Tutt’attorno alla piazza, le persone si tengono sotto braccio formando una lunga catena; indossano cappotti, piumini, cappelli e, per il freddo, i loro respiri divengono spettrali piccole nuvole. È la sera del 13 febbraio. Il sole è da tempo tramontato e il cupo rintocco delle campane nell’oscurità induce al silenzio e alla riflessione. I rintocchi si ripetono a non finire e tutti coloro che guardano il cielo vedono nel buio la medesima cosa: aerei che sorvolano la città. Non ci sono, in realtà, ma i rintocchi senza sosta delle campane evocano un ricordo collettivo. Fra tutta quella gente assiepata nell’Altmarkt, vicino alla Kreuzkirche, vi sono persone che vengono dall’estero, dall’America alla Cina. Ma chi è qui, da qualunque parte venga, sa che cosa è successo. È l’annuale commemorazione del bombardamento.
La catena umana è un’idea nata in parte in risposta agli incessanti tentativi di appropriarsi dell’anniversario compiuti da altri, persone dell’estrema destra che vogliono che i tedeschi vengano visti come martiri di un crimine di guerra. Ci sono estremisti in ogni società, ma gli abitanti di Dresda sanno che la loro città è un santuario delicatissimo e che, se si abbassa la guardia, i santuari possono essere profanati. Sono occorsi molti decenni, ma ora si può davvero dire che Dresda è stata riportata in vita, dal punto di vista estetico come da quello spirituale. Anche se i morti non vengono mai dimenticati.
Ogni anno, lo stesso giorno, hanno luogo anche altri eventi: discorsi di politici davanti al palazzo del consiglio comunale; l’esecuzione nella Kreuzkirche del Dresdner Requiem di Mauersberger (dura un’ora circa, quando viene eseguito la chiesa è strapiena ed è difficile ascoltarlo senza essere sopraffatti dalla commozione); poi, più tardi, alle 21.45, nel momento in cui nel 1945 le sirene si misero a ululare a tutto spiano, ogni campana della città inizia a suonare. È un suono profondamente inquietante: in quei rintocchi che, discordando, si riecheggiano l’un l’altro, e le cui note e tonalità differenti rimbalzano su un così gran numero di muri e vie ricostruiti, c’è come un senso di paura che si accumula, di orrore sempre più vicino. Se, quando le campane suonano, ci si ferma nei pressi della Frauenkirche, si vedranno nella grande piazza antistante folle di persone che, come incatenate al suolo, fissano di nuovo il cielo. Sembra che le campane della città, con il fragore dei loro rintocchi, spingano a fuggire; parlano di un mondo ordinato che viene violentemente abbattuto. Suonano fino alle 22.03, l’istante in cui le bombe iniziarono a cadere. Allora, nell’improvviso silenzio, si accendono candele che vengono collocate sui ciottoli della piazza; a centinaia, in una zona appositamente contrassegnata. Per alcuni questo è un momento per pregare, per sentirsi in comunione con i familiari che quella notte morirono; per altri è uno straordinario squarcio sulla profondità del sentimento che ancora scorre nelle vene della città.
Ma tutto ciò fa sembrare Dresda un luogo macabro, quando in realtà è vero il contrario. La città oggi è straordinariamente serena, viva e allegra. E la cosa curiosa è questa: la ricostruzione dovrebbe avere l’aria di un’imitazione, invece non c’è nulla che non sembri assolutamente autentico, dalle vie ricostruite dell’Altstadt al sorprendente cambiamento di destinazione del castello sul fiume (ora un museo abbagliante nel vero senso della parola, pieno di tesori di porcellana, ornamenti dorati e spade riccamente ingioiellate). Il teatro d’opera è tornato a essere, come nel XIX e all’inizio del XX secolo, famoso in tutto il mondo per la varietà e il carattere innovativo delle sue produzioni. E, ancora una volta, a Dresda gli amanti dell’arte giungono a sciami. Oltre alle opere degli Antichi Maestri a palazzo Zwinger, ora all’Albertinum si può ammirare una splendida collezione di opere del XIX e XX secolo: i paesaggi più coinvolgenti e inquietanti di Caspar David Friedrich e, a un piano di distanza, il crudo rigore delle tele sulla prima guerra mondiale di Otto Dix. Ma a essere onorati sono anche artisti comunisti del dopoguerra, di cui si possono vedere ritratti e studi che, a guardarli ora, mostrano la loro profondità politica oltre che estetica. La sensazione, nel complesso, è che la città sia riuscita a ricucire il tempo, avvicinando il passato al presente e riparando la grande lacerazione prodotta dal nazismo e dalla catastrofe del febbraio 1945.
