XVI

GLI OCCHI CHE BRUCIANO

In quanti erano rimasti illesi e salvi, a parte il cuore che batteva all’impazzata, la curiosità era venata di paura e incertezza: che aspetto aveva, adesso, il mondo là fuori? E poi c’era l’ansia: per i familiari che si trovavano altrove, per gli amici, per le case, per i propri averi e i ricordi preziosi. Qualcosa dei loro beni materiali era sopravvissuto all’assalto?

Nella zona sud della città, Gisela Reichelt si stava preparando a uscire dal rifugio insieme agli adulti. «Ora, dopo quello che ci era parso un tempo infinito, la porta del seminterrato era stata aperta» avrebbe ricordato. «Nessuno riusciva a immaginare cosa aspettarsi! La città bruciava a vista d’occhio e faceva così caldo da averne a stento un’idea.»1 La strada in cui viveva, Schnorrstrasse, era vicina alla stazione; e al di là di quella, sotto il mix della bassa coltre di nubi e della sempre più ampia distesa di fumo, il cielo aveva un’insolita sfumatura color ambra, per il riflesso di tutte le fiamme sottostanti. La ragazzina e sua madre si incamminarono lentamente lungo la strada, fino a trovarsi di fronte il condominio in cui abitavano. Era stato sventrato. E fu a quel punto che giunse l’orrore. Casa loro era stata colpita in pieno. A sottolineare l’implosione della loro vita di tutti i giorni, madre e figlia si resero a poco a poco conto che il ciarpame che giaceva lì attorno, per strada, era in realtà tutto ciò che restava dei loro averi, le macerie schizzate via dall’appartamento. Tutti i loro beni erano sparsi nei canali di scolo. «Non riuscimmo a piangere» avrebbe raccontato Frau Reichelt. «Eravamo solo grate.»2 Le due pensarono subito a zia Trudel, che viveva in un altro quartiere. Stava bene? In che modo – al termine di quella notte di incendi e in mezzo a quel caos di persone – avrebbero potuto mettersi in contatto con lei?

Mentre loro, come moltissimi altri, erano dilaniate da un’angoscia impotente per i propri cari, le autorità cittadine – pur continuando a mancare all’appello il Gauleiter – stavano già organizzando la propria risposta a quell’emergenza con tempestività e coordinazione straordinarie. Autopompe e vigili del fuoco, molti dei quali giunti negli ultimi minuti dai sobborghi intorno a Dresda, si muovevano convulsamente tra le macerie roventi – pietra, selciato, cemento, linee dei tram abbattute, tubature saltate – per arrivare il più vicino possibile ai roghi nell’Altstadt. Il serbatoio nell’Altmarkt era stato costruito proprio in vista di un’eventualità del genere, per avere un’abbondante riserva d’acqua con cui spegnere gli incendi. Eppure, malgrado lo zelo, le squadre di vigili del fuoco si trovarono a fronteggiare una situazione già ostica: fiamme sempre più alte che si estendevano su un’area enorme, dal fiume fino alla stazione centrale a più di un chilometro e mezzo di distanza. Un orizzonte di fuoco.

Poco più a sudovest, Margot Hille e la madre erano uscite dal seminterrato. Il sobborgo in cui vivevano, pur non trovandosi direttamente sotto la prima ondata di bombardieri, era stato comunque colpito da alcuni scoppi e ordigni incendiari vaganti e Margot, che faceva parte della Lega delle ragazze tedesche, era ansiosa di fare il proprio dovere. Decise di raggiungere il centro città per offrire un primo soccorso a chiunque ne avesse avuto bisogno.3 Alla madre, che scrutava il cielo livido e coglieva il rumore cupo in lontananza, quell’idea faceva paura. In ogni caso, dovevano prima controllare che casa loro fosse ancora intatta.

L’appartamento di Frau Hille era al terzo piano del caseggiato. Le due donne adottarono delle precauzioni: nei loro kit d’emergenza avevano degli occhialini per proteggersi gli occhi dalle fiamme o dalla caduta di detriti. Mentre salivano le scale, a prima vista – malgrado gli incendi nei caseggiati limitrofi, e malgrado un rogo più vasto in una fabbrica tessile lì vicino – sembrava tutto relativamente a posto. Sul pianerottolo del terzo piano c’era un «grosso lucernario a forma di mezzaluna» e Margot Hille fece per aprirlo.4 Anche a distanza, il ripercuotersi delle esplosioni aveva fatto danni. Il telaio si era allentato per le scosse e così scivolò insieme al vetro verso l’interno, colpendo violentemente la ragazza alla testa, con la finestra che si frantumava ai suoi piedi. «Grazie al cielo portavo gli occhiali» avrebbe ricordato la ragazza.

Dopo qualche istante per riprendersi, e dopo aver appurato che a parte quello l’abitazione sembrava pressoché intatta, la giovane era ancora più decisa a recarsi nell’Altstadt per svolgere il suo dovere di cittadina. Ma la madre la trattenne, dicendole che molto probabilmente la caduta del finestrone le aveva provocato una commozione cerebrale, e che se fosse andata sarebbe stata altrettanto in pericolo di quelli che cercava di aiutare. «Fu così che mi salvò la vita» avrebbe raccontato Margot.5

Senza saperlo, la donna aveva anche risparmiato a sua figlia il trauma di vedere lesioni e ferite mortali che andavano ben oltre la sua immaginazione. I pompieri che cercavano di farsi strada tra le viuzze strette dell’Altstadt, per gli alti vicoli incorniciati dalle vampe incandescenti che fuoriuscivano dai vani delle finestre rotte, via via che procedevano si imbattevano di continuo in cadaveri, corpi di persone – questo si poteva solo supporre – impazzite per la claustrofobia e il calore sempre più intenso degli angusti scantinati di mattoni, cui era venuta l’idea fatale che si sarebbero sentite meglio all’aperto. Molti, semplicemente, giacevano sui marciapiedi, come se dormissero, come se l’unica cosa capitata loro fosse stata l’arrendersi a una pacifica stanchezza. E tutt’intorno, il caldo che pulsava a contrasto con l’aria fredda della notte e i differenti odori del fumo prodotto da varie fonti – legno, stoffa, catrame, vernice – saturavano i vicoli dietro le piazze.

