Il suono era di tipo industriale; un senso di urgenza ma anche di praticità. Al contrario delle sirene dei raid aerei in Inghilterra – il cui alto stridio aveva un che di vagamente ultraterreno, come il grido di una strega nel buio – le Fliegeralarme in Germania erano settate su un’ottava più bassa. Aumentavano e calavano di intensità come tutte le sirene, ma era più simile a un’allerta o a un segnale di fine turno che si sarebbe potuto sentire all’interno di una fabbrica: un suono a regola d’arte, come per dire che dovevano tutti muoversi ordinatamente, che non c’era ragione di panico. In tutta Dresda le sirene erano installate sui tetti e sui muri, e nel febbraio 1945 le loro note erano considerate da molti semplicemente un fastidio: notti e notti di falsi allarmi le avevano svuotate della loro iniziale efficacia. Alle 21.40 del 13 febbraio le sirene si riattivarono per l’ennesima volta, e mentre il loro ronzio si diffondeva e riecheggiava nelle strette stradine di alti caseggiati, e tagliava l’aria delle vie più grandi e le strade dei quartieri più abbienti, molti cittadini si erano ormai rassegnati a raggiungere i rifugi ancora una volta, perché c’era anche stato un aggiornamento alla radio: lo speaker aveva interrotto la programmazione per comunicare agli ascoltatori che era stata rilevata una squadriglia di aerei nemici in volo verso la città.
Il dottor Albert Fromme era ancora in compagnia della sua piccola cerchia di amici per festeggiare il compleanno di Frau Schrell. L’allarme urgente piombò senza preavviso.1 All’udire il roco lamento fuori dalla finestra, uno degli invitati accese la radio, per capire se ci fosse di che preoccuparsi. «Sentii subito che stava succedendo qualcosa di importante» avrebbe scritto in seguito il dottor Fromme.2 L’annuncio alla radio era che i bombardieri erano effettivamente in avvicinamento su Dresda. La festa si concluse in fretta e furia e lui e i vicini radunarono i loro «kit antiraid aereo» e li portarono al rifugio nel seminterrato.
Quella calma studiata era possibile per gli adulti, ma non per i bambini più piccoli. Georg Frank, che aveva passato la giornata con indosso il suo fiocco variopinto e il collare da clown, era a letto; il padre era tornato a casa dalla riunione del Volkssturm e la madre gli aveva riscaldato qualcosa da mangiare. Stava già ascoltando la radio, e così anche il ragazzino, mezzo sveglio per la confusione, quando venne fatto un annuncio molto più enfatico: «Attenzione! Attenzione! Bombardieri angloamericani in avvicinamento su Dresda! Recarsi immediatamente nei rifugi antiaerei!».3
E Herr Frank, in seguito, non avrebbe saputo dire se, da ragazzino, fosse ancora semiaddormentato quando la madre lo aveva trascinato via dal letto. Il ricordo aveva l’intensità di un incubo: «Era stato solo lo spavento per esser stato tirato giù dal letto a far scendere le lacrime?». E insieme a quello shock giunse il rumore delle sirene che alle orecchie del piccolo suonarono «spettrali». I genitori lo avvolsero in una coperta e, con lui in braccio alla madre, si precipitarono fuori dall’appartamento.4
Il rifugio era la cantina; il lungo corridoio in mattoni con le piccole celle che si dipartivano da esso. Mentre scendevano, il bambino era consapevole della «luce fioca della scala» e del buio totale fuori dalla finestra sulle scale. Il padre aveva portato giù qualche oggetto di famiglia e ora si spostarono tutti nella stanzetta a volta, con il tavolo spartano e le sedie fatte in casa, e il ragazzino guardò il padre che riponeva i loro piccoli tesori in un angolo. Le poche, semplici provviste che avevano portato con sé furono poggiate sul tavolo.
