XXIV

LA MUSICA DEI MORTI

La paura era così onnipresente e continua e ne era preda un così gran numero di persone che quando, poche settimane dopo, giunse un nuovo attacco, fu accolto con un senso fatalistico di inerzia. Ai primi di marzo i cieli di Dresda si riempirono d’argento: un altro raid americano sugli scali di smistamento ferroviario. Avvenne a metà mattina e, come sempre nei bombardamenti cosiddetti di precisione, un certo numero di bombe cadde altrove, in particolare sul quartier generale della polizia, già danneggiato, e sui prati che costeggiavano il birrificio Waldschlössen, già bruciato. La reazione della gente, a tal punto traumatizzata, fu quasi inesistente; più tardi, sarebbe rimasto solo fugacemente nella memoria collettiva.

Anche nel terrore generale, tuttavia, nulla riuscì a frenare gli sforzi incessanti della città per ripristinare una parvenza di normalità. Vicino a dove un tempo si ergeva il teatro centrale, e dove solo pochi giorni prima alcuni carretti avevano depositato corpi orribilmente bruciati e raggrinziti, fu aperto, in uno dei pochi edifici abbastanza stabili da permettere di lavorarci, un ufficio temporaneo per i dispersi dove sarebbe stato possibile scambiarsi notizie e messaggi. Persone che, rimaste separate dai familiari, vivevano in rifugi temporanei, disorientate in mezzo alla polvere, potevano lasciare per i loro cari informazioni su dove si trovavano.

Un altro motivo di paura, specie fra quanti erano stati alloggiati nel verde delle campagne, erano le voci secondo cui nei boschi erano stati avvistati soldati sovietici. Nelle foreste intorno a Dresda gli sfollati vedevano soldati tedeschi sempre più giovani – adolescenti con la faccia piena di brufoli – stranamente apatici di fronte a quella vendetta in rapido avvicinamento dall’Est. A tutto ciò si aggiungeva l’angoscia generata dal pugno di ferro delle autorità: i cartelli che dichiaravano che i saccheggiatori sarebbero stati fucilati.

I profughi della classe media che avevano vissuto per tutta la vita nel comfort dei quartieri residenziali si trovarono ora a doversi trascinare attraverso terreni agricoli gelati. Marielein Erler, che in campagna, a una cinquantina di chilometri dalla città, s’era messa in contatto con altri cittadini di Dresda benestanti come lei, era insolitamente allegra, anche se ancora non sapeva dove si trovasse il marito Georg. Il suo progetto era di andare a nord, a Lüneburg, da sua figlia; nel chiedere passaggi a giovani soldati tedeschi aveva dato prova di intraprendenza e coraggio. In seguito avrebbe ricordato come sentisse acutamente i venti sferzanti che soffiavano sulla pianura e come bastasse una ciotola di gulasch caldo a procurarle un semplice ma profondo piacere.1 Nel recarsi a Lüneburg passò per Schöningen, dove vivevano i suoi genitori; vi giunse chiedendo passaggi, percorrendo alcuni tratti a piedi e altri in treno: nonostante tutti i tentativi degli Alleati di distruggerla, la rete ferroviaria tedesca, per quanto imprevedibile nel servizio, copriva ancora l’intero paese. Per i genitori di Frau Erler, che avevano saputo del destino di Dresda, la visita della figlia fu un grande sollievo. E la felicità della famiglia divenne completa quando, dopo qualche giorno di riposo in quell’ambiente tanto accogliente, Marielein sentì bussare alla porta: era Georg. Ritrovarsi tutti insieme fu una gioia inenarrabile.2

Il marito le raccontò l’incubo di trovarsi separato da lei, gli innumerevoli corpi che aveva visto tra le fiamme e il suo girovagare, via Lipsia, finché amici comuni gli avevano detto dove trovare la moglie. Ancora più incredibile è che Marielein, durante tutto il suo calvario, fosse riuscita a continuare a scrivere alla madre e alla figlia, cui aveva inviato lettere e cartoline dal sanatorio di Kreischa e biglietti dalle città toccate lungo il percorso. Il servizio postale della Sassonia era ancora, come i treni, efficiente.