Nei pressi del castello, anch’esso in fiamme perché era stato colpito, c’era il palazzo Taschenberg; nel suo rifugio ben congegnato, Lothar Rolf Luhm e Günther Tschernik si resero ora conto, dai «fagiani dorati», che ci si aspettava facessero il loro dovere all’esterno. Anche i funzionari nazisti erano pronti ad agire: la prima cosa da fare era accertarsi che il palazzo in sé non stesse bruciando. Luhm e i suoi nuovi compagni vigili del fuoco lasciarono la cantina, salirono le scale dell’edificio, aprirono una botola e si fecero strada su una sezione piana del tetto. Spensero diversi piccoli roghi prodotti da ordigni incendiari alla termite, che tutti i presenti scambiarono erroneamente per spezzoni al fosforo,6 ma riuscivano a sentire il fumo denso che continuava a espandersi e, sul retro dell’edificio, guardando giù all’acciottolato della strada sottostante, di fronte a palazzo Zwinger, rimasero scioccati non solo alla vista delle pietre che fumavano, ma anche a quella delle autopompe abbandonate e dei cadaveri dei loro compagni di squadra. Luhm era stato in Normandia nel luglio 1944; ora, su quel tetto, si ritrovò a ripensare a quel bombardamento, e a come in fondo «non fosse stato poi così male» rispetto alla vista che aveva davanti adesso.7

Le fiamme erano fonte di stupore per il giovane profugo Norbert Bürgel e suo zio, che avevano assistito al primo raid da sotto un ponte. Zio Günther, forse per il trauma, sembrava attanagliato da un demone; pensava che, se fossero riusciti a raggiungere la stazione, forse si sarebbe ristabilita la normalità e magari avrebbero potuto tornare a casa (Günther abitava poco fuori Dresda) in treno. Un’occhiata al cielo gli avrebbe lasciato intendere il contrario, ma mentre l’uomo di mezz’età e il ragazzino camminavano in direzione del centro che ardeva incandescente furono colti da un senso di stupore. Davanti ai loro occhi c’era l’ex fabbrica di sigarette, riconvertita alla produzione di munizioni, costruita all’inizio del secolo originariamente con l’intento bizzarro di farla assomigliare a una gigantesca moschea; contro il cielo nero della notte, le fiamme che ne fuoriuscivano erano abbaglianti. Camminarono sotto la ferrovia principale che attraversava il fiume e portava a palazzo Taschenberg, palazzo Zwinger, la cattedrale cattolica e il castello. In tutti c’erano roghi che bruciavano. Il ragazzino e lo zio, pur consapevoli dei pericoli, sembravano non riuscire ad arrestare la propria marcia, come attirati da una forza ipnotica. Sul retro di palazzo Taschenberg c’erano alcuni piccoli cortili, e poi Wilsdruffer Strasse, dove si trovavano alcuni dei negozi più eleganti della città. L’intera strada era ora inondata di una luce guizzante; su ambo i lati dell’ampio viale, le fiamme schizzavano e saettavano dalle finestre in pezzi dei palazzi anneriti dal fumo. I due girarono a destra, verso sud, in direzione di Prager Strasse e, da lì, della stazione centrale. Dalle traverse, avrebbe ricordato Bürgel, erano riusciti a vedere l’Altmarkt in fiamme.8 Con cautela si fecero strada per più e più vie di alti edifici fumanti, ma si accorsero che era praticamente impossibile arrivare alla stazione. Le fiamme che eruttavano da dietro le finestre sopra di loro e i tetti che divampavano, per non parlare del fumo sempre più fitto e del calore sempre più intenso, li costrinsero a cambiare rotta, così i due tornarono a puntare verso nord, procedendo lentamente in direzione dell’Elba.

Alle 23 circa, una trentina di minuti dopo il passaggio dei bombardieri, c’erano minuscoli angoli dell’Altstadt – angoli al momento ancora non toccati dal fuoco – in cui si erano radunate alcune persone, sbigottite e senza parole. Zio e nipote arrivarono a un piccolo bar, rimasto relativamente indenne, che era collegato al birrificio Würzburger. All’interno c’erano parecchie persone e zio Günther decise che era d’obbligo rinfrancarsi un po’ prima di continuare quella loro eccezionale odissea. Ordinò mezzo litro di birra. «I bombardati si erano già messi comodi» avrebbe osservato Bürgel.9 Il sollievo sarebbe stato breve.

In un altro bar, distante qualche centinaio di metri, gli avventori avevano reagito al cessato allarme con una certa cautela. Lo shock subito da Otto Griebel e dai suoi amici musicisti quando nella cantina la lampadina si era spenta all’improvviso era stato controbilanciato da un istante di equivalente sollievo quando, poco dopo, la luce aveva ricominciato, benché incerta, a splendere. All’udire il flebile ululato del cessato allarme, il gruppo aveva lasciato con circospezione la cantina risalendo le scale del locale e aveva scoperto che, per quanto gli edifici tutt’intorno stessero bruciando, o fossero avvolti dal fumo o dalle fiamme, il loro palazzo era per puro caso pressoché integro, ad eccezione di una finestra rotta. Già solo questo invitava a bere ancora: un cicchetto per essere sopravvissuti. La proprietaria tirò fuori una fiaschetta di grappa e un po’ di bicchieri.