Appena due o tre isolati a sud della grande stazione centrale, su Schnorrstrasse, c’era l’appartamento dove Gisela Reichelt viveva insieme alla sorella e alla madre Frieda, che era incinta di otto mesi. Gisela avrebbe in seguito ricordato come le sirene dei raid aerei fossero semplicemente diventate una parte ormai accettata della vita a Dresda; non le associava con l’orrore, perché quegli allarmi notturni si erano tutti rivelati falsi. Pur avendo solo dieci anni, però, si rendeva conto di cosa la guerra avesse comportato per altri; sapeva dalla radio e dai giornali che i bombardieri alleati erano riusciti a distruggere altre città tedesche come Amburgo e Mannheim. Di fatto, prima del 1945, all’inizio della guerra, quando il Bomber Command aveva incessantemente attaccato città come Francoforte e Hannover, Dresda era stata un porto sicuro per moltissimi profughi che arrivavano non dall’Est ma dall’Ovest, da paesini, città e strade che erano state trasformate in cumuli di macerie fumanti. Ma, avrebbe in seguito ricordato la bambina, tra i cittadini di Dresda c’era come una sorta di blocco psicologico generalizzato. «Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che la nostra città diventasse vittima di un bombardamento crudele e insensato.»5
Gisela era a letto, ma non dormiva, quando le sirene iniziarono a suonare. «Afferrammo le valigie che avevamo sempre a portata di mano e scendemmo in cantina» avrebbe raccontato in un secondo momento. Era riuscita anche a prendere le sue bambole, Monika e Helga. Non appena lei e la madre raggiunsero la cantina, l’ansia piombò loro addosso tutto d’un colpo. Il padre di Gisela era un soldato; dov’era in quel momento? Il genere di preoccupazioni che anche normalmente terrebbero sveglio un bambino si amplificavano in misura esponenziale in quello spazio angusto. Ora non c’era nessuna ipotesi ottimistica che si trattasse di un falso allarme, perché Gisela vedeva benissimo che anche sua madre era dilaniata dall’ansia. Nella stessa cantina arrivarono vicini e ritardatari, e per tutto il tempo le sirene all’esterno continuarono a ululare.
Una cantina dall’odore assai caratteristico era quella in cui furono scortati il prigioniero di guerra americano Kurt Vonnegut e i suoi compagni; si trattava, per come l’avrebbe descritto lui, di un deposito della carne scavato al di sotto delle baracche riconvertite del mattatoio n. 5.6 Vi si accedeva per mezzo di una porta di ferro e scendendo una scala anch’essa di ferro. La stanza era molto grande e molto fredda; qua e là pezzi di carcasse animali – pecore, maiali, cavalli – pendevano dal soffitto appesi a dei ganci. C’erano poi molti altri ganci che pendevano inutilizzati. Lo spazio era intonacato e illuminato con le candele. In quel freddo febbraio, la refrigerazione elettrica non era stata giudicata necessaria per la carne; l’aria era già abbastanza gelida. Per le successive otto ore o giù di lì, sarebbe stato questo il limite fisico del mondo di Vonnegut, mentre al contrario la sua immaginazione veniva fomentata dai rumori che riecheggiavano dall’alto. Molte delle guardie che in genere sorvegliavano lui e i suoi compagni smontarono e tornarono alle vicine case. Il prigioniero di guerra americano sarebbe stato più al sicuro dei suoi carcerieri nazisti.
Al di là del fiume, al botteghino del circo Sarrasani si udirono le sirene e lo spettacolo sulla pista fu interrotto all’istante. Il presentatore e alcuni assistenti, informarono gli spettatori che tutto il riparo di cui avevano bisogno era appena in fondo alle scale. È probabile che tra il pubblico ci fossero alcuni soldati che gradirono l’idea di una visita obbligata al bar sotterraneo del circo. Senza trambusto né agitazione, dagli anziani ai giovani, fila dopo fila gli spettatori si alzarono e lentamente si avviarono alle uscite indicate dalle maschere. Gli animali del circo, nel frattempo, vennero condotti nei loro recinti speciali in un ampio cortile sul retro.
In una bella strada della zona est della città, Marielein Erler e il marito Georg avevano compreso benissimo il significato dell’annuncio alla radio: quella terminologia, dai «bombardieri in avvicinamento» al richiamo di tutte le necessarie precauzioni, era la stessa utilizzata nei corsi di addestramento alla protezione antiaerea seguiti da Herr Erler: voleva dire che quella era un’emergenza grave. Eppure, gli Erler sentivano di essere adeguatamente preparati. La casa in cui abitavano aveva una cantina, e lì li raggiunsero anche gli altri inquilini. Avevano preparato in bella vista non due ma sei valigie: tutti gli indumenti che erano riusciti a prendere.
