XI

IL GIORNO DELLE TENEBRE

Nel sottile vento freddo dell’inverno, quella era – per tradizione – una giornata dai colori sgargianti: lana verde, nastri di seta viola e rosa, percalle e ricchi merletti, corna da diavolo rosse, enormi fiocchi gialli. Agli occhi degli adulti, le maschere del Carnevale – la festa che segnava il Martedì grasso, il giorno che precede l’inizio della Quaresima – erano al contempo un tripudio di estetica e un richiamo al calore dei ricordi dei festeggiamenti degli anni prima. Al contrario, i ragazzi che indossavano quel ricco sfoggio di vestiti stravaganti lo trattavano col massimo della gravità e della serietà. Il 13 febbraio 1945, con Dresda e i suoi palazzi, alberi e parchi di un grigio uniforme sbavato di marrone, con adulti e anziani dall’aria esausta e sfinita dall’angoscia, i bambini della città insistevano per tirar fuori dalle soffitte, dai capannoni e dalle cantine gli scatoloni e i bauli di costumi. Le madri erano ben felici di accontentarli.

Per il giovane Georg Frank, quel clima di indulgenza si era esteso all’intera strada: i bambini «giocavano nelle loro variopinte maschere di Carnevale» e gli adulti, guardandoli, «dimenticavano le loro preoccupazioni per lo stato sempre più grave della guerra».1 Il piccolo era assai elettrizzato dal suo costume: «un fiocco da pagliaccio colorato» e «un ampio colletto bianco».2 Altrove, il compassato adolescente Winfried Bielss notava con compiacimento «i bambini mascherati e truccati»; e osservava come, sebbene «la guerra totale avesse soffocato quasi ogni occasione di pubblico divertimento», c’era ancora «quel luccichio sul calendario».3 Anche i cittadini più anziani si erano lasciati distrarre per un momento: Georg Erler e la moglie Marielein ricordavano come i Carnevali passati avessero coinciso col «freddo più cupo», mentre quel giorno, al contrario, era stato benedetto da un po’ di sole limpido e clima mite».4 Vedevano i bambini fuori, nelle strade di casette a schiera della Neustadt, magari non chiassosi come in altri anni, ma che comunque giocavano allegri nei loro abiti sgargianti. Nell’Altstadt, sull’altra sponda del fiume, Dieter Elsner, sette anni, il cui padre era sagrestano della Frauenkirche, aveva insistito moltissimo perché gli lasciassero indossare il suo prezioso costume da cowboy americano, con tanto di tomahawk, presunto trofeo di un’immaginaria battaglia nelle pianure. Benché la Germania avesse dichiarato guerra agli Stati Uniti nel 1941, l’iconografia del selvaggio West era ancora significativamente presente. Gli abitanti di Dresda leggevano ancora i romanzi di cowboy, di grandissima popolarità, scritti dall’autore tedesco Karl May.

Il Carnevale era ed è una festa sentita, in tutta la Germania, ma con modalità leggermente diverse. Nelle città più a ovest si era sviluppato a partire da tradizioni medievali che invocavano lo spirito del malgoverno, e per molto tempo aveva avuto uno spiccato sapore pagano, con maschere che evocavano satiri o personificazioni dell’inverno sotto forma di una vecchia raggrinzita e ghignante. In Sassonia, i festeggiamenti erano più improntati all’idea di un mondo sottosopra, con clown e buffoni promossi ai palazzi del potere. Ma c’era, comunque, anche l’evocazione di forze più oscure: gente mascherata da folletti e demoni, spiriti delle foreste. Collegati a tutto questo c’erano riti sulle colline che culminavano in vasti roghi, a simboleggiare la sconfitta del freddo e l’arrivo della primavera. Una città raffinata e intellettuale come Dresda non avrebbe mai potuto abbandonarsi liberamente a rituali del genere: lì, il Carnevale era invece semplicemente una festa prima dei giorni di astinenza che precedono la Pasqua. Martedì 13 febbraio 1945 era un giorno per bere e stare insieme, ed erano i bambini con i loro costumi – tra cui anche qualche diavolo in miniatura – a dare quel senso di occasione speciale.

Un’occasione speciale, però, che sarebbe arrivata un po’ più tardi: dopotutto, era ancora un giorno di scuola per gli alunni i cui plessi scolastici non erano stati requisiti dall’esercito o per ospitare i profughi. Al tredicenne Helmut Voigt, che abitava nel ricco sobborgo di Plauen, a sudovest di Dresda, più o meno a inizio giornata era stato affidato un compito dal suo insegnante. Le autorità scolastiche avevano notato che alcune porte non erano sicure e avevano bisogno di nuove serrature e catenacci. A Helmut era stato dato del denaro e chiesto di trovarne e comprarne un po’; era un compito facile, a sentirlo, ma in un periodo di cronica penuria di materiali, oggetti del genere erano rari. Le ferramenta dei paraggi non ne avevano. L’idea che alla fine venne a Helmut, che bisognasse andare a vedere all’Altstadt, avrebbe cambiato il corso tanto di quella sua giornata che di tutta la sua vita.5

Nelle scuole della città si era alacremente insegnato agli alunni quali misure d’emergenza adottare in caso di bombardamento; il giovane Dieter Haufe e i suoi compagni avevano appreso come soffocare la combustione del fosforo con la sabbia.6 In un’altra scuola, la Müller Gelinek, i maestri erano rapidissimi nel dare ai loro allievi l’allarme antibomba. L’edificio era stato mancato per poco nel raid americano sugli scali di smistamento ferroviario del 16 gennaio, episodio che ai ragazzi era stato descritto come «un attacco terroristico a Dresda». Ursula Skrbek avrebbe ricordato come nella sua scuola la presidenza mandasse i bambini a casa prima praticamente ogni giorno, in quel periodo di morte.7 Altri studenti furono addestrati a sfilare ordinatamente all’interno di rifugi improvvisati nel seminterrato.

