XVII

MEZZANOTTE

Il laboratorio del professor Heinrich Barkhausen era ora esposto all’aria della notte; alte fiamme soffocanti saettavano in mezzo a quel che restava dei delicati strumenti di vetro, delle bobine di fil di ferro, di elettrodi e diodi. I dispositivi raffinatamente calibrati per il controllo e l’indirizzamento di determinate frequenze, la tecnologia del suono che era stata per il professore la specializzazione lavorativa di una vita, erano stati fatti a pezzi e ridotti a materia grezza. L’Università tecnica di Dresda era situata a sud dell’Altstadt ed era stata colpita da ordigni incendiari e ad alto potenziale esplosivo. L’incendio aveva preso piede con lentezza, ma una volta divampato si alimentava voracemente. Era un esempio di quel «bombardamento selvaggio»1 da cui, 3000 metri più su, il direttore dell’operazione della RAF aveva messo in guardia tutti gli equipaggi mentre sorvolavano la città: fuori bersaglio, non rientrava nella missione.

Vicinissima all’ateneo si trovava l’appariscente struttura della chiesa russa ortodossa di Dresda, con le sue cupole a bulbo blu; la raffica indiscriminata di esplosivi a casaccio non l’aveva nemmeno sfiorata, mentre a pochi metri di distanza l’università era divorata dalle fiamme. Non è chiaro con esattezza dove fosse a quell’ora il professor Barkhausen, ma il suo protégé Mischka Danos non era lontano, un po’ più su sulla medesima collina; lui e la ragazza «Karl May» si erano fermati alla postazione della batteria contraerea abbandonata, e da lì ora osservavano la vastità dell’inferno che avevano davanti. Danos si sentiva – l’avrebbe ricordato con fastidio – come l’imperatore Nerone mentre guardava bruciare Roma.2 Molti altri avrebbero ricordato quello strano miscuglio di emozioni e il senso di colpa che instillava: lo shock mescolato allo stupore per quello spettacolo terribile. In città, il fuoco si stava trasformando in un nuovo tipo di forza distruttiva.

Molti, nelle cantine di mattoni male illuminate sotto l’Altstadt, avevano percepito il cambiamento nella composizione dell’atmosfera: l’oppressione sempre più pulsante di quel calore; il respiro corto e faticoso, come quello che si sperimenta negli incubi; le vertigini a stare in piedi; un crescente senso di nausea. Il risultato era un desiderio improvviso e irrefrenabile di uscir fuori, di essere all’aria aperta. Alcuni ricordavano come i cunicoli in mattoni sfociassero alla fine sull’argine dell’Elba, e stavano puntando a quella che lì, pensavano, sarebbe stata aria fredda e pulita. Altri stavano cercando di raggiungere il parco del Grande Giardino, forse immaginando alberi scintillanti di brina e distese di boscaglia fresca. Ma gli stretti passaggi e i varchi improvvisati che componevano il labirinto non erano fatti per gestire un’enorme mole di persone che tentassero di muoversi in direzioni opposte. Oltretutto, molti di coloro che vi avevano trovato riparo erano anziani, vecchi e vecchie in soprabito invernale, non più agili come una volta. Uno inciampò e cadde, per poi essere a poco a poco schiacciato via via che la coda inquieta dietro di lui premeva inarrestabile in avanti. Due persone rimasero incastrate nel vano di una porta mentre la gente da ambo i lati tentava freneticamente di passare.

