XXV

MARCE INDIETRO

Se la distruzione di Dresda fu un crimine, chi ne fu colpevole? Per cominciare, lo shock fu, si direbbe, troppo profondo per consentire indagini ben ponderate. Il celebre scrittore di Dresda Erich Kästner, il cui romanzo best-seller del 1928 Emilio e i detective aveva stregato milioni di bambini, fu tra coloro che nei mesi successivi al cataclisma tornarono in città. Egli percorse in preda all’orrore lunghi canyon di massi e mattoni accatastati a casaccio, aperti verso un cielo ampio e divenuto estraneo, cercando, senza riuscirvi, di individuare nell’inquietante deserto luoghi cui era sentimentalmente legato. Più tardi avrebbe amaramente riflettuto su quanto fosse ormai vano cercare di attribuire una colpa per quell’atrocità.

Nato nel 1899, il padre sellaio e la madre parrucchiera (occupazioni antiche e moderne a un tempo che, cosa interessante, sopravvissero al volgere del secolo) avevano messo su casa sull’altra riva del fiume, nei pressi della stazione di Neustadt. La prima infanzia di Kästner, precedente al trasferimento a Berlino, fu piena di esplorazioni nelle grandiose vie nei dintorni della Kreuzkirche, sovrastate dalla cupola dell’Accademia di belle arti e ravvivate dalle variopinte bancarelle di fiori che fiancheggiavano l’Altmarkt. Quel giorno, tornando a Dresda, Kästner cercò di ritrovare la sua vecchia scuola, ma era scomparsa. Attraversò la grigia prateria di detriti che era stata il Neumarkt e alzò lo sguardo verso gli spezzoni di muri superstiti che erano stati la Frauenkirche, dove una volta da scolaro aveva cantato.

Nel periodo nazista aveva corso non pochi pericoli; nei primi anni Trenta s’era implacabilmente opposto al nascente nazionalsocialismo, giungendo a definire Goebbels un «piccolo diavolo zoppo»,1 e tuttavia all’ascesa di Hitler al potere aveva scelto di non mettersi in salvo emigrando. Nel 1933 i suoi romanzi per adulti, in uno dei quali, Fabian, aveva descritto equivoche scene sessuali nella Berlino di Weimar, erano stati fra i primi a venire bruciati in pubblico. Messo al bando dal regime nazista, s’era ridotto a scrivere sceneggiature sotto uno pseudonimo. Avendo assistito al bombardamento di Monaco, dove viveva, con i raid aerei aveva una certa familiarità, e tuttavia il fatto che la sua amata città natale fosse stata ridotta in cenere lo sconvolse profondamente. Alcuni anni dopo avrebbe scritto:

Dresda era una città meravigliosa … Storia, arte e natura volteggiavano sopra la città e la valle … come un accordo incantato dalla propria armonia. … Potete credermi. E dovreste credermi! Nessuno di voi, anche se vostro padre fosse così ricco, può andarci con il treno per vedere se ho ragione. La città di Dresda, infatti, non esiste più. … La seconda guerra mondiale l’ha spazzata via in una sola notte e con un solo gesto.2

Le grandi potenze, osservò Kästner, se ne attribuivano a vicenda la colpa, ma a suo avviso un simile «discutere» era terribilmente vacuo. Non avrebbe riportato Dresda o la sua bellezza in vita.

Neanche fra i cittadini che avevano vissuto quella notte infernale sembravano circolare desideri di vendetta o accuse, almeno non inizialmente. Per Marielein Erler che, ricongiuntasi con il marito e la figlia a Lüneburg, dettò il suo resoconto del bombardamento seduta su un letto, la vista danneggiata forse per sempre dal suo calvario nel fuoco, la responsabilità era probabilmente di «quel pazzo» di Hitler.3 Ma pensava che dovesse essere presa in considerazione anche la volontà di «una potenza superiore». Al contrario, per Gisela Reichelt, ripensandoci anni dopo dal suo punto di vista di bambina di dieci anni e di tutti gli altri bambini della città, molti dei quali erano rimasti uccisi o orribilmente feriti, nel bombardamento c’era qualcosa di puramente nichilista: era stato sostanzialmente «insensato».4

Nei superstiti quella ferita psichica inflitta alla città non si sarebbe mai completamente rimarginata, ma nell’immediato dopoguerra non c’era tempo per porsi domande. I sovietici, fra le pozzanghere formate sui pavimenti dei loro uffici dalla pioggia che entrava dai tetti sfondati, stavano consolidando la loro presa sull’infrastruttura pubblica di Dresda, ma guardavano con paranoia alle intenzioni degli americani, dei francesi e dei britannici insediati nella Germania occidentale. In una nazione divisa in due ideologicamente ma non ancora politicamente non c’erano certezze da nessuna parte, e nelle settimane e nei mesi successivi alla resa gli abitanti di Dresda dovettero affrontare le più terribili carenze di generi alimentari e sempre più frequenti interruzioni della corrente elettrica. Persino il pane stava cominciando a scarseggiare. Tutto ciò non lasciava né tempo né energia per manifestazioni pubbliche di lutto o per affrontare le dimensioni morali del bombardamento.