Ormai, per i bambini di Dresda, i rifugi cittadini improvvisati erano parte integrante della vita di ogni giorno. Georg Frank, che viveva in un condominio con la sua famiglia, ricordava la scala ripida che conduceva sotto di esso, a un corridoio di cantine in mattoni costeggiato da cellette più piccole, ciascuna con la sua porticina di legno. La famiglia Frank aveva arredato il suo angoletto con un tavolo e una o due sedie di legno; altre sedute erano state ricavate in maniera spartana da alcune assi di legno. Il vecchio muro in mattoni, ricordava Georg, si stava sbriciolando in alcuni punti, e c’erano dei buchi nella malta.

La famiglia di Dieter Haufe era stata evacuata dalla precedente sistemazione per via dei danni causati da una bomba. Il rifugio del loro nuovo alloggio di Pieschen – un quartiere a nord dell’Elba, su una collina che sovrastava l’Altstadt – era di fatto una bottega riconvertita allo scopo. Si trattava di un seminterrato con strette finestre orizzontali in cima alle pareti, da cui si riusciva a vedere il cielo.

Altri rifugi erano stati selezionati ben più oculatamente; le cantine del palazzo Taschenberg, di fronte allo Zwingergarten e alla cattedrale cattolica, avevano pavimento di cemento e porte d’acciaio. Il palazzo veniva utilizzato dagli ufficiali della Wehrmacht e da esponenti dell’amministrazione comunale e delle forze di polizia; non era un rifugio pensato per la gente comune. Ma a poche strade di distanza c’era uno spazio sotterraneo aperto a chiunque avesse voluto: l’imponente edificio della Frauenkirche, svettante nell’ampia piazza del Neumarkt, era dotato di una cripta. Si trattava di un labirinto di archi e antiche pietre tombali, con i soffitti bassi. La cripta della Frauenkirche non era in effetti un luogo consacrato di sepoltura; le antiche lapidi incastonate nelle sue spesse pareti erano state collocate lì alcuni secoli prima in seguito alla distruzione di un’altra chiesa nelle vicinanze.

La Frauenkirche era circondata da un brulicante miscuglio di bar e negozietti situati all’interno di alti palazzi del XIX secolo che contenevano innumerevoli appartamenti sopra il livello stradale e dedali di altrettanto venerande cantine al di sotto. L’unica concessione che il Gauleiter Martin Mutschmann aveva fatto, per garantire alla popolazione della città rifugi pratici e affidabili, era stata quella di consentire che sottoterra venissero svolti dei lavori. Invece di mantenere celle separate, i muri di mattoni erano stati abbattuti, di modo che tutti gli scantinati delle strade fossero collegati tra loro. Il risultato finale era un fitto e intricato labirinto sotterraneo. Oltre ai punti d’accesso dai locali privati serviti dalle cantine, i tunnel riemergevano anche in due postazioni all’aperto: in una direzione c’era l’argine di pietra del fiume Elba, mentre dall’altra si seguiva un percorso che portava a rivedere la luce al parco del Grande Giardino, in centro città.

Alcune famiglie, seguendo scrupolosamente i consigli delle istituzioni, avevano avuto la precauzione di preparare delle valigie con il necessario, comprese maschere antigas e coperte. Gisela Reichelt, una bimba di dieci anni la cui famiglia viveva in un condominio ad appena due strade di distanza dalla brulicante grande stazione centrale, aveva partecipato a moltissime esercitazioni ed era ormai avvezza all’oscurità che sapeva di muffa del seminterrato dell’edificio.8 Posizionato com’era a sud sia dei binari del treno sia dell’Altstadt, il suo era uno scantinato decisamente più moderno, che non si collegava con nessun altro. Il fabbricato era situato ai piedi del lieve pendio che portava alla periferia sud. Nel quartiere, c’erano strade più ampie e cortili alberati. Gisela avrebbe ricordato che lei e i suoi amichetti quel pomeriggio avevano giocato all’aperto, nell’aria fredda e pungente. Le loro grida e le loro risate erano rimbalzate e riecheggiate dalle alte mura.

Un po’ più a ovest, chiusa in una piccola valle rocciosa, c’era un’attività già dotata di rifugi prefabbricati. I titolari del birrificio Felsenkeller, costruzione risalente al tardo XIX secolo, avevano adottato un approccio innovativo nell’utilizzo del paesaggio circostante, e avevano fatto scavare profondi tunnel nelle rocce adiacenti gli edifici principali. Ora, al pari della maggior parte delle altre fabbriche di Dresda, anche il Felsenkeller era stato riconvertito a una complessa e tecnica attività di produzione bellica; la società di illuminazione Osram ne occupava una larga parte, dove si producevano strumenti in tungsteno. La diciassettenne Margot Hille, che aveva iniziato a lavorare al birrificio l’anno prima subito dopo aver finito la scuola, la mattina del 13 febbraio si stava preparando a un’altra giornata di un lavoro che a tratti trovava estenuante.9

Quel febbraio, durante le ore di lavoro, Fräulein Hille aveva subito una seccatura ricorrente. Attaccava molto presto, poco dopo l’alba, e si supponeva staccasse alle quattro e mezza del pomeriggio. Ma il direttore della sua sezione «arrivava spesso appena prima dell’orario di chiusura e iniziava a dettare lettere alla segretaria». Risultato, Fräulein Hille doveva aspettare mentre la segretaria ricopiava le lettere, faceva vistare le copie finite dal direttore e poi le imbustava perché lei le portasse al grande ufficio postale a un paio di chilometri di distanza a Plauen. Morale della favola, avrebbe ricordato, «spesso non arrivava a casa prima delle sei».10 La mattina del 13 febbraio, Margot era stanca; aveva passato una sfilza di notti agitate, dal sonno disturbato.

Tutta la città era piena di operai che, sottoponendosi essi stessi a turni spaventosamente lunghi, in qualche misura quasi non si accorgevano dei lavoratori coatti che li circondavano. Il padre di Dieter Haufe, che aveva cinquantatré anni, era stato impiegato in alcuni progetti edilizi del posto, compreso lo scavo di serbatoi di carburante. Ora, come osservava Haufe, era costretto a lavorare anche all’enorme impianto Goehle-Werk, subito a nordovest dell’Altstadt, tra i verdi sobborghi sulle colline.11 Lì era situato uno dei centri di lavoro coatto di Dresda: all’interno della struttura, dedicata alla produzione di strumentazioni per aerei e sottomarini, lavoravano donne ebree selezionate dai campi di concentramento, per le quali la fabbrica era diventata tutto il loro mondo: turni pesanti, sonno scarso in dormitori affollati, poi il ritorno alla luce artificiale e a complicate catene di montaggio. Il padre di Dieter Haufe alla sua età avrà anche potuto essere stanco, ma la sua vita era comunque ancora sua.

