Mentre la notte volgeva al termine, sempre più persone avevano perso – o stavano perdendo – la vista. Per Marielein Erler il pizzicore si era tramutato in dolore e, come una provvida sventura, ciò accadeva in un momento in cui, dopo aver passato tutta la sua vita adulta a circondarsi di oggetti splendidi, era ora costretta a fissare lo sguardo sul più spaventoso degli abomini. Molto dopo il riecheggiare degli ultimi boati delle bombe, e con l’aria ancora satura di frammenti di vari materiali, lei e Georg si fecero strada lungo i marciapiedi a pezzi oltre le strutture carbonizzate delle case, alcune delle quali ancora sprigionavano fiamme. Lungo il tragitto videro «enormi quantità di gente morta».1 I cadaveri erano perlopiù nudi e arsi al punto da essere irriconoscibili. In due occasioni videro corpi di donne incinte il cui grembo era stato in qualche modo sventrato rivelando all’interno i loro bambini mai nati.
Ovviamente, anche casa loro era pressoché irriconoscibile; un impulso bizzarro spinse la coppia a recarsi in giardino, dove le loro aiuole di fiori scrupolosamente curate erano sepolte sotto le macerie. Sul retro c’era una gabbia in cui i vicini tenevano dei coniglietti: le povere creature erano ormai solo «grumi carbonizzati». Gli occhi di Marielein le stavano ormai dando estremo fastidio. La donna e il marito decisero di proseguire a piedi fino a casa dell’anziana zia Elsa, che viveva in un sobborgo poco fuori dal centro dove la tempesta di fuoco non era arrivata. Lo fecero sotto un cielo cupo come il ferro, pieno del pulviscolo rovente dei detriti carbonizzati, e lungo strade su cui la cenere era caduta come neve. Si spostarono in un’aria che fluiva adesso più pulita, allontanandosi a poco a poco dalla vista e dall’odore delle rovine. Mentre arrivavano, videro che anche la casa dell’anziana signora era stata colpita, ma non stava bruciando, e zia Elsa stessa era completamente illesa. «Ci accolse tra le lacrime, e ci abbracciò» avrebbe ricordato Frau Erler.2 Ormai, riusciva a malapena a sopportare di aprire gli occhi. «Chiesi un fazzoletto e dell’acqua» prosegue il racconto. «Dovevo rinfrescarmi gli occhi.» Ma da qualche parte doveva esser stata fracassata una tubatura; dai rubinetti non usciva niente. Per la disperazione, Frau Erler andò a chiedere a una vicina, ma tutto quel che la donna aveva era un po’ di acqua sporca in un grande catino. Provò a riposare gli occhi dormendo, ma dopo un breve pisolino la situazione non era migliorata. Lei e il marito decisero di tornare a casa. Con i loro vicini, si sperava, avrebbero potuto far gruppo e aiutarsi a vicenda.
Qualcosa di analogo stava accadendo anche alla vista di Lothar Rolf Luhm. Lui e gli altri erano usciti dalle cantine di palazzo Taschenberg; miracolosamente, l’ingresso non era stato ostruito dalle macerie dell’edificio sovrastante. Con il fumo denso che riempiva il cielo, era difficile capire se il sole fosse ormai sorto. Mentre il giovane e molti dei suoi compagni esploravano la città che ancora strideva e scricchiolava, vampe improvvise sprizzavano dalle case in rovina, trasformando le schegge di vetro in lame volanti, tra il bagliore dei roghi nelle chiese e le macerie pallide e mute di quelle che un tempo erano state strette viuzze, ora del tutto irriconoscibili. I passi incerti di Luhm, e la vista che continuava ad annebbiarglisi, rallentavano la camminata. Il gruppo, comunque, riuscì a imboccare i viali più ampi e ad attraversare quel che restava dell’Altstadt in direzione del Grande Giardino. Passarono l’Altmarkt; i corpi nella cisterna erano ormai grigiastri e iniziavano a gonfiarsi. Luhm e il suo gruppo si fecero largo tra i cavi serpeggianti dei tram, da tempo recisi; sulla strada, in mezzo ad altri detriti, c’era la carcassa di un mezzo. Il tram, avrebbe ricordato Luhm, era pieno di «donne, bambini e soldati» che «sembravano tutti come addormentati».