In cantina, avrebbe ricordato Marielein, c’era anche «uno scatolone con le porcellane migliori, le Meissner più raffinate».7 C’era anche un po’ di cristalleria. Non sarebbe giusto interpretarlo come illogico materialismo; piuttosto, era chiaro che questi e altri oggetti erano carichi di ricordi. Il piacere che gli Erler traevano da quei tesori non nasceva dall’avidità, era qualcosa di tenue e delicato. E c’era anche una sorta di incantato ottimismo nell’idea che oggetti del genere sarebbero stati al sicuro anche nel profondo di una cantina durante un bombardamento. Ma Marielein voleva anche dare conforto ad altri. Tra i vicini che si erano raccolti nello scantinato c’era una famigliola, con due bambini piccolissimi: una bimba di nome Elizabeth e il fratellino minore. Mentre si sistemavano alla luce fioca in mezzo ai mattoni ammuffiti, Marielein cercò di calmare i bambini. La piccola, notò, stava tremando, così la cinse con un braccio.8
Alcuni scantinati erano più comodi di altri. Helmut Voigt, insieme alla madre e al cugino più grande, Roland, dovette lasciare il condominio a sud della stazione ferroviaria e farsi strada fino all’ingresso di un seminterrato a uso industriale collocato al di sotto di un birrificio locale (un concorrente del Felsenkeller, che era poco distante). Il rifugio moderno – scale in cemento, lampadine elettriche e pareti chiare – era diverse rampe sottoterra. In base alle stime di Voigt ci sarebbero comodamente state all’incirca un centinaio di persone.9 Ma all’ululare delle sirene, quella notte, il ragazzo notò con un certo disagio che stava accadendo qualcosa di nuovo: la cantina si andava riempiendo non solo di vicini a lui noti ma anche di una fila ininterrotta di estranei di cui si udivano rimbombare i passi mentre scendevano le scale di cemento.
«Arrivò parecchia gente che non c’era mai stata prima» avrebbe ricordato Helmut. «Alcuni erano i passeggeri di un tram della linea 6»10 e altri erano profughi; insomma, persone che si erano trovate per strada e tutt’a un tratto si erano rese conto del pericolo, così avevano seguito una coda di altri cittadini diretti al rifugio. A ogni nuovo arrivato che scendeva dalle scale, si avvertiva un senso palpabile di spostamento. Nello scantinato, di solito abbastanza spazioso, non c’erano più posti a sedere liberi; ogni persona nuova che entrava ora doveva stare in piedi. C’erano anche un’anticamera e un breve corridoio, ma pure lì la situazione si stava facendo critica.
I cittadini che in tutta Dresda trovarono riparo – migliaia di persone, che si spostavano il più ordinatamente possibile – non avevano idea di quanto tempo avrebbero avuto prima dell’inizio del raid. Le sirene e gli annunci alla radio parlavano di «imminenza», ma cosa voleva dire? Pochi secondi? Un’ora? Ci furono moltissimi che tentarono, al di sopra dei clacson incessanti, di distinguere il rombo degli aerei in avvicinamento. Di fatto, nel cuore dell’Altstad c’era ancora parecchia gente fuori, per le strade e nei vicoli stretti, che ignorava gli strepiti dei poliziotti in servizio e fissava il cielo.
Tra questi c’era il soldato che così di recente si era ripreso, tra le nevi dell’Est, dalle ferite. Lothar Rolf Luhm si era separato dal suo commilitone addentrandosi tra le vie barocche che serpeggiavano attorno al castello e alla cattedrale cattolica. Si ritrovò nella piazza fuori dalla cattedrale, che dava sul ponte di Augusto. C’erano sbandati che correvano in tutte le direzioni. Senza rendersi minimamente conto della futilità della domanda, Luhm – uno straniero in quella città – afferrò velocemente un passante per chiedergli dove fosse.