In aggiunta a tutte quelle fabbriche che circondavano Dresda, c’erano anche, quella mattina di febbraio, centinaia di persone impegnate in tutta l’ampia gamma di doveri civili che facevano continuare a pulsare il sangue della città. Oltre all’ampia rete tranviaria – con le sue rotaie e i cavi che si intersecavano agli incroci trafficati – c’erano gli autobus pubblici, alcuni dei quali, da notare, guidati da prigionieri di guerra. Dieter Patz ricordava che al volante del suo pulmino della scuola era «un giovane con la carnagione scura e i capelli neri».12 I passeggeri, con perfetta educazione, lo salutavano chiamandolo «Alex»; era un soldato francese catturato molto tempo prima.

La mattina presto di quel Martedì grasso le arterie della città erano già una massa compatta di umanità. Nella stazione centrale confluivano innumerevoli uomini, donne e bambini scesi dai treni che arrivavano dall’Est. I binari e le banchine erano sopraelevati; sotto c’era l’atrio della stazione e più sotto ancora sottopassaggi e scantinati. Sorprendentemente, malgrado il caos, la stazione offriva comunque un’ampia gamma di servizi. Per i soldati di passaggio c’era una piccola lavanderia, dove potevano lasciare le sacche con l’equipaggiamento per farsi pulire l’uniforme mentre trascorrevano un paio d’ore in città.

Alla stazione erano anche di servizio diversi poliziotti; non per paura di disordini, quanto piuttosto per evitare confusione tra gli innumerevoli profughi che avrebbero rischiato di congestionare l’intero luogo. Anche i ferrovieri avevano bisogno di tutto il loro acume per far fronte alle molte variazioni di binari e orari, via via che informavano famiglie sfinite e talvolta sotto shock su quali treni dovevano prendere, quando e da dove. Anche per i più navigati, come Georg Thiel, la parvenza d’ordine della stazione svaniva a ogni nuovo arrivo.

E all’esterno, nelle strade che portavano a nord, persisteva la sensazione di un fragile tentativo di non perdere la compattezza di fronte al caos brulicante; lì c’erano i profughi a piedi, che premevano a nord verso l’Altstadt, il fiume, la città nuova e le periferie rigogliose e la campagna al di là di quelli. Le linee dei tram di Dresda andavano facendosi sempre più congestionate e scomode, con cavalli e carretti che attraversavano penosamente le rotaie, pedoni che si accalcavano tra loro fuori dai marciapiedi. Le strade intorno a Prager Strasse erano sempre state affollate, anche in tempo di pace; ma ora, da quella bolgia a tratti senza una direzione, traspariva una nota di incipiente anarchia.

Ad appena quattrocento metri di distanza, accanto alla mole di pietra grigia degli uffici comunali, la pietra ancor più severa della Kreuzkirche era l’immagine della calma. In quel giorno prima della Quaresima, nell’oscurità cupa della grande chiesa, il coro si stava preparando alle messe del giorno successivo. La gente all’esterno, che spingeva e schivava per farsi strada in quella marea umana di soprabiti invernali, avrà sentito di tanto in tanto le note cristalline di soprani e contralti che tagliavano l’aria. Quegli squarci scollegati di inni religiosi così familiari avranno potuto ottenere l’effetto di fermare il tempo, regalare un istante di straniamento. Ma la realtà non si poteva arginare a lungo.

A combattere tra la folla e il traffico, per tutto quel giorno, ci fu anche il professore di filologia Victor Klemperer. Quel mattino, prima delle otto, aveva lasciato i suoi alloggi in una delle Judenhaus di fronte al sito ora vuoto della vecchia sinagoga, la fredda e angusta sistemazione cui lui e la moglie Eva erano stati costretti, insieme a moltissime altre persone, nei pressi della Frauenkirche. Le istruzioni che aveva ricevuto per quel giorno dalle autorità cittadine erano di recapitare al più presto una circolare a settanta dei circa duecento ebrei rimasti in città, a indirizzi sparsi in tutta Dresda. A tutti coloro che l’avessero ricevuta era richiesta una «mobilitazione del lavoro fuori sede».13 La lettera diceva di preparare un bagaglio con vestiti e provviste che durassero tre giorni. Avrebbero dovuto presentarsi l’indomani mattina a un indirizzo vicino agli uffici del Comune. Era chiaro che li avrebbero portati da qualche parte.

Il professor Klemperer fu informato che lui e la moglie non avrebbero dovuto presentarsi per quella mobilitazione. Subito, come scrisse nel suo diario, egli percepì la distanza che si spalancava tra sé e coloro cui stava recapitando la lettera.14 Contrariamente al solito, per svolgere il suo incarico le autorità gli permisero di spostarsi in tram: una modalità di trasporto che era proibita agli ebrei. L’ordine di presentarsi per il «lavoro fuori sede» pareva non tener conto né dell’età né dell’effettiva abilità al lavoro. Klemperer non aveva dubbi su cosa quella lettera significasse per chi la riceveva: un viaggio in treno, il silenzio di un binario di raccordo, la morte. Nelle chiacchiere sommesse della sera, nella Judenhaus, si erano condivise voci e ipotesi tetre. Il terrore, nel suo essere così razionale, era ancora peggio.

Il professor Klemperer era convinto che il suo apparente esonero dalla convocazione fosse solo temporaneo, e che lui e la moglie sarebbero andati incontro alla stessa sorte nel giro di una settimana. Fece diligentemente il suo giro delle Judenhaus sparse per la città, recapitando le convocazioni a destinatari che andavano da bambine di dieci anni a donne sulla settantina, a madri con bimbi piccoli. Le madri sembravano stoiche, ma appena chiudevano la porta Klemperer poteva sentirle scoppiare in singhiozzi incontrollabili.