Le strade intorno erano cariche della dissonanza di silenzio e improvvisi stridii, provocati dal crollo di pietre e mattoni. In quella bizzarra atmosfera, arrivò la moglie di uno dei musicisti che erano lì a bere, ed entrò dalla porta d’ingresso ancora intatta con indosso un elmetto da addetto alla protezione antiaerea. Con le lacrime che le rigavano il viso, disse al marito che avevano perso tutto.

Per gli altri, quell’alcol così forte era un toccasana, ma Otto Griebel era ora estremamente ansioso di tornare all’alloggio della sua famiglia, nella zona sudest di Dresda. Non aveva alcun modo di sapere se la moglie e i figli avessero superato indenni l’attacco, o se il blitz si fosse concentrato sul centro città. Quasi alle 23 si scusò assai scosso con la titolare e i suoi amici e si avventurò fuori, in un mondo ormai cambiato.

L’aria pesante e arroventata si stava facendo difficile da respirare; Griebel osservò i vigili del fuoco tutt’intorno che puntavano i loro getti al cielo verso le finestre in alto. Per via degli incendi, il centro si era trasformato in un labirinto pieno di vicoli ciechi di mattoni e legna in fiamme. L’artista puntò invece verso l’Elba, forse pensando di riuscire ad aggirare il grosso dei danni e a tornare indietro passando per strade che non erano state bersagliate. Mentre raggiungeva il fiume, con la vista dei roghi che ruggivano all’interno degli edifici comunali sulla sponda più lontana, lo sguardo di Griebel catturò lo strano spettacolo del Carolabrücke: attorno alla struttura, prima dell’attraversamento sul fiume, si sprigionavano spettrali fiamme azzurre.10 Gli ci volle un po’ per capire che ciò dipendeva dal fatto che da qualche parte erano state colpite le condutture del gas. Griebel continuò a fissarle; poi svoltò verso est.

Sull’altro lato del ponte, pubblico e personale del circo Sarrasani stavano riemergendo dai sotterranei della pista, e lo staff stava verificando ansiosamente la presenza di eventuali roghi. C’erano piccoli focolai nella paglia vicino alle stalle e altre parti della struttura permanente erano state colpite, ma l’edificio era integro. Malgrado ciò, l’impresaria Trude Stosch era in preda all’angoscia; l’istinto, comune a moltissimi altri cittadini di Dresda nella Neustadt, le diceva che avrebbero dovuto radunarsi tutti sui prati adiacenti al corso dell’Elba. In particolare, voleva che i cavalli da esibizione, i loro addetti e i cavalieri uscissero all’aperto (le tigri del circo ovviamente dovevano restare nelle loro gabbie sul retro dell’edificio). Illuminati dalle vicine fiamme del Palazzo Giapponese distrutto, gli eleganti destrieri furono condotti per strada, e da lì al lieve pendio erboso che scendeva al fiume, dove si mossero in mezzo all’enorme mole di profughi terrorizzati; in quel punto, tutti avevano di fronte il fiammeggiante spettacolo dell’Altstadt, con il bagliore che si rifletteva nelle acque nere dell’Elba.

Mischka Danos avrebbe ricordato come mentre lui e i suoi amici lasciavano cautamente il seminterrato della pensione, dopo il primo raid, all’inizio stranamente non ci fosse alcuna paura. Sulla dolce collina nei pressi dei laboratori di elettronica della sua università, guardando da lontano giù alla città vecchia, il ragazzo era ipnotizzato dallo spettacolo cinetico delle eruzioni fiammeggianti: sull’ampio viale dove si trovava, d’un tratto i caseggiati mandavano fiamme; ai piedi della collina, le vampe vicino alla stazione erano più intense e al di là di quella, nella città vecchia, si iniziava a vedere a fatica. Il suo stesso dipartimento di ricerca, lì accanto, aveva appena preso fuoco; l’incendio era a uno dei piani più alti. Ora che gli aerei erano passati, Danos – e come lui moltissimi altri – credette di essere ormai salvo, e iniziò a fare piani per accompagnare la sua amica, la ragazza «Karl May», a casa. Ma la curiosità per i fuochi che divampavano in città era irresistibile; desiderava una visuale migliore. Così, il giovane decise di risalire un altro po’ la collina. Si ricordava che, in uno spiazzo aperto del terreno, era stata posizionata una batteria antiaerea. E sapeva anche che era stata abbandonata diverso tempo prima. Quello, quindi, sarebbe stato il suo punto di osservazione.11

In alcuni casi, i bombardieri erano riusciti a colpire obiettivi precisi: il complesso industriale degli stabilimenti della Zeiss Ikon, benché costruito per resistere a un blitz del genere, era rimasto comunque gravemente danneggiato. Gli uomini che vi lavoravano – prigionieri dei campi di concentramento portati lì per svolgere mansioni dalle particolari specifiche tecniche – non erano sul posto, bensì in casermoni un po’ più a nord della città. Sotto il peso del bombardamento, anche le moderne strutture rinforzate erano state costrette a piegarsi e spezzarsi. La conflagrazione aveva schiacciato anche l’imponente complesso della Seidel und Naumann. E più vicino al fiume, la grande fabbrica di sigarette, di recente riconvertita alla produzione di proiettili, stava ora bruciando. Lo stesso valeva per molti altri stabilimenti riconvertiti alla produzione di munizioni che si trovavano al di fuori dell’Altstadt. Tra i lavoratori forzati di un campo alla periferia della città, quella notte, c’era un ebreo ceco di nome Michal Salomonivic; aveva guardato il cielo carico d’ambra, avrebbe ricordato, e aveva sentito un impeto di esultanza: di certo quello era un segno che la guerra stava per finire.12

Più vicino al centro, una ragazzina di nome Erika Seydewitz aveva passato l’ultima mezz’ora circa a combattere freneticamente con i roghi appiccati dagli ordigni incendiari.13 La sua famiglia abitava in un appartamento al quarto piano di un palazzo vicinissimo al Rathaus. Al pari di innumerevoli altri, i Seydewitz avevano vissuto la prima ondata di bombardamento come una sfilza di shock uditivi dall’interno di una piccola cantina di mattoni, dalle cui pareti cadeva la polvere. Appena prima che suonasse il cessato allarme si era sentito uno schianto straordinariamente forte, e il padre di mezz’età della ragazza era convinto derivasse dal loro caseggiato che era stato colpito. Si era diretto alle scale dello scantinato e la figlia gli aveva manifestato la risoluta intenzione di andare con lui. L’uomo non aveva fatto obiezioni.