Raggiunsero il Grande Giardino, con le macchie di querce e tigli che si estendevano per oltre un chilometro e mezzo esplose, sventrate, abbattute, annerite, i crateri profondi, i corpi decapitati e i busti smembrati sparsi ovunque. A un osservatore con la passione per la scienza quello scenario avrebbe potuto suggerire un qualche impatto di diversi meteoriti: l’erba e il terreno e gli alberi colpiti, dilaniati e travolti da forze potentissime. Come osservato da Luhm, da molti di quei cadaveri traspariva una pace illusoria e agghiacciante: erano donne e bambini che a prima vista sembravano illesi. Ma proprio in questo la vista lo stava tradendo pesantemente; i suoi occhi si stavano spegnendo. Il soldato notò anche, tuttavia, come lui e i suoi compagni non fossero i soli esseri viventi a trovarsi lì; tra i corpi si aggiravano persone a quanto pare intente a fornire soccorso, anche in quello scenario spettrale. «C’erano volontari dappertutto, che davano una mano laddove era possibile.»3
Tra i compagni di Luhm c’erano il suo amico commilitone Günther e una madre con la figlia che erano con loro nello scantinato del palazzo. Fu deciso che i due uomini sarebbero andati con madre e figlia in cerca dei loro parenti che vivevano a qualche chilometro di distanza, in campagna. Ma Luhm era sostanzialmente cieco, e nessuno di loro aveva la minima idea della direzione in cui muoversi. Un medico volontario controllò meticolosamente gli occhi del soldato e stabilì che egli stava soffrendo di nient’altro che una forma temporanea di «avvelenamento da fumo». La figlia della donna prese Luhm per mano e iniziò a guidarlo, mentre il gruppetto ora avanzava a fatica tra le macerie in cerca di un ponte non danneggiato per attraversare il fiume, e della strada che portava all’aperta frescura del paesaggio al di là di esso.
All’incirca nello stesso momento, anche Mischka Danos si stava avvicinando alla legna in fiamme del Grande Giardino; sulle prime, quando aveva lasciato il bunker in cui s’era rifugiato, gli era parso di camminare come in un sogno. L’ampio viale nei pressi della stazione centrale era facile da percorrere – sebbene fosse coperto di mattoni e macerie e vetro, c’era comunque un sentiero libero – ma con le strade più strette dell’Altstadt cambiava tutto; qui bisognava scavalcare dei macigni roventi. A un certo punto Danos vide un bambino – non avrà avuto più di cinque anni – che giaceva accanto a una rete, sembrava stesse dormendo. Era il primo cadavere tutt’intero in cui si imbatteva. Le altre visioni erano state brandelli di umanità: una gamba e un piede che spuntavano da sotto i mattoni, una massa di capelli attaccata a una testa che non si vedeva, celata dalla pietra annerita. C’era una sorta di effetto accumulo, in tutto questo; il giovane, che inizialmente era stato spinto dalla curiosità a vedere cosa fosse accaduto in città, ora, finalmente, iniziava ad avere paura.4 La reazione sarà anche arrivata tardi, ma ciò non ne sminuì l’intensità. Era lì, nel profondo, come un fuoco incerto che prende piede poco a poco. Danos continuò a camminare, senza una meta, e i suoi passi lo portarono in direzione del fiume e della Neustadt al di là di esso.
Non lontano da dove si era rifugiato Danos, il nonno di Gisela Reichelt, camminava in quella mattinata più simile a un crepuscolo; con le strade e i vicoli che conosceva da una vita ridotti a materie primarie, pietra e polvere, già orientarsi sarebbe stato difficile, ma ora era anche completamente cieco. Eppure, continuava a camminare. Per miracolo c’erano altri, ancora sani, che procedevano in quel coagulo di polvere: lo videro e vennero ad aiutarlo. Piano piano, con cautela, il vecchio, gli occhi spenti che lacrimavano, fu condotto all’ospedale di Johannstadt. Nessuno avrebbe potuto curarlo, ma lì almeno avrebbe trovato conforto e rassicurazione. Gisela e sua madre, nel frattempo, erano a poca distanza. La tensione snervante di quella notte non era finita per loro con l’eco lontana dell’ultimo dei bombardieri: tanto per cominciare, l’ingresso principale della loro cantina era ostruito da violente fiamme e fu necessario rompere una finestra ad altezza marciapiede per permettere a tutti gli occupanti di arrampicarsi fuori. Poi, dopo essere riuscite a inerpicarsi scampando a quelle vampe, le due furono accolte, nel buio della strada, da un fronte sterminato di fuoco.5
Casa loro era distrutta; non avevano la possibilità di ritornarci. Tutto ciò che quella donna incinta (mancavano due settimane al parto) e sua figlia potevano fare era affrontare l’asfalto ancora vischioso, le macerie che crollavano dagli alti palazzi residenziali, la polvere che serrava la gola. Oltretutto, in qualche maniera la madre di Gisela doveva trovare un modo per distrarre la figlia dalla vista delle mummie nude e contorte, coperte di cenere. La soluzione era correre, o perlomeno muoversi più in fretta che potevano. C’era una zia che abitava poche strade più a sud, in un quartiere piuttosto elegante di raffinati condomini; i caseggiati erano in fiamme, ma la zia era salva.