I passi sul selciato, il lamento a onde incessanti che riecheggiava dai muri di spessa pietra. Luhm vide la gente affrettarsi in direzione di un’imponente struttura situata al di là del castello: un palazzo del XVIII secolo che sembrava un castello. Il soldato si mise a correre, seguì quelle figure e si trovò diretto verso una scala.11 Oltre al nudo cemento e alle luci fioche alle pareti, c’era un altro elemento caratteristico di questo rifugio: delle pesanti porte d’acciaio. Un ulteriore aspetto catturò immediatamente l’occhio di Luhm: la folta presenza di quelli che egli definì «fagiani dorati». Così venivano chiamati in gergo gli alti funzionari del Partito nazista: a ispirare quella definizione erano i colori delle loro uniformi (marrone e rosso, e i galloni dorati).
Luhm si trovava adesso nei sotterranei di palazzo Taschenberg, a lungo centro burocratico della Wehrmacht. Il palazzo era stato costruito da Augusto il Forte come dimora per la sua amante, la contessa di Cosel. Il soldato si ritrovò allora in mezzo a una calca eterogenea e brulicante, in cui spiccavano una serie di «borghesi ben pasciuti» e alcuni poliziotti in comunicazione radio con altri agenti altrove.12 Era vicino al cuore delle istituzioni cittadine naziste e, a quanto venne fuori, anche il suo amico Günther era sceso là sotto. Erano, avrebbe ricordato Luhm, gli unici soldati in mezzo a tutto quel personale civile; e nessuno parve chiedersi il perché della loro presenza.
Quel piccolo mondo sotterraneo era lontanissimo dalle vie lastricate che lo sovrastavano; a parte il lamento incessante delle sirene dalla voce gutturale, in superficie la strada, che svoltava verso l’ingresso riccamente ornato dello Zwingergarten per poi portare, pochi metri più avanti, alla sgargiante struttura classica del teatro d’opera Semper, era ormai tranquilla. Da qui, passata la cattedrale cattolica e su per i gradini che portavano alla passerella sulla Terrazza di Brühl, con il suo lastricato di pietra e le sue balaustre, gli ultimi ritardatari si stavano dirigendo a scantinati meno sicuri. Lungo la terrazza svettavano le eleganti facciate dell’Accademia di belle arti e dell’Albertinum; quest’ultimo, sede delle autorità e dei servizi civili, aveva un suo ampio sotterraneo, che si andava riempiendo dal lato strada di un mix di funzionari pubblici e cittadini che l’allarme aveva colto a una certa distanza dai consueti rifugi.
E giusto pochi metri più avanti, c’era la Judenhausen. Dopo una straziante giornata passata a recapitare avvisi di deportazione a concittadini ebrei, Victor Klemperer stava bevendo il caffè con sua moglie quando suonarono le sirene. Una vicina, Frau Struhler, esclamò amareggiata che sperava che i bombardieri arrivassero e fracassassero ogni cosa.13 Era l’unica via di scampo che riusciva a immaginare. Klemperer non parve per nulla colpito da quell’amaro nichilismo.
Per gli ebrei c’era uno scantinato a parte: a loro non era concesso cercare rifugio tra gli ariani. Al pari di molte altre cantine in quella zona dell’Altstadt, si trattava di uno spazio in muratura fatiscente e non del tutto sottoterra: c’era infatti una finestra all’altezza del marciapiede. Come nelle altre cantine delle strade limitrofe, anche qui c’erano alcuni servizi rudimentali: sedie, catini d’acqua, coperte. Klemperer, sua moglie e tutti gli altri che abitavano nella vecchia struttura di legno scesero le scale. In posti e in circostanze del genere, c’era ben poco che si potesse fare a parte sedersi in silenzio.