Giungere a questo punto di riconciliazione non è stato tuttavia facile; i fili intrecciati del dolore, della perdita, della colpa e della responsabilità si possono ritrovare tutti nel paziente e amorevole restauro della Frauenkirche. Fin dal crollo della cupola vi furono a Dresda cittadini che ardevano dal desiderio di vederla risorgere, ma le priorità della RDT erano altre e né la Chiesa luterana né le autorità locali disponevano dei fondi per prendere anche solo in considerazione l’impresa. La cattedrale cattolica adiacente al castello e la Kreuzkirche trovarono sì finanziatori che ne permisero il restauro, ma in entrambi i casi si trattava di lavori relativamente semplici; per riportare in vita l’eccentrica struttura barocca sul Neumarkt, invece, occorrevano una vera e propria genialità ingegneristica e denaro. In un’epoca in cui si dovevano costruire con urgenza case, una simile frivolezza non sarebbe stata tollerata. A un certo punto qualcuno propose che quello che restava dei suoi muri e il cumulo di macerie venissero semplicemente rimossi.
Non lo furono e, per quattro decenni, lo spettrale monumento continuò a simboleggiare il crepuscolo della città. Con il crollo della RDT e dell’URSS, e la successiva riunificazione della Germania, gli atteggiamenti mutarono, anche perché della Frauenkirche iniziò a interessarsi un mondo più vasto. Nel 1992 fu deciso che la chiesa sarebbe stata ricostruita, in ogni particolare, esattamente com’era quando nel 1726 il suo primo architetto, George Bähr, aveva pianificato la sua visione. Si potrebbe supporre che la tecnologia moderna rendesse quella che nel XVIII secolo era stata un’impresa straordinaria un compito relativamente semplice. In realtà, il tentativo di architetti e ingegneri di ricreare il delicatissimo gioco di contrappesi e sostegni che avevano reso possibili la magnifica cupola in pietra e l’intricato interno a gallerie della chiesa divenne presto un intenso esercizio di matematica applicata e geometria. Si dovette tornare ai principi dell’arte muraria; la modellazione al computer fu utile, certo, ma, in ultima istanza, la ricostruzione si basò su ingegno e dedizione umani.
I lavori iniziarono con lo scavo delle macerie per utilizzare il maggior numero possibile di pietre originali; altri blocchi di arenaria furono estratti dalla stessa cava, a pochi chilometri di distanza, utilizzata per l’erezione della chiesa nel XVIII secolo; delle campane una era sopravvissuta, e le altre vennero riprodotte. Fu a quel punto che, nel quadro di un risoluto sforzo di riconciliazione, un’organizzazione benefica britannica, il Dresden Trust, diede il suo meraviglioso contributo.
L’idea era nata in parte a causa di un controverso evento che aveva avuto luogo a Londra nel 1992: lo svelamento nello Strand, una strada di Westminster, di una statua di Sir Arthur Harris eretta grazie a finanziamenti privati. Alla cerimonia aveva presieduto la regina madre, ma alcuni avevano protestato, giudicando una vergogna conferire un simile onore a un uomo che, ai loro occhi, era un criminale di guerra. I toni furono aspri da entrambe le parti (e lo scontro segnò l’inizio di una controversia destinata a durare ancora più a lungo sul Bomber Command e su come i suoi equipaggi dovessero essere ricordati). In parte si trattò di un conflitto fra due culture: a esprimere più energicamente la loro opposizione a quella statua furono infatti giovani di sinistra. Quando, in seguito, la statua di Harris venne spruzzata di vernice da alcuni militanti, questo evento secondario funse da catalizzatore, e il Dresden Trust decise di iniziare a educare le nuove generazioni sui bombardamenti subiti dalla città e più in generale sulla seconda guerra mondiale. Fra le altre, il Trust ebbe un’idea ispirata: un’offerta per ricreare la sfera e la croce d’oro che avevano coronato la cupola della Frauenkirche. Accademici tedeschi e di Manchester s’incontrarono per discutere degli elaborati motivi con cui l’enorme elemento ornamentale doveva essere decorato e delle sue dimensioni. La fabbricazione fu affidata agli argentieri della Grant Macdonald di Londra e, per un caso di serendipità, uno dei maestri artigiani chiamati a lavorare a quel progetto così significativo, Alan Smith, era il figlio di un pilota dei bombardieri che avevano preso parte al raid su Dresda.