In Gran Bretagna, però, l’argomento della campagna di bombardamenti stava già suscitando in alcuni ambienti un diffuso disagio, non tanto in figure appassionate use a non moderare i termini come il vescovo di Chichester George Bell, che aveva sempre esortato a distinguere fra gli «assassini nazisti» e il «popolo tedesco», ma, dopo la Giornata della Vittoria, anche in personalità di spicco di Whitehall. Se i successi britannici nella battaglia d’Inghilterra, nella guerra nel deserto, nelle campagne in Italia, nel D-Day e nell’avanzata attraverso l’Europa furono salutati con orgoglio ed entusiasmo, in questo affresco nazionale di nobiltà di spirito e ardimento le tempeste di fuoco non avrebbero trovato alcun posto. Profondamente sensibile a tutto ciò era il maresciallo d’armata aerea Arthur Harris, che rimase estremamente colpito dal fatto che nel discorso della vittoria Churchill non avesse esplicitamente menzionato gli sforzi degli equipaggi del Bomber Command e che per la campagna il personale di terra non avrebbe ricevuto alcuna speciale medaglia. Egli aveva inviato in prima persona un orgoglioso messaggio ai suoi uomini, elogiando gli sforzi di tutti, dal personale di terra agli aviatori che avevano «combattuto nel buio della notte da soli, lontani da tutti, per interminabili chilometri, nel più feroce fuoco di sbarramento … In ogni buio minuto di quei lunghi chilometri era in agguato una minaccia … In quella solitudine in azione sta la prova finale, l’ultimo stadio della fermezza e determinazione umane».5

Per Harris era insopportabile che un simile strabiliante coraggio fosse trattato da Whitehall con tanta noncuranza. Il personale del Bomber Command avrebbe ricevuto solo la Defence Medal, una medaglia standard che, doveva scrivere in seguito Harris nelle sue memorie, fu oggetto tra i membri del personale di terra e gli ingegneri di commenti molto «amari». Come egli aggiunse in tono acido (e snob): «Ogni impiegato, macellaio o fornaio nelle retrovie degli eserciti oltremare ha ricevuto una Campaign Medal».6 Quanto al senso etico del bombardamento: «Di attaccare Dresda mi fu chiesto» avrebbe scritto. «Era considerato un obiettivo di primaria importanza per l’offensiva sul fronte orientale.» Tuttavia, proseguì, «so che la distruzione di una città così grande e splendida in quella fase avanzata della guerra è stata considerata non necessaria anche da un buon numero di persone che riconoscono come i nostri attacchi precedenti fossero pienamente giustificati quanto qualsiasi altra operazione di guerra». Harris si vedeva come uno che parlava chiaro di fronte a un establishment ipocrita e impressionabile. Ma, detto tutto ciò, anch’egli sembrò desideroso di addossare la responsabilità ad altri. «Qui dirò solo che l’attacco a Dresda era all’epoca considerato una necessità militare da persone molto più importanti di me.»7

Harris fu nominato Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine del Bagno, onorificenza di cui venne insignito da Buckingham Palace, mentre rifiutò sprezzantemente tutte quelle che gli sarebbero state offerte da Whitehall. Se i suoi equipaggi non potevano ricevere un riconoscimento speciale, non ne voleva nemmeno lui. Egli espresse inoltre il desiderio di tornare in breve nella colonia dove aveva prestato servizio da giovane, la Rhodesia, come governatore. Ma la posizione non era vacante. Negli anni e mesi successivi il silenzio dei suoi superiori si fece più marcato e Churchill, nella sua storia della guerra, omise di citare il bombardamento di Dresda. In quel memo del 28 marzo del primo ministro sui bombardamenti di zona c’era un senso di vergogna, il timore che i britannici fossero divenuti, come ammonì una volta, delle «bestie». A questo si univa una certa ansia per il futuro della Germania; vedere festeggiare e onorare una distruzione del genere con speciali medaglie non sarebbe piaciuto a un popolo sconfitto.