Fra gli abitanti di Dresda di classe media che si muovevano per il paese c’erano anche Victor ed Eva Klemperer; insieme a tanti altri, girovagavano in cerca di alloggi e razioni accettabili da una città all’altra e persino in piccoli villaggi di tutta la Germania: a scandire la loro vita erano le attese a tarda notte di un treno e le soste nelle locande di piccoli paesi, dove a volte erano accolti con generosità e ricevevano cibo e un posto dove dormire, altre con rabbiosa ostilità.

La piccola Gisela Reichelt e sua madre rimasero, sia pure a malincuore, nella loro fattoria; la situazione non era confortevole, e fu lì che Frau Reichelt diede alla luce il fratellino di Gisela. Ma emersero complicazioni, e solo pochi mesi dopo il bambino morì. Era un periodo spaventoso per trovarsi incinta.

Ad aprile, in una delle maestose ville della città che si ergevano sulle colline affacciate sull’Elba fu temporaneamente alloggiato un gruppo di giovani soldati: nessuno aveva più di diciassette anni. A loro si unirono altri ragazzini della Gioventù hitleriana. Nel sottotetto un adolescente aveva trovato un trenino elettrico di eccezionale bellezza prodotto da un’azienda che fabbricava modellini di locomotive di fattura straordinaria. Liberato uno spazio in una stanza al pianoterra, i ragazzi vi montarono in fretta i binari. Da un momento all’altro si trovarono completamente assorbiti dal movimento del trenino: in ginocchio o sdraiati sul pavimento, si davano i turni ai comandi per guidare le locomotive in miniatura.3 Era, nello stesso tempo, una regressione a un’infanzia che era stata bruscamente interrotta e un modo per esercitare una sorta di controllo almeno su un mondo immaginario, sapendo che presto sarebbero stati mandati all’Est ad affrontare un nemico abbrutito.

L’abisso fra gli abitanti di Dresda e coloro che detenevano il potere sulle loro vite non faceva che allargarsi. A metà aprile il Gauleiter Mutschmann informò i suoi concittadini, dalla prima pagina del giornale locale, che Dresda era ormai una fortezza. «Non siamo disposti a consegnarci a un nemico crudele senza combattere e senza onore» proclamò.4 Ogni indizio di disfattismo o anche semplicemente la diffusione di false voci da parte di qualsiasi cittadino sarebbero stati duramente puniti: chiunque desse l’impressione di «aiutare il nemico» con questi mezzi doveva essere «spietatamente eliminato». (Tali eliminazioni erano già in corso in altre città, come Monaco di Baviera, dove le autorità stavano impiccando coloro che consideravano disfattisti.) Si trattava di una battaglia «per la libertà» e «per la vita», proseguiva l’articolo; lo stesso Führer aveva incaricato un generale di concentrarsi sulla difesa di Dresda, e Mutschmann sarebbe rimasto all’interno della «fortezza» per assicurarsi che in quei giorni difficili il partito continuasse a sostenere la popolazione. In parte tonante minaccia, in parte esortazione, il proclama avrebbe potuto essere di stimolo a qualche fedelissimo del partito. Ma un altro articolo uscito lo stesso giorno sempre sul quotidiano locale mostrava quanto le autorità avessero perso ogni contatto con la realtà. Affermando nuovamente che tutti i tedeschi erano necessari per assicurare la vittoria, sottolineava come in Gran Bretagna il governo Churchill fosse minacciato dagli attacchi di Aneurin Bevan del Partito laburista, e fosse in corso una «lotta di potere estremamente pericolosa». Ma i cittadini di Dresda avevano di fronte una minaccia più immediata e terrificante.