L’effetto dei roghi sovrastanti – con le fiamme che saettavano e guizzavano da un palazzo all’altro, da una strada all’altra, svettando ormai ancora più in alto delle guglie delle chiese colpite – iniziava a farsi sentire anche al di sotto della superficie. L’intensità del fuoco si stava irradiando tra la pietra e i mattoni. Era ovvio a molti che qualsiasi cosa ci fosse fuori valeva la pena rischiare, pur di sfuggire a quei tunnel roventi tetri e tossici. Ma ci furono altri episodi di un orrore non previsto: un passaggio che svoltava di novanta gradi aveva una porta antincendio scorrevole in legno che i rifugiati in preda al panico da ambo i lati, muovendosi di fretta, in una calca sempre più fitta, ignari della presenza gli uni degli altri, stavano cercando di aprire. Ovviamente, con le opposte forze che si controbilanciavano, la porta non cedeva e il panico crebbe, con alcuni che cercarono di tornare indietro ma si ritrovarono letteralmente intrappolati in una bolgia che non andava da nessuna parte.3 I corpi premevano contro i mattoni roventi, la gente respirava sempre più a fondo nel tentativo di mantenere la calma, sebbene i cuori facessero i salti mortali per lo spavento.

Moltissimi di quegli abitanti di Dresda nei rifugi si sentivano sempre peggio, via via che l’apatia, unita al peggiorare del mal di testa e dei dolori ai muscoli e alle giunture, iniziava a prendere il sopravvento. In mancanza di un’adeguata aerazione nelle cantine, l’ossigeno stava sgusciando via furtivo, e al suo posto si stava accumulando – inodore, invisibile – monossido di carbonio. I più anziani e i bambini piccoli furono i primi a sentirne gli effetti, ma di lì a breve uomini e donne di ogni età avrebbero chiuso gli occhi. Al sonno sarebbe seguita l’incoscienza e poi, in alcuni casi l’infarto, in altri semplicemente una progressiva asfissia.

La quattordicenne Ursula Elsner, che si era riparata con la famiglia e il fratello minore Dieter in uno scantinato nei pressi della Frauenkirche, avrebbe ricordato come per lei il vero e proprio momento di panico fosse subentrato non a causa di uno di questi sintomi, ma quando aveva visto, nel bagliore soffuso, fiocchi di cenere che iniziavano ad aleggiare attraverso i passaggi, dapprima una spruzzatina, poi sempre di più, orrenda allusione a un’incombente valanga.4 Lanciò un grido alla sua famiglia, e lei e il fratellino si precipitarono lungo i passaggi dalle pareti scabre, verso le scale dell’uscita. L’Altstadt a quel punto sembrava ormai composto esclusivamente da fiamme e faville. Ursula e Dieter corsero in direzione dell’ampio letto dell’Elba. Molti dei suoi parenti erano rimasti indietro, nello scantinato, forse ormai semplicemente incapaci di muoversi, con gli arti appesantiti dal veleno nell’aria.

Un po’ più a est c’erano fiumane di cittadini di Dresda che si univano ai profughi e si addentravano nelle tenebre del parco del Grande Giardino. Gli alunni superstiti della Kreuzschule e i loro insegnanti si trattennero ai margini. Quelli che entravano nella cupa boscaglia vicino allo zoo del parco sentirono il nervosismo degli animali in gabbia, mentre riguardavano all’Altstadt, e alle fiamme dai colori strabilianti: dall’arancione più intenso a un insolito color zaffiro, dov’era stata colpita una centralina del gas. Là, tra le querce e i tigli e i castagni – intervallati da un bizzarro cratere, con della terra sparsa un po’ ovunque – molti provarono un sollievo quasi trascendentale: il bacio ghiacciato della pioviggine di febbraio, gli occhi che si adattavano alla benedetta oscurità dopo averli strizzati per sbirciare attraverso quei gialli e rossi incandescenti. E soprattutto, il sapore dell’aria fresca, respirata a pieni polmoni. Magari alcuni temevano che potesse arrivare un altro stormo di bombardieri quella notte, ma anche per loro quel vasto spazio alberato, che copriva un’area grande all’incirca come l’Altstadt stessa, dovette sembrare istintivamente sicuro, un antiobiettivo, un enorme rettangolo di tenebra a contrasto col rovente spettacolo a ovest.