Anche gli americani, benché avessero una certa considerazione per Harris e gli avessero conferito la loro Distinguished Service Medal, sembravano nel migliore dei casi ambivalenti sulla questione. E Harris, dal canto suo, mantenne una corrispondenza molto amichevole con personalità come il generale statunitense Ira Eaker.8 (In seguito, nelle sue memorie, avrebbe osservato che gli americani avevano «usato contro il Giappone esattamente lo stesso metodo di devastare con bombe incendiarie grandi città industriali utilizzato in Europa dal Bomber Command». E questo prima dell’arma ancora più terrificante che avrebbero presto impiegato.) Ma c’erano alcuni autorevolissimi americani che sembravano ansiosi di distinguere gli incendi scatenati in Giappone dallo specifico inferno sull’Elba. Uno era Telford Taylor, il quale aveva trascorso parte della guerra nel cuore più profondo e segreto delle operazioni alleate: a Bletchley Park, nel Buckinghamshire, come decifratore di codici. Taylor era laureato in giurisprudenza e dopo il conflitto sarebbe stato, da tenente colonnello, fra i procuratori al processo di Norimberga. Nel febbraio 1945 «era a conoscenza di alcune discussioni sull’intenzione di attaccare Dresda». L’aspetto morale della questione l’aveva tormentato da allora:

Quale fosse lo scopo di Sir Arthur Harris non lo so, ma ai dubbiosi i britannici dissero che a Dresda o nelle vicinanze c’era una divisione corazzata tedesca che bloccava l’avanzata sovietica da est e che i russi volevano un attacco aereo che aprisse loro la strada.

I decrittatori britannici, però, avevano prodotto informazioni secondo le quali la divisione corazzata tedesca non si trovava a Dresda, bensì in Boemia, molti chilometri più a sud. Sulla base di questo e altri rapporti un alto ufficiale dell’aeronautica che faceva parte del gruppo dell’intelligence britannica giunse alla conclusione che attaccando Dresda non si sarebbe raggiunto alcuno scopo dal punto di vista militare. E in questo senso informò il quartier generale di Sir Arthur, ma senza risultato.

L’ufficiale dell’aeronautica britannico passò quindi le sue informazioni allo staff del generale Carl Spaatz, comandante dell’aeronautica degli Stati Uniti in Gran Bretagna. Il generale Spaatz concluse che il raid su Dresda doveva essere annullato, ma Sir Arthur fu irremovibile, e il generale Spaatz non era disposto a farsi da parte se gli inglesi insistevano per andare avanti. Così le due forze aeree si unirono nell’attacco, con le conseguenze tanto criticate.9

Il resoconto di Taylor lasciava intendere che in Harris, pronto a lanciare un attacco pur sapendo che era privo di fondamento dal punto di vista militare, vi fosse qualcosa di oscuro e freddamente calcolato. Ma Taylor ignorava sia gli obiettivi nell’ambito dei trasporti sia l’elemento del coinvolgimento sovietico.

Poi c’erano coloro che, dopo aver servito nel cuore dell’USAAF, erano sbrigativi in tema di etica. Sulle incursioni su Dresda e sugli attacchi dei bombardieri americani contro un obiettivo già sostanzialmente raso al suolo fu intervistato molti anni dopo il maggior generale Robert Landry, già direttore delle operazioni allo SHAEF. Quando gli fu chiesto se non si fosse trattato di «attacchi terroristici», lo negò senza esitazione. «Non credo che ci si sia mai domandati se sarebbe o meno rimasto ucciso qualche civile … perché i tedeschi installavano molte fabbriche nel cuore delle città, e chi poteva decidere se lì c’era una fabbrica o no?» rispose. «Nessuno avrebbe riportato indietro un carico di quelle dannate bombe per gettarle nel Mare del Nord quando si stava combattendo contro gente come i tedeschi.»10