Il giorno precedente, mentre l’Armata Rossa continuava la sua corsa verso Berlino, gli Alleati avevano occupato Arnhem e una divisione britannica era entrata nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, che i tedeschi avevano abbandonato. Lì, fra circa 60.000 prigionieri alla fame e gravemente malati, scoprirono anche un numero enorme di cadaveri, di cui i nazisti non avevano fatto in tempo a liberarsi: circa 13.000 corpi. Il graduale svelamento di quella psicosi nazionale, la scoperta alleata delle dimensioni dell’Olocausto in Germania e in Europa, non poteva facilmente giungere agli abitanti di città che, come Dresda, rimanevano sotto il controllo nazista, ma c’era comunque qualcuno che sospettava. Mischka Danos, per esempio, avrebbe ricordato come nel 1944 avesse stretto amicizia con una giovane infermiera che, in ferie in quei giorni, lavorava in un istituto a una certa distanza da Dresda, di cui tuttavia non voleva fare il nome; la donna appariva pallida e tormentata, e Danos si era chiesto se non fosse stata costretta a collaborare a qualcuno di quegli esperimenti medici su cavie umane di cui aveva sentito parlare.5

Per gli artisti della città, compresi quelli condannati dal regime come «degenerati», i giorni e le settimane successivi alla distruzione furono un periodo di riflessioni intense e creative. Il calvario di Otto Griebel e della sua famiglia era stato simile a quello patito da tanti altri; inizialmente riunitisi, i Griebel si erano ritrovati di nuovo separati nel caos che aveva fatto seguito al bombardamento: a Otto e ad alcuni dei suoi figli era stato assegnato un alloggio, a sua moglie e agli altri figli un altro. Infine, grazie a informazioni ottenute in maniera formale e informale, erano riusciti a ritrovarsi, scoprendo di essere tutti sani e salvi, ed erano stati sfollati in un piccolo paese di nome Eschdorf. Griebel aveva perso la maggior parte delle sue opere, quelle che non erano già cadute vittime dell’ossessione nazista per l’arte degenerata. Più tardi avrebbe ricordato come tutto ciò fosse avvenuto intorno al suo cinquantesimo compleanno, una data così importante che, in circostanze più normali, era «consuetudine» che venisse segnata per un artista da mostre celebrative e onori pubblici. «Tutto questo mi è stato risparmiato» avrebbe scritto.6 Non pensava di poter «ricominciare»; era convinto che la spinta per farlo fosse «affondata con la città di Dresda che amavo così tanto e dove nello stesso istante il mio lavoro e tutto ciò che amavo s’era disintegrato». Eppure le settimane immediatamente successive – e un panorama politico ribaltato – avrebbero portato a un nuovo e inatteso sviluppo della sua attività artistica.

Allo stesso modo, un altro artista della città stava rimuginando sul suo lavoro ridotto in cenere. Ma in Wilhelm Rudolph, cinquantasei anni, un ex espressionista tornato fin dagli anni Venti ad alcune delle tradizioni dell’arte popolare sassone per produrre disegni di ambienti naturali ed elaborati intagli, il bombardamento aveva fatto scattare una spinta compulsiva verso un’attività creativa nuova. Come tanti altri, anch’egli aveva avuto difficoltà con la censura del regime nazista in ambito artistico; benché non fosse stato messo completamente al bando, doveva muoversi con cautela. Ora divenne una delle figure più in vista tra quelle che si aggiravano fra le rovine della città. Arrampicandosi nella polvere fra le erbacce in rapida crescita che si stavano facendo largo nelle crepe delle pavimentazioni in frantumi, sentì la necessità di catturare tutto ciò su carta, con penna d’oca e inchiostro nero. Così, s’installò davanti alle macerie della stazione ferroviaria, riproducendo meticolosamente le strade costeggiate da edifici deserti le cui finestre, orbite ormai vuote, facevano entrare la luce del sole e proiettavano ombre mai viste prima.