Come la struttura dell’edificio, anche quella sfera e quella croce d’oro presentavano una serie di sfide. Occorse una sorta di viaggio nel tempo per rievocare quel capolavoro dell’arte orafa del XVIII secolo: alto oltre 6 metri, includeva in origine elementi noti come Le nubi del Paradiso, Le lacrime di Giacobbe e I raggi della Gloria, ognuno descrittivo degli elaborati motivi presenti sulla base e sulla croce e attorno a esse. Quando il lavoro fu terminato, nel 1999, il risultato fu così bello che si decise di organizzare un tour per farlo vedere in tutta la Gran Bretagna prima di consegnarlo a Dresda. Esso ricevette inoltre un patrocinio e uno dei riconoscimenti più prestigiosi quando fu esposto per la famiglia reale nel castello di Windsor. L’anno seguente, fra grandiose cerimonie, il duca di Kent lo portò in Germania, dove sfera e croce d’oro vennero donate ai cittadini di Dresda. Il dottor Alan Russell, uno degli ispiratori del Dresden Trust, che aveva procurato per quell’opera un gran numero di donazioni, era convinto che essa non avrebbe solo contribuito alla riconciliazione, ma avrebbe anche significato un riconoscimento della responsabilità britannica, un gesto che i britannici stessi avrebbero potuto intendere come un segno di espiazione.
La ricostruzione della Frauenkirche fu portata a termine nel 2005, e la chiesa risultò così perfetta in ogni dettaglio che è divenuta motivo di stupore per i turisti come per i pellegrini. Il pastore Sebastian Feydt ride del fatto che qualcuno trovi l’interno un po’ troppo colorato, i bianchi e gli ori troppo luminosi: è così che appariva in origine. Allo stesso modo, la pallida arenaria dell’esterno contrasta con quanto mostrano le fotografie degli anni Trenta, in cui i muri esterni della chiesa appaiono anneriti dalla fuliggine. Ma di queste differenze s’occuperà il tempo. La pietra si farà più scura e, con il passare dei decenni, i rosa e gli azzurri pallidi dell’interno sbiadiranno naturalmente; allora la Frauenkirche sarà esattamente com’era un tempo.
Ogni lavoro di ricostruzione su una scala così incredibilmente complessa induce ingiustamente a pensare che il risultato non possa essere altro che un elaborato simulacro, che, filosoficamente parlando, la nuova struttura non possa essere la stessa cosa della vecchia, e quindi qualsiasi tentativo di renderla tale è semplicemente un raffinato esercizio di kitsch storico. Il visitatore, tuttavia, vede le cose diversamente: mentre si lascia pervadere dalla ricchezza dell’interno a forma circolare e sale le strette scale a chiocciola che portano, oltre la cupola in pietra, sulla sommità della chiesa, prova un senso di solidità e, nello stesso tempo, di profondo orgoglio che cancella completamente qualsiasi idea di non autenticità. Poi c’è la vista che si gode da lassù. Non tutti gli edifici nelle vie della ricostruita Altstadt sono esattamente identici al loro predecessore, ma la forma dei tetti e l’andamento delle strade riproducono fedelmente quelli degli anni Trenta. Succede di nuovo, così, che lo sguardo venga attirato dal tranquillo e serpeggiante corso dell’Elba e dalle verdeggianti colline che si estendono oltre il fiume.
Prima della ricostruzione della Frauenkirche, un’altra iniziativa aveva cercato di riallacciare un rapporto fra Dresda e la Gran Bretagna. Nel 1959 la città sassone fu gemellata con Coventry, anch’essa in gran parte ricostruita dopo il bombardamento che, nel 1940, ne aveva dato alle fiamme il cuore medievale, distruggendo la cattedrale e fondendo i metalli al punto che le tubazioni, sciolte, scorrevano a rivoli sibilando lungo i muri incandescenti. Ogni volta che si parla di raid aerei, a Dresda la gente, specie gli anziani, cita subito Coventry; anzi, a Dresda vi sono persone che pensano a Coventry molto più della maggior parte degli inglesi.
Negli ultimi anni il dibattito si è più specificamente concentrato sulla domanda se il bombardamento di Dresda sia stato un crimine di guerra. Dall’opera del compianto Winfried G. Sebald, autore della Storia naturale della distruzione, all’esplosiva tesi di La Germania bombardata di Jörg Friedrich (secondo cui i civili tedeschi furono indubbiamente delle vittime), all’opera filosofica di Anthony C. Grayling, Tra le città morte, gli aspetti etici del bombardamento sono stati indagati con un certo vigore, oltre che con tristezza e rabbia. L’espressione «crimine di guerra» ha una precisa accezione legale e il professor Donald Bloxham,1 esaminandola a questo riguardo, è giunto alla conclusione che occorre soppesare le condanne – e le possibili giustificazioni – dei bombardamenti di zona e collocare Dresda nel contesto di altre atrocità commesse da tedeschi e britannici.