Era salito per primo, raccomandandole di restare al pianoterra, e poi l’aveva invitata a seguirlo. A sorpresa, dal momento che il palazzo si trovava proprio sulla rotta dei bombardieri, il danno pareva costituito da un’unica finestra in frantumi nel soggiorno, alcuni lucernari scoppiati sul pianerottolo e delle crepe nel soffitto che si affacciavano su più ampie voragini nel tetto del caseggiato. Provarono ad accendere la luce e scoprirono, con stupore, che funzionava. Tuttavia, era chiaro che non erano al sicuro; tizzoni e scintille delle bombe incendiarie e di altri fuochi iniziavano a vorticare tutt’intorno in un vento insolito e sempre più forte, cadendo dai lucernari e dalle crepe del soffitto e volteggiando attraverso il vano della finestra. Padre e figlia si resero conto del pericolo derivante da quelle «lucciole» e quei «vermi luminescenti» (come li avrebbero descritti).14 Avevano un rudimentale kit d’emergenza: una grossa pompa a mano e alcuni secchi d’acqua. L’obiettivo era recuperare quanti più oggetti preziosi potevano e portarli fuori dall’appartamento. Erika e il padre tornarono quindi giù a prendere la madre e la sorella. La famiglia si riunì nell’alloggio. Per la forza dell’abitudine derivante da anni di rispetto delle norme sull’oscuramento, la madre spense la luce. Il padre la riaccese, in modo da poter vedere cosa stavano facendo mentre raccoglievano i propri averi. Dovettero trattenere la madre, che voleva spegnerla di nuovo. «Non riuscivamo proprio a convincerla che la minuscola luce prodotta dal lampadario non aveva alcuna importanza a fronte della luce più forte che arrivava da fuori» avrebbe ricordato Frau Seydewitz.15

La famiglia sapeva di dover fare in fretta. Mentre la figlia maggiore azionava la pompa ad acqua, spruzzando le «lucciole» sui tappeti e vicino alle tende, la madre afferrò una grossa borsa. Dentro gettò alcuni oggetti dalla cucina, poi altri di maggior valore dalla camera da letto, una macchina fotografica, delle scarpe e persino un cappello. Attraverso il soffitto crepato si distingueva un incendio che andava espandendosi sul tetto, frutto di un luccicante spezzone alla termite. Dovevano uscire da lì.

L’oggetto più costoso che la famiglia aveva in casa era la nuova macchina da cucire all’ultima moda, e fu Herr Seydewitz che si prese la briga di portarla giù per le scale mentre la madre e la sorella di Erika trasportavano la grossa borsa piena delle altre cianfrusaglie domestiche. La lucidità mostrata da tutti loro fu notevole, visto che fuori, nell’Altstadt, era evidente come le fiamme stessero divampando e la misteriosa e asfissiante brezza calda si stesse intensificando. Altri abitanti dell’edificio si erano avventurati fuori dalla cantina; alcuni erano anziani, e ora sembravano paralizzati sulle scale. I Seydewitz avevano pianificato di tornare in cantina per aspettare che la nottata finisse, ma ormai era chiaro che, malgrado tutti i loro sforzi per combattere il fuoco, il palazzo sarebbe bruciato. Erika vide il fumo addensarsi al quarto e al terzo piano; in men che non si dica iniziò a montare.

La famiglia era ammassata nell’atrio al pianoterra, ma ora sembrava fossero in trappola, dal momento che il pianerottolo, su ambo i lati, si era trasformato in un muro di fiamme. Lì accanto c’era il grande magazzino Böhme; ed era stato inghiottito dal fuoco. Le macerie in fiamme piovevano giù dal cielo. I Seydewitz avevano un’automobile, ma forse era troppo tardi per decidere di scappare? Sul retro del condominio c’era un barile pieno d’acqua, ed essi velocemente ne inzupparono i loro soprabiti, e anche alcune coperte che avevano recuperato. Erika, che sorvegliava la situazione dal davanti, disse loro che le fiamme degli incendi vicini non sembravano più lambire le loro mura. C’era una possibilità.

Ma che fare con i vicini anziani? Una vecchia «sedeva sulle scale nell’atrio [e] non ci diede alcuna risposta».16 Per un caso fortuito, sopraggiunse al caseggiato il figlio, e la donna per lui fu ben lieta di alzarsi. Ma c’erano altri due inquilini anziani, marito e moglie, che sembravano altrettanto incapaci di muoversi. Il fumo si stava infittendo e con il caldo penetrante che arrivava dall’esterno, ormai era ovvio, restare diventava impossibile. I Seydewitz volevano disperatamente andarsene, ma non potevano abbandonare quei due. Fu il padre di Erika a trovare la soluzione, impartendo l’ordine alla vecchia signora «con tono secco». «Per strada c’era un bagliore fiammeggiante» avrebbe ricordato la ragazza. «I fili dei tram pendevano a terra.»17 E qui successe qualcosa che la giovane non aveva mai visto prima: l’asfalto sulla strada era caldo da ustionare. Tutti furono caricati in macchina, ma fatti pochi metri fu subito chiaro che l’auto non sarebbe andata molto in là. L’asfalto ribolliva. La famiglia e la coppia di anziani avrebbero dovuto proseguire a piedi per trovarsi un riparo, rimanendo sui marciapiedi di ciottoli piuttosto che sul magma della strada. Anche i ciottoli erano roventi; e tutto ciò che riuscirono a trovare a mo’ di copertura fu un arco sopra un passaggio nei pressi del Rathaus.