Un altro luogo intuitivamente sicuro erano gli ampi spiazzi verdi situati sul lato nord dell’Elba, i «prati» che portavano alla riva del corso d’acqua. Sebbene alcuni degli edifici municipali lungo il fiume, tra cui il raffinato Palazzo Giapponese in stile barocco, avessero subito gravi danni e continuassero a esalare fiamme e fumo, erano comunque abbastanza lontani dalle sponde per consentire alla gente di radunarsi sui prati antistanti. Medici e infermieri degli ospedali a meno di un chilometro di distanza avevano fatto in modo di condurre lì i pazienti, che rabbrividivano all’aria della notte tra i cavalli del circo Sarrasani. Lo spiazzo era anche diventato una specie di auditorium; da quella visuale, la portata biblica dell’incendio al di là del fiume poteva essere colta quasi interamente. La cupola di vetro dell’Accademia di belle arti era in qualche modo ancora intatta; attraverso di essa, e su entrambi i lati, si potevano veder svettare i roghi. È ragionevole pensare che da lontano, e separati da quella vista da un fiume ampio e freddo, lo spettacolo fosse tanto ipnotico quanto spaventoso, ma il vento che soffiava dappertutto impediva agli spettatori di registrare tutta la gamma di suoni pietosi che l’accompagnavano. Il suono dell’angoscia dei singoli non riusciva a coprire quella distanza, oltre il profondo ruggire sottostante di quelle innumerevoli fiamme.

Persino allora, nell’Altstadt, restavano comunque alcuni spazi aperti in cui era possibile cercare riparo, in particolare il serbatoio di cemento, profondo quasi 3 metri, che era stato costruito nella piazza dell’Altmarkt. Alcuni, mentre arrancavano per uscire dalle cantine sempre più soffocanti, se l’erano nitidamente ricordato, e in quel momento di estrema crisi desideravano disperatamente bere e bagnarsi. Donne e uomini, sovrastati dal grande magazzino Renner che bruciava e dalle macerie fumanti della Kreuzkirche e di altri edifici in fiamme, iniziarono ad arrampicarsi lungo i muri della cisterna e a lanciarsi nella vasca fredda. Lo shock, dopo quell’invasione di calore, sarebbe stato enorme, ma sempre più persone ebbero la stessa idea e l’ampio serbatoio si stava ora riempiendo di sagome galleggianti.5 Il fatto che l’acqua non fosse intollerabilmente fredda tanto da paralizzare gli arti, in quella gelida notte di febbraio, era in sé e per sé un indice della sostanziale potenza di quell’inferno. I vigili del fuoco erano ancora lì, ma sembravano sempre più impotenti. C’erano altre cisterne, e altri distretti della città che ancora potevano essere salvati; ma l’Altmarkt era ormai al di là delle loro forze.

Ad appena due strade da lì, Erika Seydewitz, con la madre, il padre, la sorella e gli anziani vicini, era ancora accovacciata sotto un arco di pietra vicino al Rathaus. Il padre stava rimuginando con una frenesia quasi maniacale: era convinto che potessero ancora riuscire a salvare l’auto di famiglia e forse anche qualcuno degli oggetti di maggior valore del suo negozio di fotografia. In quel tentativo – a cui la madre non credeva – padre e figlia corsero fuori, nella pioggia incandescente di tizzoni che precipitavano. La macchina non era ancora in fiamme ma era evidente che non si sarebbe mai mossa. E poi, sobbalzando agli scricchiolii assordanti degli edifici che ruggivano tra le fiamme, Erika scivolò e cadde. «I ciottoli erano così caldi che mi bruciai le mani» avrebbe ricordato. «Il mio unico pensiero fu: anche se finirai per romperti braccia e gambe, alzati in fretta.»6 Udì lo scricchiolio trasformarsi in un muggito più cupo: da qualche parte, alle sue spalle, una casa era crollata su se stessa.