Insieme, andarono a verificare come stavano gli altri nonni della bambina, quelli paterni, che vivevano nei pressi dell’università, anch’essi in una strada alberata con ville e caseggiati costruiti in uno stile di ispirazione francese. Ormai, ogni palazzo era o in fiamme o letteralmente sventrato. Ma anche i nonni, che nel frattempo erano riemersi dal loro scantinato, erano salvi, così decisero di proseguire in gruppo. Non avevano un piano coerente; la loro volontà sembrava più che altro dettata dalla paura. Si mossero tutti, ma «senza in effetti sapere dove andare».6
Non erano i soli. Altre sagome si muovevano per le strade fracassate, con l’impulso latente, era chiaro, di uscire dalla città in direzione dei campi e dei boschi. Come la famiglia di Gisela, erano tagliati fuori da tutto e vulnerabili al pari degli abitanti di un villaggio medievale reduci da un lungo assedio. Il bombardamento li aveva catapultati fuori dal XX secolo, e fuori dall’età moderna.
Quando Horst uscì con Winfried Bielss e sua madre dallo scantinato, appena prima dell’alba, non aveva ancora modo di conoscere la sorte della sua famiglia. Il ragazzo lasciò i suoi compagni e puntò verso est, in direzione del ponte di Loschwitz all’incirca cinque chilometri più a monte, un ponte sospeso di fine Ottocento comunemente soprannominato la Meraviglia Blu. Quel simbolo del talento ingegneristico di Dresda era ancora in piedi. Ma mentre il ragazzo lo attraversava, facendosi strada tra i quartieri della zona est verso quel che restava della devastata Johannstadt, quella fu l’ultima consolazione su cui poté contare. Arrivò a casa e trovò soltanto un buco, completamente bruciato. Dei suoi genitori non c’era traccia. Aveva con sé un taccuino, e lasciò un breve messaggio infilato in quel che restava del portico sul davanti della casa. Poi tornò sui suoi passi, lungo gli scheletri di strade, verso la Meraviglia Blu. Riattraversò in direzione della zona est, salì la collina e raggiunse l’oscurità pulita, bagnata di pioggia della brughiera di Dresda, la foresta situata al limitare della città. Si fece strada tra chilometri di alberi e finalmente raggiunse la casa di alcuni parenti che vivevano in un piccolo villaggio.
Alcuni sapevano benissimo che spettacolo orrendo li attendeva, e tra questi funzionari pubblici, personale ferroviario e anche il figlio quindicenne del dottor Fromme, Friedrich-Carl, che si stava avvicinando sotto il cielo metallico di quella mattina alla stazione distrutta.7 La tettoia e l’ambiziosa cupola di vetro erano state frantumate; anche i binari, e i treni che vi sostavano, erano stati colpiti. Gli incendi bruciavano ancora; il calore continuava a irradiarsi dal cemento delle piattaforme. Qui, al livello superiore, c’era qualche corpo smembrato e coperto di sangue. Ed era chiaro che gli oscuri tunnel e i cunicoli più sotto dovessero essersi trasformati in una fossa comune. Alcuni corpi erano schiacciati, vittime del panico, altri erano stati sventrati. E c’erano altri ancora che erano riusciti a raggiungere i rifugi antiaerei a prova di bomba della stazione e poi erano rimasti semplicemente senz’aria, asfissiati nel punto in cui si erano seduti. Alcuni erano cotti, con la temperatura dell’ambiente che era salita inesorabilmente per via dei roghi. Se la speranza di Friedrich-Carl era dare un qualsiasi tipo di aiuto, è difficile immaginare da dove abbia iniziato; il primo raccapricciante bilancio ammontava a 3000 morti. Tutte quelle persone, molte delle quali erano profughi delle campagne, erano perite dentro e intorno a un tunnel. Ma tali cifre, in ogni caso, si potevano comprendere solo a un livello di estremo distacco; cosa importava quantificare a coloro che fissavano i passaggi sotterranei stipati di cadaveri?