Giù nelle cantine, in quel labirinto di stanzette illuminate da nude lampadine a bulbo, stretti corridoi e porte di legno improvvisate, c’erano persone anziane, e mamme con le carrozzine che erano restie a spostarsi, pensando fosse meglio lasciar passare la notte in quella sicurezza pur priva di agi. Le cantine non erano tranquille. Attraverso i vari passaggi che correvano al di sotto dei vicoli che portavano giù al fiume e ai prati che gli stavano di fronte, e all’aria aperta del Grande Giardino, altra gente si stava facendo strada in più direzioni. Alcuni andavano, altri tornavano. Agli ingressi principali del labirinto sotterraneo, l’effetto del costante aprirsi e chiudersi delle porte che davano all’esterno per lasciar entrare e uscire le persone stava incanalando nei tunnel l’aria sempre più calda e acre. Non erano rifugi costruiti appositamente per quello scopo, ma soluzioni estemporanee, e quindi l’aerazione non era stata messa in conto. Oltretutto, la profondità degli scantinati era variabile, a seconda dell’età degli edifici che li sovrastavano, il che peggiorava il problema del libero flusso dell’aria. Si era forse sperato che il vento freddo proveniente dal fiume e dall’enorme parco vi avrebbe soffiato e che si sarebbe andato a sommare a un’ulteriore brezza derivante dagli innumerevoli ingressi secondari sparsi per la città vecchia. In circostanze normali sarebbe stato così, ma la fisica di quella notte era tutt’altro che normale, e il complesso schema di tortuosi e serpeggianti passaggi in mattoni che portavano all’ampia uscita sul fiume stava iniziando ad agire come una canna fumaria, risucchiando aria calda attraverso le stanze in direzione dello sbocco freddo sull’Elba.

Anche stando così le cose, da alcuni quel disagio crescente – che in alcuni casi si accompagnava a una sempre maggiore sonnolenza in quell’aria viziata – era percepito come un rischio che valeva la pena correre. In altri subentrava un fattore psicologico, un’inerzia esausta, la sensazione che le gambe non obbedissero più all’impulso di muoversi. Lo stesso fenomeno era stato documentato in altri bombardamenti, e fu osservato da Erika Seydewitz nei suoi anziani vicini.

Al livello della strada, i negozi, i ristoranti, i caseggiati più vecchi e gli alberghi stavano ora bruciando con una violenza tale da modificare le caratteristiche fisiche dell’atmosfera. Il fuoco svettava alto nel cielo, consumando ossigeno a ritmo sempre più sostenuto, e l’aria fredda e piovigginosa della valle dell’Elba sferzava sempre più veloce in quel vuoto. Anche nelle cantine la chimica stava cambiando, e invisibili esalazioni iniziavano a insinuarsi da una cella di mattoni all’altra, sebbene in maniera così graduale che quanti avvertivano il fiato corto, l’insolita sensazione che anche il respiro più profondo non riuscisse a riempir loro i polmoni, lo attribuirono magari ai sintomi di stress o paura.

Poco lontano dall’Altstadt, coloro che erano riemersi dagli scantinati fissavano con sgomento il vivido lampeggiare del cielo rosso rubino. Helmut Voigt – che aveva trascorso quello che gli era sembrato un «tempo interminabile» nel rifugio in cemento del birrificio locale – fu stupefatto nel vedere che nel suo sobborgo, a quanto sembrava, tutto era rimasto intatto.18 Osservando l’orizzonte in fiamme, il problema peggiore cui riuscì a pensare fu che l’indomani mattina andare a scuola sarebbe stato probabilmente più difficile del solito. Quando il ragazzo e la madre tornarono al loro appartamento, non trovarono nemmeno una finestra rotta. Anzi, era tutto così nella norma che Helmut se ne tornò a letto.

Voigt aveva avuto fortuna. Quando uscì dal seminterrato in cui aveva trovato rifugio, il dottor Albert Fromme si rese immediatamente conto non solo della carneficina appena avvenuta, ma anche del numero sconfinato di morti che ne sarebbe seguito. Subito a ovest dell’Altstadt, nei pressi del suo ospedale di Friedrichstadt, palazzi, uffici e laboratori pulsavano del calore intenso del fuoco. Casa sua – benché danneggiata – in quella fase non stava bruciando, malgrado le faville incandescenti che piovevano fluttuando nel cielo scintillante. Corse dentro a prendere dell’acqua e a inzuppare i tessuti più esposti ai tizzoni che sfarfallavano verso le finestre in frantumi dell’edificio. Il suo kit di sopravvivenza, predisposto qualche tempo prima, era un esercizio di precauzioni ponderate con scrupolo; oltre a inserirvi gli occhiali raccomandati per proteggersi gli occhi dal fuoco, di cui avrebbe fatto massiccio uso nelle ore a venire, il dottor Fromme aveva previsto, per esempio, che per camminare sulle macerie roventi lungo strade di asfalto fuso sarebbe stata necessaria la spessa imbottitura in pelle di grossi scarponi da sci.19 Oltre a questo, si era portato anche un rasoio e il necessario per l’igiene personale, prevedendo che avrebbe dovuto vivere in ospedale nell’eventualità di una catastrofe come quella. Sapeva che i giorni successivi sarebbero stati dal punto di vista medico un calvario fuori dal comune, ma nell’immediato il difficile era trovare un itinerario che lo portasse all’ospedale senza dover attraversare l’inferno. Per il dottor Fromme, era appena iniziata la più lunga delle notti.