E lo faceva sfidando il sospetto ufficiale: i cartelli che proibivano il saccheggio erano ben visibili, e la polizia lo teneva attentamente d’occhio. Inoltre pendeva sopra di lui la tacita accusa di morbosità: la fotografia era un conto, assicurava che le atrocità venissero catturate per la storia. Ma era un posto per fare arte, quello? Rudolph era incurante quanto gli uomini e le donne anziani che giravano quotidianamente per le macerie alla ricerca di persone care. Il suo lavoro aveva qualcosa di sobrio e imperturbabile.

«Non c’era tempo per il lutto» avrebbe detto più tardi. «Nel 1945 nessuno piangeva; si trattava di sopravvivere. Io disegnavo, disegnavo ossessivamente. Era ancora tutto lì, una cosa inimmaginabile. Dresda era ancora in piedi. Il fuoco aveva lasciato l’arenaria degli edifici in piedi come uno scheletro. Solo più tardi tutto crollò o fu fatto saltare.»7

Quanto alla musica, in una città famosa soprattutto in questo campo non passarono che poche settimane perché al cataclisma si iniziasse lentamente a consacrare un memoriale: un requiem. Il maestro del coro della Kreuzkirche, Rudolf Mauersberger, era sopravvissuto alla notte del bombardamento rifugiandosi con i suoi giovani coristi non lontano dal desolato ossario del parco del Grande Giardino. Nei giorni seguenti il ricordo degli 11 ragazzi del coro e dei 3 sacerdoti morti durante l’incursione continuò a ossessionarlo. Nell’esodo generale, anch’egli fu mandato in campagna, dove iniziò a pensare a quella che sarebbe divenuta l’opera più importante della sua vita. Wie liegt die Stadt so wüst (Come giace desolata questa città) sarebbe divenuto l’introduzione al requiem dedicato a Dresda.8 «Come mai la città, che era così popolosa, è ora così deserta?» recita il testo. «Come mai le pietre del santuario sono sparse?» Queste domande dovevano essere rivolte, con perplessità, al cielo: «Abbiamo perduto i nostri cuori, e i nostri occhi sono divenuti oscuri … Signore, guarda le mie sofferenze, o Signore, guarda le mie sofferenze!». Voltando le spalle alla moda dell’atonalità prevalente all’epoca, Mauersberger intrecciò commoventi echi di antichi inni tedeschi con i profondi rintocchi delle campane della Kreuzkirche, una sorta di risonante ronzio baritonale del coro per indicare l’avvicinarsi dei bombardieri e intense percussioni a simboleggiare il fuoco: «Ahimè, sono nato per vedere la distruzione del mio popolo!». L’iconografia era apocalittica: cavalli verdastri, angeli nel cielo, la terra che trema e grandine infuocata che s’abbatte dall’alto.

Mentre Dresda continuava a vivere il suo incubo febbrile, il regime nazista iniziò finalmente a crollare: il 30 aprile 1945, nel suo bunker a Berlino, Hitler rivolse la pistola contro se stesso. Ma la guerra non era ancora finita; il successore scelto dal Führer, l’ammiraglio Karl Dönitz, capiva che la resa era necessaria, ma, per come vedeva le cose, solo a ovest. Per lui e per quanto restava del regime hitleriano, a est del paese era imperativo continuare a combattere e resistere all’avanzata delle forze sovietiche. Altrimenti milioni di soldati tedeschi sarebbero stati catturati e mandati in Siberia, e le donne e i bambini rimasti in patria sarebbero stati in balia di uomini che essi consideravano barbari. In Slesia e Pomerania c’erano state ondate di omicidi-suicidi, e giovani genitori terrorizzati, prima di togliersi la vita, avevano preferito annegare o avvelenare i propri figli piuttosto che vederli cadere in mano all’Armata Rossa.