Friedrich-Carl tornò a riferire la situazione al dottor Fromme, che ancora stava lavorando all’ospedale. Ora in giro si vedevano anche più soldati; dopo l’anarchia dell’incendio, l’urgenza di ristabilire l’ordine era forte e in effetti, in ospedale, i militari si stavano dimostrando un valido aiuto in termini pratici per il dottore, fornendo camionette in modo che i pazienti potessero essere trasferiti in cliniche e nosocomi più piccoli, che non avevano subito danni, nei sobborghi e nelle campagne dei dintorni di Dresda. Ciò era cruciale; senza una fornitura affidabile di corrente e d’acqua – e con scorte limitate di antidolorifici, medicazioni e strumenti sterili – c’era un limite a ciò che il dottor Fromme e la sua vasta équipe potevano fare. Oltretutto alcuni edifici annessi, tra cui la lavanderia, la clinica odontoiatrica e il reparto di ginecologia, erano stati irrimediabilmente compromessi dalle bombe. Non appena gli fu possibile, il dottor Fromme chiese un passaggio a una camionetta militare per andare a ispezionare le strutture di diverse altre piccole cliniche dell’area circostante; era anche l’opportunità per dare al personale di quelle strutture un’idea delle difficoltà che si sarebbe trovato ad affrontare: la carne viva attorno alle ustioni scolorite, l’inalazione di fumo, i frequenti danni agli occhi.
Altrove, in città, fu come se fossero tornati dei fantasmi. Il prozio di Margot Hille, Hermann, era su un treno che stava per arrivare alla stazione centrale pochi istanti prima del sopraggiungere della prima ondata di bombardieri. Ora, nella fase incerta che precedeva le prime luci dell’alba, Hermann si presentò alla porta di suo fratello, il nonno di Margot. Indossava un abito che non era il suo e scarpe sconosciute. Spiegò che «il treno in fiamme era stato condotto fuori dalla stazione».8 I dettagli scarseggiavano, a parte che negli incendi della notte Hermann aveva perso i vestiti, ma in qualche maniera aveva trovato il modo di procurarsene altri. Il fratello, che una volta uscito dalla cantina in cui aveva trovato riparo aveva verificato che la sua abitazione bombardata non era stata saccheggiata, lo fece subito entrare; di fronte a quella visione surreale, difficile immaginare che potesse rifiutarsi.
Tuttavia, a migliaia di altri toccò l’esatto contrario di quella consolazione. La zia di Margot Hille, che abitava vicino all’Altstadt, aveva perso i contatti con la figlia nel panico di quella notte; ora, in un crepuscolo che avrebbe dovuto esser giorno, si aggirava tra la cenere fumante e i mattoni e le pietre roventi sparsi qua e là di quei passaggi e vicoli in rovina, ancora incandescenti, sperando in qualche modo di imbattersi nella ragazza. Margot si unì alle reiterate, nevrotiche sortite della donna, e fu allora che la giovane comprese l’autentico e profondo impatto che l’attacco aveva avuto sulla città: i cadaveri carbonizzati che giacevano per le strade liquefatte; gli arti disseminati intorno; le teste mozzate che rotolavano sulla terra infuocata. Ogni parte era, quantomeno, riconoscibile: non che desse un qualche conforto, ma la zia di Margot Hille non riuscì a scorgere alcuna traccia della figlia, né viva né morta. L’aria non era ferma; c’erano i riverberi degli schianti, degli scricchiolii e dei crolli delle strutture, sia vicini sia in lontananza, e il moto incessante di altri sopravvissuti venuti o a reclamare i propri morti o ad aiutare coloro che per miracolo erano ancora vivi.
Dopo aver attraversato il fiume, Mischka Danos aveva portato la ragazza «Karl May» dalla sua famiglia, in un quartiere verdeggiante, una grande casa che ancora aveva le finestre intatte. I genitori della ragazza condussero Danos, esausto, su per le scale e lo invitarono a stendersi su uno dei letti. Il giovane non dormì molto, e al risveglio sentì il bisogno di tornare alle rovine. Nei pressi delle macerie di Johannstadt si trovò di fronte a quella che a prima vista credette essere una forma di allucinazione: sulla strada distrutta incedeva una giraffa.9
Sulla Terrazza di Brühl, Victor Klemperer, con l’occhio e la tempia che ancora gli dolevano per il colpo della scheggia, fissava come ipnotizzato i roghi nell’Altstadt alle sue spalle; prima del minimo accenno d’alba, ebbe l’impressione di un’alta torre che ardeva di un rosso cupo come tutto lo «scenario» circostante.10 Era intontito, a parte riflettere, di tanto in tanto, che dopo essere sopravvissuto a quella notte sarebbe stata una iattura incappare in qualche incidente. Dov’era sua moglie? Ormai erano separati da ore. Arrancò un altro po’ verso l’Elba, fino a un boschetto al fondo della terrazza che affacciava sul fiume e lì, seduta su una valigia, c’era Eva. Si abbracciarono appassionatamente, consci di aver perso tutto ciò che possedevano di materiale e di quanto la cosa non avesse ormai nessuna importanza.