Poche centinaia di metri più a sud, i ragazzi del coro della Kreuzschule erano stati condotti nei sotterranei del plesso scolastico principale. Sotto il cielo di quella notte di febbraio, il profilo della neogotica Kreuzschule, con le sue nette linee verticali e triangolari, sembrava un po’ quello di un enorme organo. I ragazzi che si andavano radunando sotto quella struttura erano, al contrario degli abitanti della Judenhaus, tra le anime più care di Dresda: il loro spiccato talento per la musica si librava alto al di là dello squallore quotidiano della guerra. In tempi normali, la loro era una vita sublimata, eppure adesso non si trovavano in una posizione più privilegiata di quella dei loro vicini ebrei. Con loro nei sotterranei c’era il maestro del coro, Rudolf Mauersberger, di certo pienamente consapevole della minacciosa dissonanza nelle sirene cittadine. Da compositore, era profondamente sensibile alla musica della vita quotidiana. Poche settimane prima, il suo coro aveva eseguito alcuni brani da lui scritti ispirandosi alle leggende popolari e alle melodie della Sassonia, delicati intrecci di storia rurale e cristianesimo.14 Tali composizioni erano un deciso contrappunto non solo alla guerra ma anche al carattere marziale del regime nazista; parlavano di un’eredità di Dresda, radicata in un mondo più spiritualmente edificante. In quei minuti di silenzio e di attesa, Mauersberger stava assorbendo tonalità e ritmo delle sirene di allarme. La musica della guerra gli faceva male; un dolore che era deciso a condannare e a condividere.
Persino nell’insondabile caos di un allarme antiaereo, i ragazzi della Kreuzschule avevano una struttura alle spalle, un’istituzione che era lì per badare a loro. Ma meno di un chilometro a sud, alla grande stazione centrale di Dresda, la situazione era ben più frastornante; un’enorme folla veniva sospinta giù per le scale nei sotterranei situati al di sotto delle banchine, nel tumulto di voci e passi che riecheggiavano sulla pietra. Era tutto una calca, tutto un azzuffarsi; anziani, bambini piccoli, smarriti e senza meta, si spostavano dove indicavano gli impiegati della stazione e la polizia ferroviaria. L’incertezza, qui, era forse ancora maggiore. Con l’aria piena delle sirene, quei profughi non avevano la percezione di quanto tempo avessero per trovarsi un posto sicuro tra tutti quei corridoi e quei tunnel, e nemmeno di dove fossero le uscite.
Günter Berger faceva parte del personale della stazione, insieme al collega Georg Thiel. La calca era ancora più fitta che nei giorni e nelle sere precedenti poiché, nelle ultime ore, una quantità mai vista di locomotive a vapore si erano fermate in prossimità delle banchine. «In aggiunta al normale traffico in programma per la giornata, c’erano molti convogli speciali che arrivavano dall’Est» avrebbe ricordato Berger. «C’erano conducenti e passeggeri che avevano coperto immense distanze in giornata; e le carrozze dei treni erano gremite di profughi.»15
L’ululato incessante delle sirene e l’urgenza degli annunci alla radio implicavano che Berger e colleghi dovessero agire con l’efficienza di una mente sola, se volevano mettere al riparo tutte quelle persone; non c’era tempo, questo era chiaro, di pensare a delle alternative. «Quel che temevamo adesso era arrivato» avrebbe raccontato Berger. «Col cuore pesante, dovevamo agire in fretta e con cura.»16 Sapeva che il suo compito principale era restare entro il perimetro della stazione, e in quei terribili minuti lui e Thiel accolsero un treno che era appena arrivato. Con cautela, per non scatenare il panico, fecero scendere i profughi terrorizzati il più velocemente possibile, dando loro istruzioni di lasciare i bagagli nelle carrozze e infilare le scale più in fretta che potevano.
«Si era accumulata una massa consistente di persone» avrebbe raccontato Berger,17 tuttavia i nuovi arrivati mantennero la calma e obbedirono all’ordine. Alcuni corridoi al di sotto delle banchine formavano una croce; Berger e colleghi smistavano alacremente i singoli individui lungo i suoi bracci. Alcune giovani aiutanti appartenevano alla Lega delle ragazze tedesche, cui era stata data istruzione di occuparsi di eventuali soldati feriti in arrivo col treno, ma molti erano troppo gravi perché li si potesse spostare agevolmente dai corridoi sotterranei della stazione.
A bordo di un altro treno che in quei minuti si stava avvicinando alla città c’era il prozio di Margot Hille. «Zio Hermann», così lo chiamava Margot, era uno degli sfollati in fuga dalla città di Głogów, nella bassa Slesia. Quel posto tranquillo e grazioso era stato trasformato in una roccaforte della Wehrmacht, un confine che i nazisti erano determinati a non lasciar oltrepassare dall’Armata Rossa. Le truppe sovietiche avevano risposto con una spaventosa carneficina, devastando il centro cittadino pietra dopo pietra. Il treno dello zio Hermann aveva viaggiato per le campagne per buona parte della giornata, e quando mancavano pochi minuti alle ventidue si stava avvicinando al centro oscurato di Dresda e alla sua grande stazione con le tettoie di vetro.
