare una qualche forma di tregua psicologica una volta alla base. Dopo aver visto i proiettili e il fuoco della contraerea lacerare i rivestimenti dei loro aerei, dopo aver visto guasti, ali colpite, motori in avaria, dopo aver riattraversato il vuoto mortale delle nebbie della Manica, com’era possibile per un aviatore pensare di poter rifare la stessa cosa solo poche notti dopo? C’era chi si concedeva un giro in bicicletta, perso nei suoi pensieri tra le distese delle torbiere; chi andava al bar, ma era solo un sollievo momentaneo: gli aviatori che dividevano le camerate alla base spesso si svegliavano l’un l’altro urlando per gli incubi.

Un aspetto di questa vita ancor più difficile da comprendere oggi è il gelido cinismo delle autorità quando si trovavano a gestire membri traumatizzati degli equipaggi. L’accusa di «deficienza di fibra morale» (DFM) avrebbe riscosso l’approvazione dei nazisti, perché indicava non solo una vergogna intrinseca, ma anche una caratteristica potenzialmente genetica: ovvero che la codardia si trovasse nell’intima fibra del proprio essere.14 Chiunque se ne fosse macchiato veniva effettivamente etichettato come un uomo di livello inferiore. Il concetto era presente nella RAF sin dall’inizio della guerra. Il maresciallo d’armata aerea Keith Park del Fighter Command, per esempio, aveva ritenuto fondamentale una tale durezza all’epoca della Battaglia d’Inghilterra: se un pilota si rifiutava di svolgere il proprio dovere, o mostrava chiari segni di paura, allora il ragionamento era che si dovesse separarlo dai suoi commilitoni al più presto, poiché si pensava che la paura fosse contagiosa.

Nell’esercito, i postumi della prima guerra mondiale avevano accresciuto la comprensione di ciò cui veniva dato il nome di «trauma da combattimento». Ma, stranamente, nella RAF l’idea che piloti ed equipaggio potessero cadere vittima di analoghi traumi fu – almeno per un certo periodo – inaccettabile. Ogni membro di equipaggio di bombardiere che mostrasse sintomi del genere senza una chiara causa medica poteva essere allontanato dalla base e trasferito in un centro speciale. In alcuni casi, agli aviatori potevano essere tagliate dalle uniformi le mostrine con le ali. Tutto il servizio prestato prima veniva ignorato. L’idea era che privare un uomo di un’identità così fieramente conquistata sarebbe servito da forte deterrente per qualsiasi altro pilota potesse prendere in considerazione di rifiutare ulteriori missioni.

Era opinione di molti che, in un momento di crisi esistenziale del paese, misure del genere fossero assolutamente necessarie; che se intere squadriglie di equipaggi fossero state contagiate dalla codardia mostrata da qualche aviatore stralunato, alla RAF sarebbero rimasti solo dei giovani neofiti a volare, navigare e difendere i bombardieri. Ma via via che la guerra andava avanti, gli psichiatri della RAF iniziarono ad accorgersi che l’implacabile spietatezza di quella politica – bombardieri traumatizzati rispediti alle operazioni sul campo, umiliati e denigrati dai loro superiori – difficilmente avrebbe modificato il modo in cui gli uomini reagivano all’esperienza di volare attraverso il fuoco e vedere i propri commilitoni inceneriti nel cielo. Al rientro degli aerei, le torrette di Rose (strutture aperte di plexiglas per i mitraglieri di coda in dotazione agli Avro Lancaster e appositamente progettate dai fratelli Rose) dovevano talvolta essere «ripulite», per citare le parole di un membro di una squadra di terra:15 non dalle conseguenze di qualche disturbo gastrico, ma piuttosto dal sangue e dai brandelli di carne dei membri dell’equipaggio caduti sotto il fuoco nemico, dopo che i piloti ne avevano riportato a casa i cadaveri dilaniati. Alcuni medici della RAF tentarono di smorzare quella politica della «fibra morale», diagnosticando turbe psichiatriche e prescrivendo cure idonee, al termine delle quali i piloti traumatizzati avrebbero avuto una possibilità di riprendere il servizio aereo.

A quanto pare, nella maggior parte degli equipaggi di bombardieri c’era qualcuno, o si sapeva di qualcuno, che era stato o abilmente rimosso dal suo incarico o era palesemente incapace di portarlo avanti. Altri, al contempo, sostenevano inflessibili di essere in condizione di continuare quando era evidente che non era così. Un navigatore di nome Bill Burke avrebbe ricordato come, ogni volta che tornava da un’uscita, dopo aver evitato di farsi abbattere da un tracciante della contraerea e aver affrontato cieli incandescenti di fuochi e collisioni di bombardieri, avesse sviluppato il tipico spasmo dell’aviatore.16 A tutti gli effetti, quando era al bancone del pub, stava bene; ma ogni volta che doveva accendere una sigaretta, i suoi compagni notavano con compassione l’incontrollabile tremore della mano mentre cercava di tirar su il fiammifero. E aveva avuto fortuna: in altri, spasmi del genere tendevano a interessare la testa o persino tutta la parte superiore del corpo, e dal punto di vista sociale erano assolutamente invalidanti.

Per altri, uomini distrutti sia nel fisico sia nella mente e che continuando a volare mettevano ancor più in pericolo le vite dei propri commilitoni, la politica ufficiale – che corrispondeva per la RAF all’uso di consegnare una piuma bianca (simbolo di vigliaccheria) – rendeva di fatto impossibile chiamarsi fuori. «Poiché tutti erano volontari nessuno poteva essere costretto a volare,» racconta Miles Tripp «ma l’umiliazione e l’ignominia che seguivano la confessione di un essere così stroncato erano tali che diversi individui continuavano le azioni anche dopo che i loro nervi erano stati fatti a brani, piuttosto che essere bollati con quelle tali lettere [DFM, deficienza di fibra morale].»17

Nel febbraio 1945, tuttavia, gli psichiatri erano ormai più esperti nelle diagnosi; le autorità ora non mettevano più così tanta enfasi sulla fibra morale. In questo stadio della guerra, non ne avevano bisogno. A ogni buon conto, come del resto precisa Bill Burke, c’era anche un problema psicologico opposto (e, si presume, altrettanto pericoloso) cui egli dà il nome di «euforia da contraerea».18 C’erano, tra quei giovani, alcuni che malgrado gli spasmi e le urla per i brutti sogni si scoprivano morbosamente assuefatti all’adrenalina delle loro uscite. Questi soggetti – anche una volta completate tutte le missioni operative che spettavano loro – bramavano di volare ancora.

Era questo il bizzarro scenario mentale in cui si trovavano gli aviatori nel febbraio 1945. Sebbene gli Alleati stessero procedendo in maniera costante verso est e benché i sovietici si stessero avvicinando, la guerra aerea registrò un nuovo genere di intensità. Ma gli aviatori britannici – e i loro colleghi provenienti da tutto il mondo, compresi Australia, Canada e Polonia – non furono gli unici cui venne richiesto di attingere da più profonde riserve di forza d’animo per le incursioni a venire. Gli aviatori americani – alcuni dei quali condividevano i dubbi filosofici espressi dai loro stessi alti comandanti circa l’efficacia e l’etica del bombardamento a tappeto – si stavano in parallelo preparando per le proprie missioni. L’USAAF preferiva ancora attaccare di giorno; il fatto che alla fine avrebbe seguito i britannici con un ulteriore raid su Dresda avrebbe influenzato la propaganda sui bombardamenti nei decenni a venire.