Nella zona est della città, l’anziano addetto alla protezione antiaerea Georg Erler e sua moglie Marielein riemersero dal loro bunker e scoprirono che, sebbene tutte le finestre fossero saltate in aria e il lampadario fosse andato in pezzi, la casa in cui vivevano sembrava – almeno per quanto riuscivano a vedere nel chiarore di quella notte – indenne. Ma in altre abitazioni lungo la strada c’erano degli incendi, e la gelida umidità che arrivava dall’Elba creava un bizzarro contrasto con le vampate di calore che Erler sentiva arrivargli in faccia mentre andava su e giù per la via, chiedendosi cos’avrebbe potuto fare. C’erano vicini da aiutare, gente più o meno della sua età i cui appartamenti non avevano più finestre e che freneticamente stava cercando di spostare tutti gli oggetti e gli arredi infiammabili – tende, tappeti, scrivanie, divani tappezzati in seta, quadri, libri adorati – più lontano che poteva dalle cornici delle finestre e dalle infide «lucciole» che stavano iniziando a cadere come neve scintillante.20 Poi gli Erler rientrarono nel loro appartamento. I libri erano stati scaraventati a terra dalla potenza delle detonazioni nelle vicinanze; i vasi erano andati in pezzi. Era difficile per loro riuscire a fare un inventario più dettagliato dei danni subiti dai dipinti a olio e dagli arredi, perché la corrente elettrica in quella zona della città era venuta a mancare e, col vento che si alzava, non potevano tener accesa una candela.

«Togliemmo in fretta le tende» avrebbe ricordato l’uomo «che sventolavano come bandiere dalle finestre aperte, protendendosi verso le faville sempre più numerose, come se volessero afferrarle e trasformarle in fiamme.»21 Il vento sembrava aumentare di intensità. «Dopo esserci sbarazzati dei frammenti di vetro sul davanzale, tentammo di chiudere le imposte che, a dispetto delle sbarre di ferro, a stento avevano resistito a quella specie di tempesta.»22 Tutti i vicini degli Erler facevano confronti sui rispettivi danni subiti, ma in un certo qual modo perverso l’umore era leggero come l’elio. In parte ciò era dovuto al mero sollievo: erano tutti lì, vivi e illesi. Ma c’era anche il senso di aver perduto le cose familiari, e una sorta di eccitazione vertiginosa, una forma di euforia alimentata dall’adrenalina data dall’esplorare quel mondo completamente nuovo. «Eravamo tutti felici» avrebbe ricordato Georg Erler, menzionando il fatto che anche le loro preziose case sembravano esserne uscite relativamente indenni.

Contento che le zone adiacenti fossero, da quel che sembrava, sicure, Herr Erler si avviò a ispezionare il quartiere; rientrava nel suo dovere di responsabile del blocco antiaereo. Una casa, in una strada limitrofa, era in fiamme, ma il custode e altri inquilini stavano correndo avanti e indietro con dell’acqua, e sembravano avere il rogo sotto controllo. Erler proseguì ancora un po’, ma non appena raggiunse Striesener Platz lo scenario si fece scioccante. Era uno degli spazi più eleganti della zona: case e ville di fine XIX secolo che davano su giardini dominati da una fontana riccamente decorata. Herr Erler si rese immediatamente conto che l’edificio che ospitava un’enorme libreria era stato colpito in pieno, all’angolo di nordest. Gli altri addetti antincendio gli raccontarono dell’immensa pressione dell’aria prodotta dalle bombe, dei profondi e abnormi crateri e del fatto tanto più straordinario che moltissimi edifici avevano in realtà resistito a quella possente raffica di esplosivi. L’organizzazione non avrebbe potuto essere più meticolosa: gli addetti che operavano sulle reti energetiche avevano istituito delle stazioni di monitoraggio degli incendi, e anche mentre le lancette degli orologi lambivano la mezzanotte continuavano instancabili a lavorare. Si occupavano pure di confortare i residenti della zona ancora «paralizzati per il terrore» un’ora buona dopo che i bombardieri erano volati via. Herr Erler si imbatté in un avvocato del posto, il dottor Thor, lui stesso ancora gravemente scosso dopo l’attacco. C’era anche un altro addetto, la cui casa era stata colpita; a fronte di ciò, stava cercando di organizzare gli inquilini del palazzo danneggiato in modo da trovar loro riparo negli alloggi dei vicini. Sebbene le loro case ribollissero di fumo e macerie, ci furono alcuni anziani che nessuno riuscì a convincere a camminare anche solo qualche metro per cercare una sistemazione temporanea.

E anche quelli che volevano avevano difficoltà. L’anziana madre di un’inquilina, Frau Richter, era pronta a muoversi, ma il pietrisco sconnesso e fumante non andava d’accordo con quelle gambe fragili. A peggiorare i rischi c’erano gli edifici nelle vicinanze, così danneggiati che sarebbero potuti crollare da un momento all’altro. Herr Erler indicò a Frau Richter e sua madre una sistemazione alternativa in un’altra direzione; non seppe mai che fine avessero fatto. «Probabilmente sarebbe stato lo stesso [che se fossero rimaste]» avrebbe ricordato, perché gli eventi successivi erano destinati a stravolgere ancora una volta tutte le loro vite.23

Nel frattempo, sua moglie Marielein stava cercando di scoprire cosa fosse successo ad alcuni dei loro amici in zona. Era rimasta scioccata nel vedere lo stato del loro appartamento – il frammento di lampadario che pendeva dal soffitto «come un ghiacciolo»,24 lo scricchiolio dei vetri rotti, il bagliore infernale dei tizzoni fluttuanti che sibilavano dalla finestra aperta, gli sforzi per chiudere le imposte – ma rimettere piede in strada e passare in rassegna i danni sembrò infonderle un’ondata di un’emozione ben diversa. Trovò il suo amico Michael e qualche altro, in una strada lì vicino, e in quell’istante, avrebbe ricordato, «sperimentai quanto di più rassicurante può provare una persona: essere con i propri amici che hanno subito la medesima sofferenza». C’era, ancora una volta, quel bizzarro impeto di felicità. Tutti si abbracciavano, sentendosi immensamente grati. «In fondo» avrebbe raccontato la donna «c’era la gioia di essere ancora vivi.»25 Ma i fuochi che danzavano nell’alto dei cieli dell’Altstadt, in quel quartiere signorile, apparivano altrettanto spietati anche guardandoli da altre prospettive. E il vento che rinforzava in maniera prodigiosa continuava a sferzare verso l’inferno.