A Dresda, dove la paura di ulteriori raid con bombe incendiarie, cui si univa l’eco dalle lontane colline degli spettrali boati della battaglia, rendeva ogni notte un supplizio, la popolazione venne informata delle intenzioni del Gauleiter. Quando la notizia della morte di Hitler (le cui precise circostanze furono accuratamente omesse) divenne ufficiale, Martin Mutschmann parve schierarsi senza riserve con il nuovo governo Dönitz. Benché gli americani fossero arrivati a Lipsia, non c’era alcuna possibilità che avanzassero ulteriormente in Sassonia e raggiungessero Dresda prima dell’Armata Rossa. Quindi, per Mutschmann, i cittadini avrebbero dovuto prepararsi a opporre agli invasori sovietici una resistenza all’ultimo sangue: il campo di battaglia sarebbe stato la città stessa, o almeno le sue zone ancora transitabili. Sui tetti anneriti dal fuoco si sarebbero dovuti appostare, strada per strada, dei cecchini, e su tutti gli edifici pubblici usciti relativamente intatti dai bombardamenti avrebbe dovuto continuare a sventolare la svastica. Ma, nel momento stesso in cui venivano impartite queste feroci direttive, i movimenti sempre più caotici dell’esercito tedesco, molte truppe del quale furono mandate a sud verso la Boemia nel vano sforzo di bloccare l’Armata Rossa, raccontarono ai cittadini di Dresda un’altra storia. Martin Mutschmann credeva davvero che la popolazione di quella sola città potesse prevalere sui potenti uomini di Stalin? O che potesse arrendersi agli americani, ma non ai sovietici? Difficile immaginare che si illudesse a tal punto.

Il 7 maggio Wilhelm Rudolph cercò di ignorare il rombo dei veicoli delle truppe, i soldati rimasti obbedienti alla disciplina e, in altri angoli, i disertori che abbandonavano le armi. «L’artiglieria russa stava già sparando sulla città; era pericoloso rimanere fra le macerie» avrebbe ricordato in seguito. «Fra le rovine, poi, c’erano postazioni difensive che non si vedevano; Dresda doveva essere difesa. Potevano colpirti come una lepre.»9 Nonostante ciò, continuò ossessivamente a disegnare. Lo stesso 7 maggio Martin Mutschmann, dimostrando quanto falso fosse il suo furioso fondamentalismo nazista, fuggì silenziosamente dalla città. Assicuratosi un mezzo di trasporto, si diresse all’Erzgebirge, un centinaio di chilometri a sudovest, dove aveva intenzione di nascondersi in casa di un amico. Mentre l’Armata Rossa stava prendendo prigionieri a sud e a est della città migliaia di soldati tedeschi, Dresda rimase del tutto indifesa.

Margot Hille e sua madre avevano lasciato i tunnel del birrificio per tornare nel loro appartamento, rimasto in gran parte intatto, nella zona sudoccidentale della città. Testimoni sia dei raid sia delle loro macabre conseguenze, la loro vita non sarebbe mai tornata a una vera normalità, ma quando l’8 maggio, Giornata della Vittoria, i sovietici varcarono la Meraviglia Blu, Margot, che aveva allora diciassette anni, dovette assistere ad altri esempi della spietatezza della guerra. Ai soldati dell’Armata Rossa entrati a Dresda in trionfo era stato a quanto pare ordinato, pena l’esecuzione immediata, di astenersi da furti e aggressioni, ma la minaccia, a quanto pare, non servì a granché come deterrente. Circolarono quasi subito voci agghiaccianti su aggressioni sessuali talmente violente da lasciare lesioni permanenti. Un gruppo di soldati sovietici era stato alloggiato in una villa vicino alla casa delle Hille. Lì di fronte vivevano due amiche di Margot, apprendiste al birrificio Felsenkeller. Esse attirarono l’attenzione dei soldati che, avrebbe ricordato la ragazza, iniziarono a «entrare e uscire» dai loro appartamenti e «festeggiare» con loro. «Quello che seguì, non ho bisogno di raccontarlo.»10