Anche un po’ più a nord, dove i binari curvavano attraversando l’Elba e la più modesta stazione della Neustadt, c’erano folle brulicanti di profughi in attesa di indicazioni. Winfried Bielss e il suo amico Horst erano a poche strade di distanza in servizio come Gioventù hitleriana, avevano accompagnato un’altra famiglia di profughi in una sistemazione temporanea all’interno di una scuola requisita. All’avvio delle sirene erano per strada, a una certa distanza dalle proprie case. Dovevano decidere al più presto cosa fare.
Tra le eleganti dimore del XIX secolo e i caseggiati sulla Katharinenstrasse, trovarono accesso a un rifugio. Era poco più di una semplice cantina, e spiacevolmente quanto comprensibilmente gremito. Ai ragazzi fu detto che non potevano restare; per loro non c’era spazio, dovevano trovare qualche altro posto. Pochi secondi dopo, Winfried e Horst erano di nuovo per strada, con le sirene che riecheggiavano tutt’intorno.
Non sapevano che fare. Dovevano tornare alla stazione della Neustadt? Bielss era restio; non c’era spazio neanche lì. Horst suggerì di fare una corsa e attraversare il ponte e le strade dell’Altstadt per raggiungere la casa della sua famiglia nei pressi della Kreuzkirche, ma era a più di un chilometro e mezzo di distanza e Bielss non pensava avessero abbastanza tempo.
Mentre i due ragazzi discutevano sotto il cielo nero, si avvicinarono due poliziotti di corsa e li portarono a un altro scantinato qualche porta più avanti. Era troppo pericoloso per loro restare fuori all’aperto, disse uno degli agenti.18 Ma per un che di strano e curioso Bielss tornò indietro. Sentiva un’inesorabile attrazione verso casa sua, a prescindere dal tempo o dal pericolo. Anche quella distava un chilometro e mezzo, ma sulla stessa sponda del fiume, passata la Neustadt.
Bielss convinse anche Horst ad andarsene e i due sgusciarono fuori dallo scantinato superando i poliziotti che stavano tentando di mantenere l’ordine tra i molti altri occupanti. I ragazzi camminavano spediti lungo strade secondarie deserte, con le ampie ville e i caseggiati terrazzati vuoti, nell’oscurità più totale e l’unico suono udibile era l’incessante aumentare e calare delle sirene. Li fermarono altri poliziotti e Bielss freddamente li rassicurò che viveva ad appena una strada di distanza ed era quasi a casa. Non era vero, ovviamente, ma i poliziotti si accontentarono della risposta e si affrettarono al loro rifugio. «Volevo solo andare a casa passando per quei quartieri silenziosi» avrebbe in seguito ricordato Bielss.19 Forse perché tutte le strade erano vuote, stranamente al ragazzo sarebbe rimasto il ricordo di un’atmosfera di calma; per quanto orientarsi fosse più difficile del solito perché in assenza di qualsiasi illuminazione stradale la città davanti a lui era nera come la pece.
Stavano adesso attraversando un piccolo parco, più buio ancora della strada, ed erano da soli. Si trovavano sull’Alaunstrasse, a metà del leggero pendio che porta a nord dell’Elba, e da quel punto riuscivano a vedere le guglie sagomate dell’Altstadt e le nubi che c’erano sopra. Fu allora che si accorsero del ronzio. «Divenne udibile il suono dei motori degli aerei» avrebbe ricordato Bielss. Ma né lui né Horst erano in ansia; in realtà, quella nota profonda li spinse invece a fare congetture sulle difese aeree della città. Entrambi pensarono che fossero i caccia che decollavano dall’aerodromo di Klotzsche, che si trovava all’incirca 6 chilometri a nord.