Altrove il crescente dibattito fu influenzato dalla questione del carattere tedesco: molti in Gran Bretagna erano convinti che, come nazione, la Germania fosse particolarmente incline al militarismo e alla brutalità nella conquista, che fosse stato un impulso specificamente teutonico a precipitare recentemente il mondo in due conflitti devastanti. E alcuni temevano che fosse estremamente probabile che quella nazione tornasse a comportarsi allo stesso modo. Il giovane scienziato Freeman Dyson, che aveva prestato servizio nel Bomber Command e aveva finito per guardare con disgusto ai raid, specie a quelli lanciati sul finire della guerra, si ritrovò a discutere dei bombardamenti su Dresda con la moglie «colta e intelligente» di un alto ufficiale dell’aeronautica. Dyson le chiese se riteneva giusto che gli Alleati avessero ucciso un gran numero di donne e bambini tedeschi. «Oh sì,» rispose lei «è una buona cosa soprattutto uccidere i bambini. Non sto pensando a questa guerra, ma alla prossima, fra vent’anni. La prossima volta che i tedeschi scateneranno una guerra e dovremo combatterli, i soldati saranno quei bambini.»11 In quell’impulso allo sterminio c’era qualcosa di straordinariamente primitivo che avrebbe ossessionato Dyson per decenni. Lo stesso sentimento dovette confermare i peggiori sospetti del Bombing Restriction Committee, che pochi mesi dopo la Giornata della Vittoria pubblicò un opuscolo in cui, echeggiando la propaganda di Goebbels, si affermava che a Dresda erano rimaste uccise fra le 200.000 e le 300.000 persone, circa dieci volte la cifra reale.

Sarebbero passati diversi anni prima che il nuovo presidente della Sassonia, Max Seydewitz, decretasse, con la benedizione di Mosca, che il raid era stato un «bombardamento terroristico angloamericano», che britannici e americani s’erano comportati da «brutali guerrafondai», che le rovine di Dresda costituivano uno stimolo per «combattere la guerra dei banditi imperialisti» e «l’influenza del fascismo», e che quell’abominio terroristico doveva essere commemorato ogni anno con il silenzio e il blocco di tutto il traffico.12 Con la Germania divisa, e americani e sovietici intenti a cercare di scoprire le reciproche intenzioni attraverso la cortina di ferro, come la chiamò Churchill, il bombardamento di Dresda non divenne oggetto di ponderate ricerche, ma di una propaganda sempre più stridula e velenosa al servizio di una varietà di cattive cause politiche.

In Inghilterra, non molto dopo la guerra, Sir Arthur Harris fu invitato a tenere una conferenza nella città mercantile di Honiton, nel Devon, vicina a dove era andato a scuola. Il discorso che pronunciò, i cui appunti sono ora fra le sue carte, ebbe un tono provocatorio e rivelò compassione per i suoi aviatori ed equipaggi. In particolare rilievo mise il grande sacrificio compiuto da coloro che avevano dovuto volare attraverso l’implacabile fuoco della contraerea e combattere «con la testa» anziché con il corpo.13 Costoro avevano abbreviato la guerra, disse, e salvato in questo modo innumerevoli vite. Su 125.000 aviatori, ne erano morti 55.573: Harris si assicurò che queste statistiche fossero note.

Un momento agrodolce per i veterani superstiti del Bomber Command fu rappresentato, nella cultura popolare d’oltreoceano, dal film di Michael Powell ed Emeric Pressburger Scala al paradiso (1946), dramma metafisico sul pilota di un bombardiere, un poeta di nome Peter Carter, che, subito dopo essersi innamorato via radio di June, una radiotelegrafista americana che l’ha guidato verso l’Inghilterra, si getta dall’aereo in fiamme senza paracadute. Sopravvive grazie a problemi burocratici sorti in Paradiso, atterra su una spiaggia inglese e lì, estasiato, incontra June. A quel punto scende sulla terra un emissario celeste che cerca di convincerlo che il suo tempo è scaduto, anche se Carter protesta che ora è troppo innamorato per lasciare la vita. Il film fu il primo in assoluto ad avere una proiezione di gala su richiesta reale, e a cui assistettero il re e la regina. Nel prologo parlato, che ha inizio nello spazio prima di una zumata sulla terra e infine, da molto in alto, sulla Germania, si cita «un raid di un migliaio di bombardieri», ma la storia prende avvio durante il ritorno da quel raid sopra la Manica immersa nella nebbia. Trattandosi di fantasy, si poteva tranquillamente avvolgere il pilota del bombardiere, interpretato da David Niven, in un’aura di romanticismo quasi assurdo senza turbare il pubblico con sgradevoli domande di carattere morale. Il film parlava anche di redenzione e dell’importanza di dimenticare: finita la guerra, con i morti felici in cielo, chi era rimasto sulla terra doveva ora darsi alla bellezza, dagli appuntamenti amorosi nelle sere d’estate alla poesia e a Shakespeare. Se al pilota del bombardiere destinato a morire fu permesso di vivere, era perché rappresentava un certo tipo di civiltà inglese.