Il professore aveva assistito al sommarsi di anni e anni di crudeltà, grandi e piccole, ma anche con quell’esperienza di malvagità alle spalle, il dolore non era mai diminuito, non era nemmeno mai stato intaccato. Lui e gli altri ebrei di Dresda avevano sopportato sia il sadismo della Gestapo sia la vuota indifferenza dei concittadini. Ma ora – a un punto in cui lui e molti altri avevano passato le serate a fare ipotesi sul ritmo di avanzata dell’Armata Rossa e sullo stato delle difese tedesche – quello sembrava lo sforzo finale per far piazza pulita in città anche dell’ultimo singolo ebreo rimasto proprio mentre sembrava che il mondo stesse per trasformarsi ancora una volta.

E poiché la loro comunità era stata spietatamente costretta a quello stato di emarginazione, il professor Klemperer e gli altri ebrei come lui guardavano alle paure dei propri concittadini con una curiosità assolutamente imparziale; laddove, come scriveva, gli ebrei più di tutto temevano la Gestapo, i gentili di Dresda erano terrorizzati dai sovietici.15 Circolavano voci, annotava, secondo cui alcuni sovietici atterrati con il paracadute si sarebbero infiltrati nella città, fingendo di essere tedeschi. Si diceva anche che il Gauleiter Mutschmann si stesse preparando a scappare. Un amico del professore gli raccontò di aver visto dei soldati tedeschi che attaccavano cariche esplosive al Carolabrücke, il principale ponte sull’Elba, verosimilmente per prepararsi a ritardare l’ineluttabile avanzata dell’Armata Rossa.

La storia è confermata dal sessantasettenne Georg Erler e da sua moglie Marielein. Quel giorno, anche loro erano in preda a uno stato di ansia che trovava la sua manifestazione esteriore in piani elaborati per proteggere tutti i bei cimeli che avevano accumulato nel corso degli anni. Herr e Frau Erler vivevano nella zona est di Dresda, in una bella casa con un ampio giardino, in una strada piena di ville imponenti. Oltre a quadri e porcellane, possedevano moltissima argenteria; il giorno prima, 12 febbraio, ne avevano messa il più possibile in una cassaforte improvvisata, l’avevano caricata in macchina e avevano guidato per una trentina di chilometri verso sud fino a un loro conoscente di Dippoldiswalde. Herr Erler riteneva che, nell’eventualità che l’Armata Rossa avesse saccheggiato il quartiere, in quell’angolo di campagna ci sarebbe stata almeno una possibilità che il loro tesoro le sfuggisse.

Il 13 febbraio, però, né lui né la moglie erano riusciti a scrollarsi di dosso quella sensazione di angosciosa incertezza. Il figlio e la figlia vivevano in una città a Nord, Lüneburg, quindi i due anziani coniugi non avevano nessun affetto a rischio a Dresda, ma il loro elegante alloggio non aveva semplicemente l’aria di una casa; tutto ciò cui nella vita davano valore era a quanto pare racchiuso tra quelle mura. Georg Erler rammentava con precisione voluttuosa la bellezza del loro tavolo di mogano Biedermeier, coperto di seta verde; le poltrone e i divani, i dipinti a olio che raffiguravano antenati lontani della famiglia di Marielein, tra cui un vistoso ritratto di Friedrich Cappel e sua moglie Louise in costume, lui con abiti da caccia nel bosco e lei con una veste più sontuosa ed elegante. C’era anche uno studio a olio, di non meno straordinaria fantasia, di Afrodite che sorge dalle acque, di un artista di nome Boyen, il quale – scrive Erler – era stato vinto dall’«annichilimento mentale».16 Alcuni quadri, come l’argenteria, erano stati inscatolati. Qualcuno era nella carbonaia; altri li avevano spediti alla figlia a Lüneburg. C’era anche un pianoforte «sonoro», suonato da Marielein; Herr Erler aveva comprato gli spartiti «di alcune sonate di Beethoven» nella speranza che qualcuno dei suoi raffinati ospiti vi si interessasse, ma l’avevano fatto in pochi.

Herr Erler era particolarmente geloso della sua vasta collezione di splendide porcellane di Meissen. C’erano vasi Copenaghen, ornati di ciclamini e tarassaco;17 vasellame profilato in oro; un servizio da caffè, anch’esso con i bordi in foglia d’oro; scodelle e piatti squisitamente decorati da fiordalisi e tazzine da caffè che erano cimeli esclusivi della famiglia Erler, adornate con immagini di cari estinti realizzate su commissione.

«Nei vasi c’erano sempre fiori freschi del giardino» ricordava Herr Erler, fiero che l’alloggio parlasse di gusto ed eleganza.18 C’erano anche arredi moderni, dal caminetto in maiolica bianca alle lampade elettriche a stelo, al grammofono chiuso nel suo stipetto. Nei ricordi di Herr Erler si avverte il senso profondo di un mondo domestico forse insolitamente autocompiaciuto e gradevole dal punto di vista estetico. Nel primo pomeriggio del 13, la coppia decise di andare a fare una passeggiata; entrambi avevano sentito le voci sul Carolabrücke caricato di esplosivi. Il duplice pungolo di curiosità e disagio era troppo potente da ignorare.

Marielein Erler aveva sempre pensato che la città fosse sicura, banalmente in virtù del suo rinomato splendore, ma in lei dovette insinuarsi il dubbio, a mano a mano che insieme al marito attraversava il ponte in direzione nord, verso la Neustadt, e incontrava soldati all’opera. «Volevamo vedere se era davvero così» avrebbe ricordato Frau Erler. «Avevamo sentito che stavano preparando la dinamite per far esplodere il ponte. E sì, era proprio così! I soldati piantonavano svariati punti del ponte. Chiedemmo loro se era vero della dinamite. “È vero!” ci risposero.»19 Arrivati sull’altra sponda, i due si voltarono a osservare l’Altstadt. «Guardammo nell’Elba» continua Frau Erler «e ammirammo il bel panorama di Dresda.»20 Georg Erler era l’addetto alla protezione antiaerea per la loro strada e nella notte doveva essere in servizio.