Klemperer era ansioso di sapere dove fosse stata la donna. Nella sanguinosa confusione del secondo raid era stata trascinata giù in un rifugio degli «ariani». Se n’era andata in fretta, e poi, una volta di nuovo nella strada densa di fumo, si era messa a cercare il marito. La forza degli incendi e il rischio dei detriti che cadevano – anche lei era stata colpita alla testa da alcuni frammenti staccatisi da un edificio in fiamme – l’avevano costretta a cercare riparo di nuovo, stavolta sotto l’Albertinum, che ospitava le autorità cittadine. Eva era rimasta sottoterra per un po’, ma di nuovo non ce l’aveva fatta a restare. Fumatrice accanita e convinta, una volta riemersa nella foschia di quella notte dal caldo innaturale, di fronte all’Accademia di belle arti che bruciava, aveva provato un desiderio spasmodico di tabacco. Con sé aveva un pacchetto di sigarette, ma niente fiammiferi. Vedendo qualcosa che luccicava contro il nero del terreno, si era chinata in avanti per usarlo come accendino. L’oggetto scintillante era un cadavere che stava bruciando.
Dopo di che, si era mossa vagamente in direzione dell’aria più fresca che arrivava dal fiume; e ora era di nuovo insieme a suo marito. In quella semioscurità, lo sfinimento era così profondo che i due non sembravano nemmeno in grado di ritrarsi in preda all’orrore da visioni che in circostanze normali avrebbero fatto sobbalzare chiunque. Il professor Klemperer avrebbe ricordato di essere passato accanto a un uomo che aveva la parte superiore della testa scoperchiata, il cranio era «una scodella rosso cupo». C’era anche un braccio mozzato, con una mano perfetta, pallida, intatta, come modellata con la cera. L’anziana coppia scorse poi, nell’incerta luce grigia del mattino, una sorta di corteo che si andava formando sulla strada che costeggiava l’Elba. Gente del posto e profughi erano diventati indistinguibili. C’era qualcuno con dei carretti carichi di varie masserizie, altri che trasportavano scatole. La stella gialla di Klemperer era stata staccata da un bel pezzo. La coppia incontrò un altro occupante della Judenhaus, Herr Eisenmann. Aveva accanto il suo bambino piccolo, ma disse ai Klemperer che non riusciva a trovare nessun altro dei suoi cari. Gli occhi gli si riempirono di lacrime mentre indicava il figlioletto e diceva ai Klemperer che di lì a poco gli avrebbe chiesto di far colazione, e lui non sapeva cosa dargli.
Al di là del fiume, sugli ampi prati dell’Elba, le persone – chi in soprabito, chi ancora in pigiama con sopra delle coperte – camminavano avanti e indietro, fissando gli incendi che divampavano riversando ancor più fumo nel cielo annerito. Erano sgomenti per il modo in cui così tante torri e guglie a loro familiari erano state amputate: la cattedrale cattolica di pietra scura, ora implosa; il maestoso teatro d’opera, sfigurato e raso al suolo al punto da essere irriconoscibile; il palazzo Zwinger in stile barocco, che aveva visto annientata gran parte della sua raffinatezza. Tra i cittadini sfollati c’erano adolescenti della Gioventù hitleriana e della Lega delle ragazze tedesche, precipitatisi lì dalle periferie relativamente illese, ansiosi di dare aiuto ovunque potessero. Naturalmente c’erano soldati e vigili del fuoco e medici che tentavano di organizzare quella gente che a malapena si rendeva conto di essere ancora viva, ma non c’era traccia di alti gerarchi nazisti. In particolare, il Gauleiter di Sassonia non fece alcuna apparizione per chiamare a raccolta la sua gente. Martin Mutschmann si fece notare per la sua prolungata assenza mentre i funzionari pubblici di Dresda tentavano di instillare una qualche logica in quel mondo ormai in frantumi. Né, ovviamente, era presente quando pochissime ore dopo risuonò, in lontananza, l’eco di un ennesimo ronzio.