Né lo avrebbe voluto. Dopo aver ripetutamente violentato le due ragazze, i soldati sovietici iniziarono a reclamare altre donne e sembrava solo una questione di tempo prima che arrivassero a cercarne nel condominio delle Hille. Così la madre di Margot architettò in fretta e furia un piano per proteggere la figlia. Sul retro del palazzo c’era un’officina, Frau Hille ottenne di potervi accedere e si mise a spostare i macchinari che vi si trovavano per creare nascondigli per la figlia e le altre ragazze del palazzo. Quando arrivarono i sovietici, Margot e le sue vicine di casa si rifugiarono in quei recessi umidi e oleosi e attesero, senza osare respirare, mentre gli uomini chiedevano che venissero portate da loro. Le adolescenti, distese nel buio sotto lamiere di metallo arrugginite, udirono aspre urla e ordini in un tedesco più che incerto. Finché i soldati, persa la pazienza, passarono al condominio accanto. Più tardi Margot avrebbe saputo che una giovane, per scappare, si era calata dalla finestra della sua camera da letto al primo piano. In un palazzo, mentre i soldati sovietici facevano irruzione in un appartamento dopo l’altro in cerca di nuove prede, un’altra collega di Margot saltò da una finestra del terzo piano. Doveva avere vicino il suo angelo custode, avrebbe osservato Margot, perché atterrò su un prato e riuscì a fuggire con solo qualche costola rotta.11

In quei primi giorni immediatamente successivi alla Giornata della Vittoria i sovietici consolidarono in fretta il loro controllo sugli uffici pubblici di Dresda e furono altrettanto veloci nell’emanare comunicati riguardanti il benessere della popolazione; assicurarono, fra le altre cose, che nella città in macerie stavano giungendo nuovi rifornimenti di patate e farina. Mentre gli abitanti di Dresda iniziarono a poter mangiare un po’ meglio, era già in corso la rapida riorganizzazione di tribunali, scuole, università, trasmissioni radiofoniche, cinema, burocrazia, negozi, caffè, ristoranti, fabbriche e laboratori di precisione. I «fagiani dorati» e gli altri funzionari del partito nazista furono arrestati e imprigionati. Alcuni affrontarono la deportazione nei campi di lavoro in Russia, altri preferirono il veleno. Al loro posto vennero nominati cittadini entusiasti del nuovo regime. Fra loro c’era Elsa Frölich, la contabile della fabbrica di sigarette che, simpatizzante comunista, era rimasta irremovibile, anche se necessariamente in silenzio, nella sua opposizione al nazismo. L’8 maggio lei e un’amica, Erna Fleischer-Gute, si presentarono negli uffici improvvisati messi in piedi in piazza Taschenberg dai funzionari sovietici che stavano riformando l’organizzazione della città. Frölich fu accolta calorosamente e uno dei primi compiti che le venne assegnato fu di sovrintendere al ritorno in città dei prigionieri dei campi di concentramento.12

Per Victor Klemperer e la moglie Eva, che dopo il bombardamento non avevano fatto che viaggiare avanti e indietro per il paese assistendo a ovest all’arrivo dei soldati americani e alla generosità un po’ sprezzante che, nei piccoli paesi, dimostravano verso i civili tedeschi, a loro volta stupefatti e incantati dalla calorosità dei soldati neri, il ritorno nella loro vecchia casa ebbe il sapore di un miracolo.13 Tornare a vivere una parvenza di sicurezza dopo tutti quegli anni in preda al terrore, non sentire più il peso dell’oppressione, fu straordinario, anche se a volte si affacciava l’angosciosa paura che la fortuna potesse di nuovo rapidamente mutare.