In quei pochi minuti, il mondo era cambiato. C’era «una tempesta per strada»: un vento forte, rovente, che soffiava braci e faville. Erika sapeva bene che ormai i loro soprabiti erano asciutti. Lottarono con la tempesta di fuoco che tirava e torceva loro le membra, facendosi strada verso l’arco di pietra dove aveva trovato incerto rifugio il resto della famiglia. Quell’impulso di proteggere beni con un valore sia reale sia affettivo sembrava irrazionale persino a chi lo avvertiva, ma forse era naturale tentare di aggrapparsi a qualsiasi cosa fosse simbolo di sicurezza.

Mentre il dottor Fromme procedeva verso l’ospedale, la sua famiglia e i vicini, nella zona ovest della città, vedevano gli incendi propagarsi di strada in strada, di casa in casa, e l’istinto collettivo fu, anche per loro, quello di prendere dalla propria abitazione una serie di oggetti e portarli in salvo. Fra i tesori dei Fromme c’erano, com’è comprensibile, una fotografia del matrimonio e l’adorata macchina da scrivere del dottore e, forse più opinabile, una poltrona e alcuni soprabiti. Ci furono un po’ di discussioni se prendere o meno dalla cantinetta le bottiglie di vino più pregiate; si optò per il no. L’idea che verosimilmente avevano era caricare il più possibile in macchina e andarsene. Ma i pungenti tizzoni color arancio che impregnavano l’aria volteggiavano verso il basso spargendo ovunque il loro tocco incandescente: la valigia di un vicino, che era stata lasciata sul marciapiede, andò in fiamme. Una radio portata via da casa dovette «essere difesa dalle scintille».7

Nell’Altstadt, all’ombra della cattedrale cattolica avvolta dal fumo, i funzionari nazisti erano ancora rintanati nelle viscere di palazzo Taschenberg. Lothar Rolf Luhm, che era sceso dal tetto, guardava le madri, nel rifugio, che sospingevano i figli piccoli vicino ai «fagiani dorati», come se in qualche misura la vicinanza con chi era al potere offrisse protezione al pari di un talismano. Era un gesto di superstizione che, avrebbe in seguito ricordato Luhm, aveva spinto tutt’a un tratto il giovane soldato a desiderare di essere di nuovo nel suo carro armato, fuori sul campo.8 Sentiva che c’erano più certezze in quel tipo di guerra che non in quell’oscurità. Dopo aver trascorso la prima parte della nottata ad arrampicarsi su tegole roventi, localizzando i luminosi e scoppiettanti spezzoni incendiari per gettarli lontano, non sembrava ci fosse nient’altro che si potesse fare: la tortura dell’incertezza era costituita dal fatto che il giovane non aveva la minima idea se quella notte sarebbe arrivato un altro attacco o di quanto a lungo quegli scantinati avrebbero continuato a restare vivibili.

In altre cantine, meno attrezzate, le madri sedevano su nudi sgabelli, fissando negli occhi degli sconosciuti, rifugiati arrivati lì a casaccio perché colti dalla tempesta. C’erano anche altre donne, le teste riverse, gli occhi chiusi. Una testimone avrebbe ricordato di aver disperatamente tentato di svegliare la madre, e di come si stesse rivelando estremamente difficile farla alzare. Alla fine un urlo – «Qui sta bruciando!» – ne aveva interrotto il sonno, e lei e la figlia si erano alzate e spostate tra i passaggi, rinculando sempre più per trovare un altro posto in cui fermarsi a riposare sotto la luce tremolante.9 C’erano già, in quel dedalo di cantine, innumerevoli persone il cui sonno era diventato morte, o per asfissia o per arresto cardiaco. La terra sopra di loro stava cuocendo. Non poteva esserci riposo per nessuno. Eppure, in tutto quel tumulto spaventoso, dove era l’istinto a guidare le decisioni, a prevalere fu l’impulso più primordiale di tutti, quello di restare accanto ai propri cari.