Sull’altra sponda del fiume, i Bielss e gli inquilini del loro caseggiato che avevano trovato riparo nel seminterrato, dopo quel primo attacco avevano setacciato da cima a fondo la struttura in cerca di spezzoni incendiari. Al contrario degli edifici nei paraggi, il palazzo non era stato colpito. «Il cielo fiammeggiava» avrebbe ricordato Winfried,26 ma c’erano vampe anche lì vicino. A poche strade di distanza, l’enorme complesso del birrificio Waldschlösschen era avvolto dalle fiamme. In lontananza si era udito l’ululare del cessato allarme. C’era una stazione radio dedicata alla «contraerea» che trasmetteva da Berlino e, in notti come quella, specificava quali aree fossero state colpite. Dava inoltre l’allarme su ulteriori incursioni dei bombardieri (le autorità avevano pubblicato una mappa della Germania in cui il paese era suddiviso in quadranti. Ogni città era abbinata a un codice alfanumerico e quelli della radio talvolta lo usavano; Dresda, avrebbe ricordato Bielss, era indicata come MH 8). Frau Bielss cercò di sintonizzarsi ma la radio sembrava morta. Uno dei tanti motivi di preoccupazione era la famiglia dell’amico di Winfried, Horst. Chiesero ai vicini di poter usare il loro telefono per contattarla, ma a quanto pareva il numero era irraggiungibile. I ragazzi tornarono all’appartamento di Bielss, dove si misero a «togliere le schegge» da terra; era un esercizio di rimozione nevrotico. Come avrebbe raccontato Bielss, «non avevano la benché minima idea di cosa fare con quell’agitazione addosso».27

Col cielo della notte, fuori, che brillava di una luce vermiglia, la prima cosa di cui avevano bisogno sembrò essere il cibo, e Frau Bielss andò in cucina per preparare uno spuntino leggero per tutti. Ma Horst, con gli occhi fissi a quel cielo d’inferno, era sempre più in ansia; voleva disperatamente tornare a casa sua. Bielss e la madre sapevano di non poterlo lasciar andare da solo, e in ogni caso anche loro avevano parenti e amici a sud del fiume di cui volevano avere notizie, quindi si incamminarono tutti e tre insieme. A questo era sottesa un’insolita eccitazione. Come avrebbe osservato Bielss: «Dopo tutta quell’agitazione non riuscivamo a pensare di dormire».28 E sapevano anche che molte altre persone, quella notte, avrebbero combattuto con il medesimo istinto: sia di verificare se i propri cari ne erano usciti incolumi (a quanto pare pochissimi contemplavano l’ipotesi che non fosse così) sia di appagare il magnetico desiderio di esplorare la città in fiamme. Non si trattava di una motivazione insana, quanto piuttosto di una manifestazione dell’energia febbrile prodotta dall’aggressione dei bombardieri su tutti i loro sensi. Star seduti immobili mentre i cuori continuavano a battere all’impazzata non era assolutamente possibile. Eppure, bastavano pochi passi all’esterno, in quell’aria acre, per riportare alla realtà di quella notte.

I tre si incamminarono verso il fiume, e dopo parecchi isolati arrivarono all’ampia Bautzner Strasse, dove due imponenti edifici stavano bruciando con vigore, mentre gli occupanti facevano quel che potevano con secchi d’acqua e manichette da giardino. Un po’ dei mobili più preziosi erano stati recuperati dai salotti prima che le fiamme prendessero piede, e collocati sul marciapiede e in strada sotto il cielo luminoso della notte che andava tingendo ogni cosa di un surreale color albicocca. Un po’ più avanti un rogo più pungente divampava dentro e intorno al birrificio; i lastroni di pietra ardevano, le travi di legno crepitavano. Le fiamme illuminavano tutta l’area, avrebbe raccontato Bielss.29 Accanto c’era quello che un tempo era l’elegante hotel Heidehof. Anch’esso era stato colpito, e l’aria era adesso così densa di fumo e cenere sospesa che diventava difficoltoso vedere al di là del fiume. Era evidente che la città stesse bruciando furiosamente, ma quel vento che montava in maniera spaventosa, oltre alla difficoltà sempre maggiore di vedere bene con gli occhi mezzi chiusi per evitare le «lucciole» incandescenti, iniziò a dare al gruppetto l’impressione che forse passare il fiume non sarebbe stato così facile come avevano immaginato.

Poi, dalla foschia cinerea, emerse un gruppo spettrale di uomini in camicia da notte che arrancavano, zoppicavano, trascinavano i piedi: soldati feriti degenti dell’ospedale della Diaconessa, che si trovava un po’ più giù lungo il corso del fiume. La struttura era stata colpita da esplosivi e ordigni incendiari, costringendo a evacuarla, con i feriti in grado di camminare aiutati ad alzarsi dal letto e quelli che potevano che si davano alla fuga. «In città stava bruciando tutto» avrebbe ricordato Bielss, ma il fumo ora era troppo denso per distinguerne dettagli di un qualche tipo.30 Quegli uomini feriti avevano scioccato Bielss e la madre più profondamente di qualsiasi altra cosa; si resero conto che forse era meglio tornare indietro e prendere dall’appartamento almeno degli occhiali protettivi.