Quel giorno, in giro per le strade, nei pressi degli edifici funzionalisti dell’università, c’era anche qualcun altro che aveva passato parecchio tempo a fare ipotesi sull’avanzata sovietica, e sulla spaventosa potenza di fuoco che l’Armata Rossa avrebbe riversato sulla città. Il giovane fisico lettone Mischka Danos stava organizzando per quella sera una festa in camera sua, nel grosso pensionato in cui alloggiava. Sperava di poter servire ai suoi ospiti una prelibatezza russa, il kissel, una specie di marmellata acidula mescolata a frutti di bosco, ma c’erano alcuni ingredienti che ancora doveva procurarsi. Oltretutto, la sua giornata era stata riempita dal lavoro per il professor Barkhausen nel suo laboratorio di ricerche sull’elettricità. Date le condizioni generali della guerra, Danos aveva appena goduto di alcune settimane di eccezionale relax: era da poco tornato da una vacanza invernale, che aveva in parte trascorso a Innsbruck.21 Era come se il giovane fisico si stesse muovendo in una qualche dimensione parallela rispetto a tutti gli altri civili; una vita in cui viaggi piacevoli e vivaci conversazioni da intellettuali erano ancora assolutamente possibili. L’idea stessa di servire ai suoi invitati, quella sera, una ricetta russa rivelava uno straordinario distacco, vista la fragorosa vicinanza delle truppe d’invasione sovietiche.

Intanto, a più di milleseicento chilometri di distanza, sotto un cielo terso e gelido, Miles Tripp quel pomeriggio aveva lasciato la base della RAF in sella alla sua motocicletta.22 Sapeva che lui e i suoi compagni di equipaggio non avrebbero avuto il briefing fino al tardo pomeriggio, così aveva colto l’occasione per rombare attraverso le stradine di campagna che tagliavano piccoli campi verdi e chiazze di boscaglia sulla strada per Bury St Edmunds; la moto aveva una fastidiosa perdita di carburante, e voleva farla riparare.

Tripp e i suoi compagni avevano da poco ricevuto la notizia che il loro ordine di servizio era stato allungato; ora avrebbero dovuto compiere quaranta missioni sulla Germania prima di essere liberi dagli incarichi di bombardamento. Per come la vide Tripp, fu come sconfinare in un altro regno, un momento di trasformazione in cui la paura profonda divenne qualcosa di più metallico. Lui e i suoi compagni di equipaggio erano tutti ben consci dei tassi di mortalità, eppure nei loro animi c’erano ancora scintille di speranza, che si manifestavano qualche volta in una recalcitrante fede nel soprannaturale. Tripp e i suoi compagni si lasciavano facilmente impressionare: Harry, per esempio, un aviatore giamaicano, aveva sviluppato una straordinaria capacità di prevedere con esattezza – ore prima che glielo dicessero – quale sarebbe stata la città tedesca che avrebbero avuto come prossimo obiettivo. Aveva accesso a informazioni privilegiate o c’era qualcos’altro, una forma di premonizione sovrannaturale? Poco prima Harry aveva raccontato a Miles di aver sognato un amico aviatore, conosciuto in Canada, che era morto in un incidente. Secondo quanto riferì a Tripp, l’amico gli aveva fatto visita in sogno, sventolando la mano in segno di saluto. «Non mi piacciono affatto sogni di questo genere» aveva commentato con Miles.23 E Miles non avrebbe potuto essere più d’accordo.

Quel pomeriggio del 13 febbraio, però, a Bury St Edmunds, un paesino affollato di case in legno, sotto il cielo di un pallido azzurro e bianco, Miles Tripp era in cerca di un po’ di banale normalità: lasciò la moto dal meccanico e poi, rispondendo a una sorta di impulso, fece visita alla biblioteca locale. Si sedette e guardò il sole che brillava attraverso le enormi finestre prima di selezionare dagli scaffali svariati libri di poesia, con i quali fece ritorno al suo banco. La poesia, avrebbe in seguito ricordato, non fu che «uno sforzo inconscio per ristabilire il collegamento con l’esistenza precedente, più sicura dell’attuale, perché mi trovai a leggere le poesie che mi erano piaciute tanto a scuola».24 Eppure, quelle opere non gli davano alcun sollievo. Al contrario, Tripp, seduto a quel banco della biblioteca, scoprì di sentirsi sempre più nervoso. Era ora di ritirare la motocicletta riparata; e mentre Tripp tornava alla base, il sole, a ovest, era ormai basso sull’orizzonte.

A Dresda, nel tardo pomeriggio, la folla per le vie dell’Altstadt si era fatta ancora più fitta; dalla stazione ferroviaria e dalle strade si era aggiunto un numero incalcolabile di nuovi arrivi. Una leggenda metropolitana si era diffusa con una certa rapidità: pareva che tra quelle migliaia di profughi brulicanti si aggirassero in incognito disertori dell’esercito, che facevano del loro meglio per evitare l’attenzione delle autorità. Era sottinteso che queste ultime non avrebbero mostrato la minima pietà per chiunque fosse stato catturato, e si stimava che a Dresda, quel giorno, ci fossero almeno qualche centinaio, forse un migliaio, di uomini del genere, che si facevano strada schivando qua e là la folla di famiglie che ammiravano l’eleganza dei negozi di Prager Strasse.

In mezzo a tutta quella gente, che andava in diverse direzioni e con diversi scopi, c’erano anche due studenti. Winfried Bielss era tornato a casa da scuola e aveva indossato la divisa della Gioventù hitleriana, pronto per il servizio della sera. I suoi vestiti alludevano a un’autorità iperaggressiva (la camicia marrone con la svastica cucita sul braccio, le spalline rigide, lo stemma imperiale raffigurante l’aquila, e il motto «Blut und Ehre», sangue e onore),25 ma la testa di quel ragazzo non avrebbe potuto essere più lontana di così dalla guerra. Stava pensando, piuttosto, alla splendida collezione di giocattoli Erzgebirge – bamboline e marionette di legno dell’arte popolare riccamente dipinte – che aveva visto nello studio di suo zio. Ancor più nello specifico, fantasticava sulla raccolta di francobolli dello zio. Anche Winfried aveva una passione profonda per la filatelia. Pur nel pieno della guerra, c’erano a Dresda commercianti specializzati in francobolli, e tra questi c’era un negozio, l’Engelmann, con una vasta scelta di esemplari da collezione. Bielss si ritrovò a gironzolare da quelle parti per osservarne la vetrina. Sul suo tragitto, c’era un altro negozio: il Bohnert. Lì, in mostra, c’erano esemplari ancora più insoliti: francobolli rari che erano finiti carbonizzati, con i bordi bruciacchiati. Ciò, concluse Bielss, «era indice del fatto che in caso di raid aereo nemmeno una cassaforte li avrebbe protetti abbastanza».26