Le questioni morali che gravavano sul raid di Dresda non furono in alcun modo alleviate dalle bombe atomiche che nell’agosto del 1945 gli Stati Uniti, per porre fine alla guerra, lanciarono su Hiroshima e Nagasaki, dove generarono improvvisi e accecanti lampi di luce e le radiazioni lasciarono sui muri ombre permanenti. Quelle armi rivoluzionarono l’ordine mondiale e indicarono per la guerra un futuro che Arthur Harris aveva predetto, un futuro in cui egli stesso non si vedeva sopravvivere. La bomba atomica e le sue discendenti (la tecnologia fu passata a Stalin da spie che consentirono ai sovietici di testare il loro primo ordigno in Kazakistan nel 1949) promettevano la morte su una scala mai immaginata prima; il Peter Carter di David Niven era già antiquato.

Negli anni che seguirono, Hiroshima e Nagasaki contribuirono ad alimentare in Occidente il dibattito su Dresda, non da ultimo perché molti in Gran Bretagna, echeggiando le cifre gonfiate date sia dai nazisti sia dal Bombing Restriction Committee, erano convinti che il numero di quanti erano stati ridotti in cenere nella tempesta di fuoco tedesca superasse il totale dei morti per l’esplosione atomica a Hiroshima. Nonostante la pubblicazione nel 1961 della storia ufficiale in quattro volumi The Strategic Air Offensive Against Germany, 1939-1945, di Sir Charles Webster e Noble Frankland, che esprimeva un giudizio equilibrato sull’efficacia e sui punti deboli delle strategie di Harris, in alcuni ambienti stava mettendo radici l’idea che il Bomber Command avesse fatto qualcosa di terribile e senza equivalenti. Nel 1963 lo storico David Irving, destinato in seguito a divenire una figura al centro di accese polemiche, scrisse Apocalisse a Dresda, in cui avanzava l’ipotesi che il bombardamento avesse fatto 135.000 vittime, se non addirittura 200.000.14 Recensendo il libro per l’«Observer», l’ex politico e diplomatico Harold Nicolson concordò con la sua argomentazione generale e s’avvicinò molto alla tesi secondo cui il bombardamento era stato un crimine di guerra.

«L’opinione pubblica britannica ama convincersi che, se altre nazioni si lasciano andare ad atrocità, noi non ci macchiamo mai di scelleratezze» scrisse Nicolson. «Eppure vi sono poche operazioni di guerra senza causa, senza scopo e brutali come l’attacco a Dresda.» A Nicolson non interessava addossarne a Sir Arthur Harris la responsabilità, che a suo avviso era di uomini più in alto. «È difficile respingere l’impressione» proseguiva «che abbiamo intrapreso quella grande operazione per intimorire i russi con la potenza della RAF.» Come se non bastasse, Nicolson penetrò in un terreno che più tardi sarebbe stato di grande aiuto ai neonazisti: scrisse che, anche rispetto a Hiroshima, il raid di Dresda «fu il più grande olocausto causato dalla guerra».15 Anche se aveva usato quel termine quasi senza pensarci, fu qualcosa di assolutamente privo di tatto e stupidamente provocatorio da scrivere.

In risposta al pezzo di Nicolson, la settimana seguente giunse al quotidiano la lettera di un certo E. Birkin, londinese. Era un sopravvissuto della Shoah:

Io, con molti altri detenuti nei campi di concentramento, mi stavo trascinando per l’Europa di fronte all’avanzata dei russi quando vidi le fiamme di Dresda e le rovine della città. Questo ci fece capire che la fine era vicina. Il morale delle nostre guardie, e dei tedeschi che incontravamo, s’era visibilmente deteriorato, mentre il loro atteggiamento nei nostri confronti, una volta resisi finalmente conto che le promesse di Hitler erano false, era notevolmente migliorato. Inoltre, questo ci diede una nuova speranza e una nuova forza per sopravvivere agli ultimi mesi di guerra. Quella stessa notte, brindammo ai nostri alleati con della zuppa.16