Horst fu d’accordo col cambio di programma, ma divenne evidente che anche il tragitto da compiere per mettersi relativamente in salvo implicava rischi nuovi e inaspettati. «Gli occhi ci bruciavano per il fumo pungente» avrebbe ricordato Bielss. In quel breve lasso di tempo, altri enormi edifici avevano preso fuoco e in alcune delle strade più strette le macerie in fiamme si schiantavano sul selciato sottostante, schizzando scintille. Ripercorrere un tragitto che solo pochi minuti prima avevano dato per scontato diventava ora una questione di calcoli angosciosi. Alla fine riuscirono ad arrivare all’appartamento attraverso un percorso assai tortuoso e ancora una volta cercarono senza successo di mettersi in contatto usando il telefono dei vicini. Horst era sempre più preoccupato per la sua famiglia e per quanto stava accadendo in quella foschia ocra al di là del fiume. Con gli occhiali a portata di mano, i tre lasciarono di nuovo il caseggiato. L’idea questa volta era di farsi strada lungo gli argini dell’Elba, e in particolare lungo la distesa di prati di fronte all’Altstadt sul lato opposto. Tutti riuscivano a sentire che qualcosa nell’aria stava cambiando; le pallide facciate delle ville e dei caseggiati della Neustadt erano sferzate da «potenti scintille»;31 i tizzoni minacciosi ora volavano quasi in orizzontale. Mentre arrivavano alla Jägerstrasse, una strada in discesa che partiva da un parco, il vento aveva l’aria di una tempesta di fuoco: le braci arancione brillante adesso saturavano l’aria con tale ferocia che la strada sembrava letteralmente invalicabile.

Era più chiaro che mai che quello non era un incendio che poteva essere contrastato. I tre superarono un edificio utilizzato dalle autorità militari: le fiamme lo stavano divorando, eppure nessuno stava facendo il minimo sforzo anche solo simbolico per spegnerle. Era ovvio che fosse semplicemente inutile. Per di più, il pulviscolo di cenere rendeva oltremodo doloroso anche solo tenere gli occhi aperti, irritando al contempo trachee e polmoni tanto da provocare tosse secca e una spaventosa sensazione di fatica e retrogusto amaro a ogni respiro.

Poi, dall’ardente foschia, emersero altre persone che sembravano non avere alcun titolo ufficiale, ma che tuttavia trasmisero un messaggio inequivocabile: «Non tentate di proseguire oltre in città». «Eravamo decisamente avvisati», avrebbe ricordato Bielss, benché in realtà, guardando a quello spettacolo infernale attraverso gli occhiali chiazzati di cenere, si trattasse di un consiglio di cui non avevano granché bisogno. L’agitazione febbrile stava cedendo il passo alla livida tensione.

Un po’ prima, vicino a quello che stava rapidamente diventando il cuore dorato di tale vulcanico inferno, Victor Klemperer e la moglie Eva avevano – come tutti gli altri – istintivamente reagito alla partenza dei bombardieri tentando di ristabilire una qualche parvenza di normalità domestica. Lasciarono la cantina e notarono subito il vento insolitamente forte: scrive Klemperer che, anche arrivati a quel punto, si chiese se fosse naturale o il preludio a una tempesta di fuoco.32 Ma nel professore e sua moglie non c’era nulla del nevrotico ed euforico attivismo dei concittadini più giovani, quanto piuttosto una terribile spossatezza. Il selciato sotto i loro piedi era coperto di schegge di vetro; come aprirono la porta della Judenhaus fu subito evidente che c’era vetro dappertutto anche all’interno. Tutte le finestre erano implose, sia quelle che davano sull’Altstadt sia quelle che affacciavano sull’Elba. Arrancando su per le scale con un’altra inquilina, Frau Cohn, trovarono altro vetro e, da una delle finestre, lo spettacolo in lontananza dell’argine dell’Elba e degli edifici municipali sul lato nord del fiume illuminati dalle fiamme.

Nella casa devastata, non funzionavano le luci e non c’era acqua. Frau Cohn, controllando la sua camera al vivido bagliore delle fiamme, disse ai Klemperer che gli scoppi delle bombe le avevano spostato i mobili. Si trasferirono in cucina, dove Eva trovò una candela e l’accese. C’era un po’ del caffè di prima, ormai freddo, e la coppia lo bevve, e anche qualche avanzo di cibo, e lo mangiarono. I due sembravano ormai pressoché ignari del frastuono o dei rumori che arrivavano dalle strade circostanti, e finanche del rumore dei palazzi vicini che crepitavano e scricchiolavano, fiaccati dalle fiamme; sembravano ormai vinti dalla stanchezza. Incredibilmente, incuranti del pericolo derivante dal divampare degli incendi o dal crollo degli edifici, entrarono in camera da letto e si stesero sui loro due letti gemelli. Eva si rialzò immediatamente, esclamando che il suo era pieno di vetri. Li tolse come meglio poteva e si ristese. Il marito la osservava del tutto privo di interesse e in men che non si dica, prima ancora di rendersene conto, dormiva.33

La schiacciante spossatezza dei Klemperer potrebbe essere stata causata in parte dalle invisibili esalazioni che si stavano diffondendo ovunque; agenti chimici e gas prodotti dalla combustione della moltitudine di materiali negli innumerevoli appartamenti e grandi negozi dei dintorni. Ma la sonnolenza di Klemperer parve trovare un’eco, quella stessa notte, in moltissimi altri cittadini anziani, e verosimilmente era una reazione al trauma di quell’attacco colossale; i loro vecchi cuori erano stati costretti controvoglia a battere all’impazzata, e la successiva, amara ripresa aveva lasciato una sensazione di arti inerti, che non rispondevano. Per moltissimi di una certa età, darsi alla fuga in fretta era impossibile. Ma Klemperer aveva passato anni sotto la perfida amministrazione nazista, senza limitarsi semplicemente ad accettare quel che stava accadendo. Nelle ore a venire, lui e migliaia di altri sarebbero stati spinti alla più straordinaria delle battaglie per salvarsi la vita.