All’incirca alla stessa ora, quel giorno, l’adolescente Helmut Voigt si trovava nell’ampia piazza dell’Altmarkt. Qualche mese prima, gran parte dell’area centrale dell’acciottolato della piazza era stata confiscata e trivellata per costruirvi un ampio serbatoio, delle dimensioni di una piscina ma più profondo, con lisce pareti di cemento; più che per incrementare le riserve di acqua potabile della città, la struttura era concepita per l’utilizzo in caso di emergenza da parte dei vigili del fuoco nell’eventualità di un blitz aereo. Helmut – insieme al cugino Roland – era alla ricerca di chiavistelli per mettere in sicurezza la sua scuola. Diretto al centro della città dal sobborgo di Plauen a bordo di un tram gremito di gente, il ragazzo era certo che il grande magazzino Renner, ancora funzionante, avesse sicuramente qualcosa che avrebbe fatto al caso suo.

I due cugini avevano notato le strade insolitamente affollate, il tram che si fermava e ripartiva, il traffico che si bloccava, gli innumerevoli ostacoli umani. Il grande magazzino, tuttavia, di per sé era relativamente tranquillo. Il giovane Voigt si avvicinò a un anziano commesso del settore articoli per la casa; quello andò a controllare gli scaffali sul retro, ma senza successo.27 I due ragazzi lasciarono l’elegante centro commerciale a mani vuote, e di nuovo riattraversarono la piazza congestionata con il suo serbatoio.

Il pomeriggio stava cedendo spazio al crepuscolo. Voigt salì su un autobus diretto a casa, ma la calca rendeva il tragitto terribile. Oltre alla folla che procedeva lentissima in Prager Strasse, ci fu anche un piccolo dramma; a un certo punto, cadde un pedone; il conducente dell’autobus dovette aiutarlo a togliersi dalla strada e mettersi al sicuro.

Il cammino di Voigt fu incrociato da quello di Lothar Rolf Luhm, un giovane soldato in licenza, convalescente da una ferita. Luhm si era messo d’accordo per incontrarsi con un altro soldato suo amico, di nome Günther Tschernik. Inizialmente aveva in programma di trascorrere qualche giorno a Schneidemühl, una città della Polonia occupata (l’odierna Piła), ma ormai quella località era diventata «una fortezza».28 Luhm era rimasto ferito durante l’offensiva delle Ardenne, alla fine del 1944. Lo avevano mandato a trascorrere alcune settimane in un sanatorio in una nevosa città della Slesia, che all’epoca si chiamava Schreiberhau. Si trovava a Dresda quasi per caso, stava semplicemente facendo ritorno alla propria unità. E ora, nell’attesa dei collegamenti di trasporto, lui e il suo amico Günther avevano un po’ di tempo per esplorare quella città sconosciuta.

Poca dimestichezza con Dresda – pur essendo molto felice di essere lì – ce l’aveva anche Norbert Bürgel, un ragazzino profugo che aveva lasciato la Slesia con la sua famiglia per ricongiungersi ad alcuni parenti in un quartiere a nordovest della città, sulle colline che sovrastavano l’Altstadt (in questo senso era un caso atipico: la maggior parte degli sfollati era solo di passaggio in un viaggio che li vedeva diretti più a ovest). Il 13 febbraio, Bürgel era a Dresda da una settimana, e stava da suo zio Günther.29 L’idea che il Martedì grasso si dovesse festeggiare non era stata accantonata, e i Bürgel avevano in programma di cenare a un ristorante al capolinea del tram nel quartiere di Gohlis, una splendida enclave da cui la città lambiva le campagne.

Tornando in Inghilterra, nel crepuscolo verde intenso del Suffolk, Miles Tripp e i suoi compagni di equipaggio – tra cui il pilota «Dig», il navigatore Les e quell’Harry dall’intuito spiccato – erano ora alla base, in mensa, a consumare la cena prima del volo.30 Non sapevano ancora quale fosse l’obiettivo prefissato per quella notte; l’avrebbero scoperto di lì a poco. Ma in quell’occasione, i bizzarri poteri di preveggenza di Harry lo avevano abbandonato. Non aveva, disse ai suoi compagni, «alcun presentimento» per quella missione.

Quando fu scostata la tenda, a rivelare la mappa appesa nella sala briefing quella sera, mentre sedevano ai tavoli con gli altri membri del loro squadrone, gli occhi di tutti si puntarono sul filo rosso che segnava la rotta al di là della Manica. La linea si allungava sulla Francia, superava Stoccarda, Francoforte e Mannheim e proseguiva ancora e ancora verso est. «Nessuno» avrebbe ricordato Tripp «aveva mai sentito dire che Dresda fosse stata bombardata prima di allora.»31 In realtà, sembra che il suo primo pensiero non sia stata l’immensa distanza, o l’enorme quantità di tempo in cui il loro aereo sarebbe stato esposto al fuoco tedesco (erano all’incirca nove ore da passare in aria); fu invece che la città non avrebbe avuto il «nero anello» di difesa che circondava Berlino e le città industriali della Ruhr. Miles Tripp sapeva già che Dresda era, come l’avrebbe in seguito descritta Victor Klemperer, un «piccolo scrigno». In effetti, una forza di difesa c’era; benché i cannoni della contraerea della città fossero stati rimossi a gennaio, per mandarli più a est, c’era una piccola squadriglia di caccia Messerschmitt di stanza al campo d’aviazione Klotzsche, costruito nel 1935 come aeroporto confacentesi a quella meta raffinata e situato su un altopiano a nord della città, più o meno a otto chilometri dal centro.