Sempre negli anni Sessanta, l’ex puntatore Miles Tripp stava per riunirsi con gli ex membri del suo equipaggio. Dopo la guerra e la smobilitazione aveva sposato la sua ragazza, Audrey, con la quale aveva passato tante notti a Bury St Edmunds. Divenuto avvocato, aveva scritto nel tempo libero thriller che avevano riscosso un certo successo. Era ben consapevole di come il bombardamento di Dresda fosse divenuto sinonimo di distruzione sconsiderata, ma né lui né i suoi ex compagni lo vedevano così; in termini generali, ritenevano che una guerra del genere non avrebbe mai potuto essere combattuta senza provocare vittime civili: il nazismo era stato un cancro, e non si poteva asportarlo senza danneggiare la carne circostante. In verità, gli aviatori non ricordavano granché di quello specifico raid – ne avevano condotti così tanti! – se non la durata insolitamente lunga del volo. Inoltre, in ogni missione i loro pensieri erano per lo più concentrati sul sopravvivere; a centinaia di metri di distanza, in cielo, era difficile per loro immaginare le persone a terra mentre cadevano le bombe.

C’era un curioso paradosso: tutti ricordavano il terrore e i brutti sogni e molti avevano sviluppato dopo la guerra patologie – ulcere, problemi di stomaco, fusione di alcune vertebre, tremolio alle mani – che attribuivano direttamente al violento stress delle missioni di bombardamento. Eppure, nello stesso tempo, tutti i membri dell’equipaggio di Tripp dichiaravano senza esitazione che quello era stato un periodo straordinario della loro vita, e non l’avrebbero scambiato con nessun altro. Ciascuno di loro sapeva bene che cosa il mondo pensasse di Dresda; tutto ciò che potevano dire in risposta era che il nemico aveva commesso così tante atrocità che l’obiettivo di ogni missione, tale da cancellare tutto il resto, era spazzare via i nazisti, perché ogni frammento del cancro nazista che non fosse stato asportato avrebbe potuto ricrescere, portando a infinite atrocità in futuro. I compagni di Tripp avevano avuto percorsi di vita ben diversi, da impiegato in consiglio comunale ad antiquario, ma tutti erano orgogliosi del servizio che avevano prestato.

Verso la fine degli anni Sessanta, tuttavia, si diffuse sempre di più in Gran Bretagna, specie negli ambienti artistici, l’idea che il bombardamento di Dresda fosse stato un episodio sinistro e vergognoso. Su Churchill, i bombardamenti e Dresda il drammaturgo Rolf Hochhuth scrisse Soldaten. Nekrolog auf Genf (Soldati. Necrologio a Ginevra), messo in scena nel West End di Londra nel 1967.17 Sorprendentemente un giornalista, in un articolo che affrontava l’argomento in termini generali, definì il raid su Dresda «il più grande e rapido massacro della storia», aggiungendo che la bomba atomica su Hiroshima «uccise solo 71.000 persone».18 L’altro elemento che alimentò all’epoca sentimenti contrari al bombardamento fu la palude morale in cui sprofondò la guerra americana in Vietnam; in quegli anni i bombardamenti divennero sempre più sinonimo, per le giovani generazioni, di spietato imperialismo.

Sir Arthur Harris, che nel 1953 Churchill era riuscito infine a convincere ad accettare il titolo di baronetto, fu intervistato nel 1977 da Tony Mason per un progetto interno della RAF. Sir Arthur aveva ottantacinque anni, ma la sua memoria era lucida. Egli sottolineò ancora una volta che non era lui il responsabile della scelta degli obiettivi, e tutto il tempo che era stato al timone del Bomber Command l’aveva passato «sotto una pioggia di direttive». Quanto a Dresda e ad altre città, insistette sul fatto che l’implacabile pressione esercitata dai raid dei suoi bombardieri aveva logorato le forze armate tedesche rendendo necessari uomini per la difesa contraerea, la produzione di nuove armi e la riparazione dei danni. Tornato in Gran Bretagna dal Sudafrica con la famiglia negli anni Cinquanta, Sir Arthur viveva allora fra i salici nel paese di Goring-on-Thames. Non aveva rimpianti, ma nell’occasione di quell’intervista espresse un’amara visione, secondo cui alla fine la guerra «non ha mai portato niente di buono a nessuno».19 Morì quasi novantaduenne nel 1984.

A Dresda, negli anni del dopoguerra, mentre i cittadini si adeguavano alle forti pressioni di un nuovo mondo, una nuova politica, una nuova filosofia e nuove oppressioni, si avvertiva un crescente senso dell’importanza della memoria; anzi, le lotte al riguardo si sarebbero fatte aspre. Nello stesso periodo, tuttavia, la città iniziò a riprendersi e rigenerarsi, fino a trovare una nuova estetica che, a differenza di altri ambiti della vita pubblica, non era interamente dominata dal peso schiacciante dell’ideologia sovietica.