Nel caos generale c’erano simboli di una confusione più profonda: in quei giorni, scrisse Klemperer, nessuno a Dresda sapeva mai esattamente che ore fossero. Il motivo era che Radio Berlino, che dava l’ora, era in un fuso orario; Brema, occupata dai britannici che s’attenevano al GMT, in un altro; e Dresda seguiva l’ora di Mosca. Ma del cambiamento in corso c’erano anche altri segni. Klemperer sentì parlare di espropri da parte dei sovietici: le attrezzature delle fabbriche di strumenti di precisione vennero caricate su vagoni ferroviari e portate a Est, e persino gli esperti che avevano progettato quelle meraviglie si trovarono in breve in viaggio in direzione di Mosca. Per Klemperer, tuttavia, a qualsiasi dubbio sull’egualitarismo forzato del nuovo regime faceva da contrappeso la speranza che l’università di Dresda non venisse soltanto riaperta, ma, per il bisogno di Mosca di eccellenza intellettuale, fosse portata a un livello più alto. Il suo timore che le nuove forme di coercizione potessero generare un’ulteriore ondata di resistenza nazista era bilanciato dal piacere misto a stupore nel vedersi improvvisamente trattato, da coloro che in precedenza l’avevano evitato, con maggiore indulgenza.

Nel frattempo le forze sovietiche scoprirono in pochi giorni dove si trovava il Gauleiter e lo arrestarono. Molti suoi colleghi e amici avevano preferito uccidersi piuttosto che cadere nelle mani dell’Armata Rossa. Mutschmann decise invece di protestare la sua innocenza, ma, se credeva di non avere commesso reati di cui dovesse rispondere, i sovietici la pensavano diversamente. Fu portato in treno a Mosca, dove venne interrogato e imprigionato nella Lubjanka. La decisione sulla sua sorte dovette essere ben ponderata: fu condannato a morte soltanto nel 1947, quando a Norimberga il punto impensabile cui le atrocità naziste erano giunte era ormai venuto alla luce ed era stato giudicato. A differenza di Mutschmann, tuttavia, il suo ex sindaco Hans Nieland, fuggito dalla città poco dopo il bombardamento, ricevette un trattamento più clemente. Dopo quattro anni di internamento in strutture britanniche nell’Ovest della Germania, fu giudicato solo «marginalmente coinvolto» nei crimini del Reich. Nel 1950 era già un uomo libero, e poco dopo divenne un banchiere. Morì nel 1976 a settantacinque anni.14

Nella primavera e nell’estate del 1945 le silenziose e grigie rovine dell’Altstadt, dal fiume al Grande Giardino, erano per i cittadini di Dresda una visione inquietante. Nelle notti temporalesche in cui quegli scheletrici edifici, alla luce dei fulmini e sotto la pioggia sferzante che sibilava furiosamente nella polvere, sembravano ancora più tetri, molti evitavano di passarvi. Si diffusero voci su ciò che poteva accadere dopo il tramonto in quelle zone desolate: storie di personaggi malefici che, in agguato dietro spezzoni di muri, aspettavano i passanti per aggredirli. I vecchi, per sentirsi più sicuri, percorrevano quei quartieri tenendosi sottobraccio. Tuttavia, se è possibile dire che una città abbia un suo spirito, gli anni successivi avrebbero visto Dresda iniziare, sia pure con titubanza, a rigenerare e rinnovare il proprio, specie tramite l’arte e la musica. E mentre il bestiame veniva condotto attraverso il deserto di pietra costituito dalle rovine del Neumarkt, il senso che la città aveva di se stessa quale luogo di alta cultura iniziò a risvegliarsi. Nel frattempo, i dibattiti che su basi etiche mettevano in discussione la sua feroce distruzione iniziarono, specie in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, ad acquisire in alcuni ambienti forza e asprezza nuove, e a imporre la visione della città quale tesoro brutalmente saccheggiato.