L’USAAF avrebbe dovuto sferrare un raid aereo su Dresda quel giorno, ma il blitz era stato rinviato a causa delle avverse condizioni meteo. In termini di coordinamento, gli obiettivi comuni erano ormai di routine; gli elenchi delle città e degli impianti industriali venivano concordati dal Combined Strategic Targets Committee. Era stato il generale Ira Eaker, un anno e mezzo prima, a illustrare a Churchill la teoria del bombardamento «round the clock» (ventiquattr’ore su ventiquattro), con gli americani che avrebbero puntato (in teoria) a obiettivi industriali di giorno, e i britannici che sarebbero piombati di notte. Eccezionalmente, in questo caso, la RAF sarebbe stata la prima ad attaccare. I tavoli di fronte ai piloti e ai loro equipaggi, nella sala briefing, erano coperti di mappe e gli aviatori le studiarono meticolosamente, molti fumando, con l’alone penetrante del tabacco che andava addensandosi nella stanza. L’avanzare dell’Armata Rossa – fu riferito a Tripp e a tutti i suoi commilitoni in quella sala – aveva scatenato il caos a Dresda, con parecchie migliaia di persone in fuga dai russi. Lo scopo non era dichiaratamente bombardare i civili, ma piuttosto creare un clima di panico. Ne sarebbe derivata una paralisi generale delle vie di comunicazione, strade e ferrovie, che avrebbe compromesso gli sforzi dell’esercito tedesco per montare una difesa efficace a est.

Tripp avrebbe in seguito confessato che quel briefing l’aveva irritato;32 il piano prevedeva palesemente di scatenare allarme tra gli sfollati e lui ricordava dal 1940 le dolorose immagini dei cinegiornali con i profughi delle campagne francesi che cercavano disperatamente di sfuggire all’invasione nazista delle loro terre, e l’aperto sadismo della Luftwaffe che piombava su quella gente indifesa scaricandole contro le mitragliatrici.

E così il puntatore aveva lasciato la sala briefing densa di fumo ed era uscito all’esterno, nell’aria pungente della sera. Il cielo, avrebbe ricordato, era «tappezzato di stelle». A quel punto, Tripp iniziò a pensare alla durata e alla distanza della missione e la sua angoscia si fece più chiara. Quella notte, 796 tra Lancaster e Mosquito avrebbero portato qualcosa come 5500 aviatori a bombardare Dresda, in due grandi ondate. L’aereo di Tripp doveva far parte della seconda ondata, che avrebbe colpito la città mentre ancora stava metabolizzando lo shock del primo attacco. Tripp fu raggiunto dai suoi compagni di equipaggio, che a quanto pare erano altrettanto in ansia. Il pilota australiano «Dig» aveva distribuito a tutti le consuete razioni di dolci per la missione: gomme da masticare, zucchero d’orzo e cioccolata. La cioccolata, fu fatto notare, era al latte: un lusso raro. Uno dei membri dell’equipaggio rinunciò nobilmente alla sua porzione di cioccolata, insistendo che la mettessero da parte per il fratellino più piccolo di un suo compagno, un bimbo che in quei giorni di severi razionamenti viveva per piaceri effimeri come quello.

Scampoli di generosità erano ancora evidenti in piccole scintille quotidiane che sprigionavano dall’intera popolazione civile di Dresda. Victor Klemperer, benché schiacciato dal terrore, sfinito e depresso per via di quella giornata passata a recapitare missive spaventose, ricordava come solo una settimana prima, quando la commessa di un negozio di alimentari si era mostrata restia a servirgli le razioni cui avrebbe avuto diritto, una donna in fila dietro di lui si fosse offerta di aiutarlo con i suoi bollini. Aveva visto la stella gialla; sapeva cosa stava facendo. Negli ultimi anni, inframezzata alla paura strisciante, all’esplosione imprevedibile della violenza delle istituzioni, Klemperer aveva sempre notato accenni di cortesia fugace ma significativa, come vicini e passanti che gli dicevano quanto ritenessero terribili le azioni compiute dalle autorità.33 E non era il solo a stupirsi di quel calore e quella solidarietà omertosi.

Nei pressi dell’ampio corso dell’Elba, con l’acqua alta gonfia delle nevi invernali disciolte, nella zona ovest della città era situato un enorme complesso di mattatoi. Nella parte in cui un tempo si tenevano i maiali all’interno di recinti in attesa che venissero macellati, e nelle celle frigorifere in cui se ne conservavano le carcasse, era rinchiuso un gruppo di prigionieri di guerra, con il dormitorio strettamente sorvegliato qualche metro sottoterra. Tra di loro c’era il futuro romanziere americano Kurt Vonnegut. Catturato alcune settimane prima, aveva visto i tratti più ferini dell’esercito tedesco: le sue guardie erano sadiche e fanatiche, sempre in cerca di un’occasione per conficcare calci di fucile nello stomaco, e spaccare teste.34 Eppure durante il giorno, quando i prigionieri venivano fatti marciare verso la fabbrica di sciroppo di malto, Vonnegut coglieva degli squarci di luce.

Lo sciroppo era ricavato dall’orzo, era denso e marrone. Vonnegut e i suoi compagni, che vivevano di brodaglie sempre più annacquate con minuscoli brandelli di carne, pane nero duro e un surrogato di caffè, quasi impazzivano per la tentazione rappresentata da quelle grasse tinozze: la promessa di un’appagante dolcezza. All’impianto lavoravano anche diverse donne del posto; Vonnegut aveva il ricordo lancinante di quando – non riuscendo più a resistere – aveva aspettato che le guardie distogliessero lo sguardo per immergere le dita nell’appiccicoso calore dello sciroppo proibito, e poi portarsele alle labbra. Mentre inghiottiva lo sciroppo, gli era caduto l’occhio su una delle operaie che lo aveva visto: invece di denunciarlo astiosamente, la donna aveva sorriso.

Vonnegut aveva la percezione di trovarsi in quella che la sua voce narrante Billy Pilgrim avrebbe un giorno descritto come «la città più bella del mondo»35 ma poté sempre vederne solo allettanti frammenti. Lo stesso valeva per l’umanità di coloro che lo circondavano. A parte le ore nella fabbrica di sciroppo, lui e i suoi compagni di prigionia restavano semplicemente chiusi a chiave nel bunker del mattatoio. Il turno iniziava presto e finiva il pomeriggio tardi; poi gli uomini venivano fatti marciare di nuovo al mattatoio per consumare un altro pasto di inadeguata brodaglia.