Più su, i lussuosi negozi di Prager Strasse erano gusci carbonizzati; l’interno del teatro centrale, con il suo sontuoso auditorium e le poltrone di un rosso sfarzoso, era ora ridotto a una carcassa annerita, il palco esposto al cielo incandescente. Il ristorante e il bar situati in un profondo sotterraneo del teatro quella notte avevano ospitato una riunione del Volkssturm; sulle prime, quand’era iniziato il bombardamento, il bar doveva essere sembrato un rifugio ideale per gli uomini rimasti fino a tardi, magari un’opportunità per bersi qualche altro boccale di Radeberger, la birra locale, in modo da far passare l’attacco prima di prepararsi a compiere i loro doveri di cittadini. Ma le esalazioni dell’incendio erano qui più rapide e insidiose che in altri ambienti; tutti gli avventori erano ormai morti.10

Le fiamme che svettavano su Prager Strasse convergevano agli incroci con quelle che avevano sventrato i negozi di abbigliamento di Wilsdruffer Strasse, con gli incendi che si accavallavano tra loro, riempiendo ogni più piccola strada e passaggio di modo che dall’alto le vie di Dresda sembravano uno stampo scuro in cui fosse stato versato dell’oro fuso. Ai margini dell’Altstadt, appena oltre la circonvallazione interna, il buio del parco del Grande Giardino, che si estendeva per più di un chilometro e mezzo, continuava ad attirare profughi con i loro carretti. I cavalli che li trainavano di certo saranno stati messi in allarme dai versi degli animali che riecheggiavano dallo zoo, con gli elefanti che barrivano e i gibboni che schiamazzavano in preda a un terrore selvaggio.11

Dalla collina a sud della stazione, alla batteria abbandonata della contraerea, Mischka Danos era letteralmente pietrificato, non per la paura ma per un misto di estrema tensione e intensa curiosità. Lì accanto c’era una specie di torretta di guardia; ne salì gli stretti gradini per avere una visuale più ampia della tempesta che stava imperversando. Guardò i fuochi che confluivano in altri fuochi, mentre le esplosioni proiettavano nubi a forma di fungo cariche di scintille e incandescenza. Era ammaliato dalla sempre maggiore irruenza del vento, dallo scricchiolio delle travi dei caseggiati, dal roco ruggire dei tetti che crollavano. E continuò a fissare mentre giù nell’Altstadt, a meno di un chilometro e mezzo di distanza, i singoli bagliori color arancio si fondevano e mescolavano, dando vita a una muraglia di luce che svettava nel cielo cupo. A un certo punto, avrebbe ricordato Danos, divenne una torre di fiamme,12 un enorme cilindro di fuoco alimentato da raffiche ruggenti, mentre tutte le altre fiamme e faville puntavano irresistibilmente verso di esso. La torre di fuoco si innalzava proprio sopra il centro dell’Altstadt. Anzi, ormai avvolgeva l’intera città; migliaia e migliaia di fuochi che si erano fusi fino a diventare un’unica entità incandescente, che riempiva ogni strada. Quel biblico pilastro di luce doveva essere uno spettacolo spaventosamente irresistibile, ma per Danos in quella fase era qualcosa di ancora troppo astratto, in qualche misura, per iniziare anche solo a immaginare gli effetti che avrebbe avuto su chi gli si trovava vicino, o era proprio nell’occhio del ciclone, o per pensare a cosa sarebbe mai potuto rimanere di carne e ossa dopo una prova del genere.

E non poteva nemmeno sapere che nell’immediato non si prospettava nessuna pace per tutto ciò che di vivo c’era ancora in città. Le autorità cittadine, nel loro bunker nei pressi dell’Elba, avevano ricevuto la comunicazione via radio. C’era un’altra formazione di bombardieri in avvicinamento.