La fiducia dei ragazzi nelle difese della città era mal riposta. Una dozzina all’incirca di caccia Messerschmitt erano stati fatti decollare in ritardo, ma si erano appena sollevati in aria che i bombardieri già iniziavano ad avanzare lungo l’Elba. C’era un senso di spossatezza e rassegnazione in quella risposta simbolica, come se la Luftwaffe stesse tragicamente sottovalutando la portata del raid imminente o semplicemente lo stesse accettando come un evento di una forza cui non era possibile opporsi. Oppure, era anche possibile, la squadriglia aveva avuto ordine di conservare il carburante per le più spaventose battaglie a venire con i sovietici invasori. L’impotenza di quel contingente, che si limitava a compiere cerchi tutt’intorno, sarebbe stata chiara pochi minuti più tardi; un Messerschmitt, visibile da terra in mezzo alla foschia dei primi razzi d’un verde e argento brillanti, precipitò dall’alto.
Questo era quello che i due ragazzi là sotto, affrettandosi per le strade, avrebbero visto. Quando Winfried e Horst raggiunsero la via più larga, la Jägerstrasse, il rombo si intensificò, la nota profonda riecheggiò con più potenza, e quasi senza rendersene conto i due si ritrovarono ad accelerare ancor più il passo. Era qualcosa che suonava come una minaccia diretta; un suono che aveva un carattere quasi primordiale. I ragazzi svoltarono su Zittauer Strasse, che era un po’ più vicina al fiume, e fu a quel punto che iniziarono a percepire quel che stava arrivando: l’idea di moltissimi bombardieri, a centinaia di metri di altitudine, quasi invisibili al buio ma il cui rombo sempre più fragoroso trasmetteva adesso la chiara sensazione di un’implacabile aggressione incombente. I ragazzi guardarono l’orizzonte e videro due palle di un rosso brillante precipitare dal cielo sull’Ostragehege, lo stadio di Dresda. Dopo l’illuminazione dei razzi verde e argento, quelle stelle cadenti rosse erano tra i più ipnotici degli «alberi di Natale», come li si chiamava: erano gli indicatori di bersaglio, abbaglianti nelle tenebre dell’oscuramento, sganciati dai Mosquito di piombo per fornire un punto di mira ai bombardieri che li seguivano subito dietro.
«Allora iniziammo a correre» avrebbe ricordato Bielss.20 Ormai i due ragazzi erano sulla strada principale, la Jägerstrasse, e vicini a casa di Bielss. Erano insieme ipnotizzati e inorriditi dal modo in cui il cielo e la città sembravano lentamente illuminarsi. Dalle nuvole nere e dal buio piovevano adesso alberi di Natale a non finire; i razzi di segnalazione venivano sparsi ovunque, dall’Altstadt al Johannstadt. Bielss avrebbe ricordato di aver visto altri bagliori di colori diversi, azzurro brillante, verde intenso e persino un arancione sgargiante, che aveva tinto le nuvole sopra di lui di un giallo malato. Avrebbe potuto essere allettante da quella prospettiva, sul dolce pendio dell’altra sponda del fiume, fermarsi a guardare, almeno per qualche secondo. Ma i ragazzi capirono, forse in virtù della cacofonia dei bombardieri in avvicinamento, che dovevano correre per mettersi al sicuro.
Quel macabro senso di stupore alla vista delle luci lo lasciarono ad altri, che si trovavano proprio all’interno dell’Altstadt. C’erano all’incirca trecento persone, nel cuore della città vecchia, che avevano puntato sulla cripta della Frauenkirche per trovare rifugio, precipitandosi attraverso la buia piazza in acciottolato all’ingresso situato sul lato della chiesa. Mentre scendevano gli stretti scalini di pietra e si trovavano un posto a sedere tra le lapidi sotterranee, la chiesa sopra di loro era vuota. Nel buio, nella navata centrale, era ancora possibile scorgere il bagliore d’oro della pala d’altare. L’interno della cupola, dipinta con insolite tonalità di rosa e azzurro pallido, aveva sempre una sua particolare delicatezza nelle notti in cui i raggi della luna filtravano dalle finestre trasparenti. Ora, invece, le stelle cadenti di un rosso intenso proiettavano da fuori la loro orrenda livida luce e le loro tinte feroci sui volti dipinti dei santi.