Altrove, le autorità non avevano perso nulla della loro implacabile sete di vendetta; nel quartier generale della polizia, non lontano dalla Frauenkirche, c’era un altro gruppo eterogeneo di prigionieri di guerra, tutti in arresto. Uno di loro era Victor Gregg, il giovane inglese condannato a morte giusto un paio di giorni prima per aver sabotato i macchinari di una fabbrica di sapone. Con l’esecuzione della sentenza in programma per l’indomani mattina, 14 febbraio, Gregg non aveva altra scelta che aspettare il proprio destino in mezzo a quella bolgia di condannati, in una stanza adibita a cella temporanea con il soffitto alto e una cupola di vetro, la sua latrina ridotta a due secchi buttati in un angolo. L’altro imputato, Harry, continuava a insistere spensierato che qualcosa sarebbe successo.36

E mentre sia lui sia gli altri uomini fissavano le pareti, a poche centinaia di metri di distanza i bambini del vicino quartiere residenziale di Johannstadt, con i suoi alti condomini, le piazze piccole e ordinate e la vicinanza al parco del Grande Giardino, continuavano a scorrazzare tutt’intorno nei loro costumi di Carnevale. Ursel Schumann indossava «abito e cappello da gentiluomo in miniatura».37 A madri e nonni evidentemente dava un qualche sollievo vedere che i bambini erano liberi da qualsiasi preoccupazione; e forse c’era anche l’ulteriore consolazione di vedere che l’antica tradizione che anche loro avevano condiviso persisteva persino in quei giorni di più assoluta disperazione.

Alle 18 circa, in Inghilterra, la prima ondata di equipaggi dei Lancaster era pronta a partire, in posizione nei campi d’aviazione del Lincolnshire e del Suffolk, nel buio dell’inverno, in attesa del segnale di via libera. Gli aviatori, all’interno delle tute riscaldate elettricamente, avevano un altro oggetto attentamente studiato: un pezzo di stoffa con l’Union Flag e cucite le parole «I am an Englishman» (sono un inglese) in caratteri cirillici.38 Nel caso venissero abbattuti, avevano bisogno di un modo per identificarsi all’istante con le truppe sovietiche dal momento che l’Armata Rossa, era risaputo, agiva con impulsiva violenza.

Quella notte Dresda non era l’unico obiettivo; ci sarebbero stati altri attacchi simulati altrove, blitz a Magdeburgo, Norimberga e Bonn. L’idea era seminare confusione nel centro di controllo della Luftwaffe, per privarla di un focus su cui concentrare la difesa. C’era anche un raid programmato a un impianto di idrogenazione situato a nord di Lipsia, non molto lontano da Dresda. Il blitz avrebbe coinvolto più di 350 aerei. In totale, la RAF quella notte stava per spedire in volo sulla Germania 1400 velivoli. Sarebbe stato il balletto aereo più straordinariamente coreografato di sempre: tempistiche meticolose, ordine perfetto. Altri uomini, come il pilota Leslie Hay, avevano partecipato a briefing altrettanto accurati circa la natura dell’obiettivo e le ragioni di esso. Dell’industria, avrebbe ricordato, s’era fatto poco o nessun cenno, benché nelle mappe dell’intelligence, con la loro legenda a colori, fossero contrassegnati i vari impianti di produzione che circondavano l’Altstadt. E di nuovo, c’era uno spiacevole richiamo ai profughi; e alla necessità di seminare la paura e il caos tra di loro, per le strade, in modo da mandare efficacemente in blocco il trasporto tedesco di materiali.

Quando i primi Lancaster si levarono in aria, poco dopo le 18, il cielo a est era nero. Gli aerei che volavano a sud dal Lincolnshire furono raggiunti, un’ottantina di chilometri a ovest di Londra, a Reading, da altre squadriglie; la coordinazione che ci voleva per tenere così tante centinaia di velivoli in formazione ordinata era straordinaria. I bombardieri, con gli equipaggi impegnati nei loro compiti di navigazione, di preparazione allo sganciamento delle «window» nei cieli notturni per confondere i radar del nemico, di difesa del velivolo con le mitragliatrici contro le incursioni dei caccia tedeschi, si avvicinarono alla Manica, che sotto le stelle brillava del più tenue chiarore, poi scesero lungo la costa della Francia prima di fissare la rotta per le varie missioni. Il volo per Dresda sarebbe durato all’incirca quattro ore e mezza.

A Dresda, invece, il sole era tramontato da tempo; il cielo invernale di inizio sera, chiazzato da sprazzi di nuvole, si accendeva di quando in quando di zaffiro. Sull’Elba calarono le tenebre; sopra, nell’ampio cielo della vallata, si materializzarono minuscole stelle. Gli uomini di mezz’età che avevano trascorso la giornata al lavoro in quelle che i loro figli piccoli credevano fabbriche di «forbici» e simili non erano ancora liberi di tornare a casa alla fine del turno; c’erano le riunioni obbligatorie del Volkssturm. Molti tra loro avrebbero semplicemente voluto una cena decente – spesso come desiderio si citavano le patate fritte – e una birra.

Per tutto il tempo, sotto il cielo che imbruniva, in città non si vedevano luci per via dell’oscuramento rigorosamente imposto. E così i profughi appena arrivati in treno, o sui carri, andavano incontro alla prospettiva di muoversi in una città estranea nell’oscurità più totale. Ormai, i bambini con i loro costumi da cowboy e da diavolo erano stati richiamati dalle loro madri; era ora di cena, ora di prepararsi per andare a letto. Ma i più grandi, nelle loro uniformi della Gioventù hitleriana, coi fazzoletti d’ordinanza legati a triangolo attorno al collo, erano invece in giro per le strade: non per abbaiare ordini o minacce, bensì per guidare i profughi alle sistemazioni temporanee per la notte negli edifici pubblici requisiti. Persino in quelle tenebre, l’organizzazione cittadina era impeccabile.