Settantacinque anni dopo potremmo anche dire: un «crimine di guerra» implica soprattutto intenzionalità e un processo decisionale razionale, il che apre un’altra possibilità. La guerra crea le proprie nauseabonde derive e, verso la fine di un conflitto durato sei anni, con milioni di morti e tutte le parti sfinite, non è possibile che i bombardamenti delle città non siano stati atti vendicativi o consapevolmente spietati, ma reazioni sempre più disperate intese a far sì che l’altra parte si fermasse? Come non si può presumere che gli individui agiscano sempre con perfetta razionalità, non si può nemmeno affermare che intere organizzazioni agiscano con una volontà sola. Analogamente alla Frauenkirche, la cui cupola e le cui possenti pietre erano (e sono) tenute in posizione dal controbilanciarsi di «forze» geometriche invisibili, la guerra potrebbe essere vista come una rottura del delicato equilibrio della società; ogni conflitto della durata e delle dimensioni della seconda guerra mondiale creerà alla fine ripercussioni che inizieranno a sgretolare dalle fondamenta la salute mentale stessa, rivelando così l’intrinseca fragilità della civiltà. La domanda, dopo tutto il tempo passato da allora, è questa: se nulla può diminuire l’orrore dell’uccisione in una sola notte di 25.000 persone, e se non vi è dubbio che il bombardamento di Dresda sia stato un’atrocità, voluta o meno, c’è qualcosa da guadagnare in termini di conforto o risarcimento dall’insistenza su accuse a termini di legge?
Alcuni tedeschi hanno sempre mostrato al riguardo un senso di equilibrio forse maggiore. Nel Doctor Faustus, il romanzo scritto nel 1947 da Thomas Mann sulla vita di un geniale compositore prima e durante l’ascesa di Hitler, il narratore osserva: «Abbiamo assistito alla distruzione aerea delle nostre nobili città, distruzione che griderebbe vendetta al cielo se a patirla non fossimo noi, che siamo i colpevoli. E siccome siamo proprio noi, il nostro grido si spegne nell’aria, e come la preghiera di re Claudio non può “raggiungere il cielo”».
Allo stesso modo molti oggi a Dresda, prima di emettere giudizi sul bombardamento, si premurano di riconoscere chi diede origine alla guerra. In ogni caso la città stessa ha messo in tanti modi in chiaro che, se ricordare è essenziale, nei bombardamenti del 1945 si deve vedere non un singolo evento, ma un simbolo universale dell’orrore di tutte le guerre. Nella zona nord della città, in cima a una dolce collina che domina le lontane guglie del centro, si erge lo splendido edificio del museo di storia militare. La struttura, un’ex caserma del XIX secolo, è caratterizzata da un’aggiunta o estensione peculiare: una sorta di grande scheggia di forma geometrica, alta diversi piani, che si conficca nella parte anteriore della costruzione. Fu progettata da Daniel Libeskind, e all’ultimo piano di quell’estensione «a scheggia di shrapnel», quasi aperta verso il cielo, si trova un’esposizione permanente dedicata ai bombardamenti: niente di più che una serie di pietre e ciottoli sparsi sul pavimento.
Lasciando il museo e scendendo giù per la collina verso il fiume e l’Altstadt si passa per vivaci strade del XIX secolo piene di studenti, caffè alla moda e piccole botteghe artigiane: un mondo variegato, giovane e rilassato. Dopo la riunificazione Dresda ha ricevuto cospicui fondi federali: i tram sono silenziosi e veloci, musei e gallerie ricchi di grandi opere, nei pressi della Terrazza di Brühl si erge il complesso modernista della nuova sinagoga e il teatro e l’opera lirica attraggono artisti da tutto il mondo. I visitatori abbondano, ma la città ha riscoperto fino in fondo e abbracciato la sua antica anima cosmopolita in molti altri modi. D’estate, vicino al palazzo della Cultura e alla Frauenkirche, le strade risuonano di musica; qui i musicisti di strada sono di qualità ben diversa da quelli che si possono trovare in qualsiasi altra città europea. I violinisti suonano classici del XIX secolo; i tenori improvvisano brani di opere liriche. Nel bagliore ambrato di un caldo tramonto si può provare un’esultanza che dà le vertigini e, quando note squisite si uniscono per qualche istante ai rintocchi metallici delle campane della Hofkirche, la pura profondità del suono trasmette il senso della vita più pienamente di qualunque altra cosa.
Ma Dresda trabocca di vita anche nell’aria gelida di dicembre, quando risplende del kitsch natalizio in cui si riflettono i sogni dell’infanzia. Nei brevi pomeriggi, mentre il cielo diviene di zaffiro e poi ancora più scuro, il vasto spazio dell’Altmarkt si trasforma in un delizioso labirinto di bancarelle di legno dove si vendono vin brulé e oggetti da regalo d’ogni genere, e l’intera piazza è illuminata di rosso e verde intensi. Allo scoccare di ogni ora, nell’oscurità fredda e frizzante, si odono i rintocchi profondi della pesante campana della Kreuzkirche. E, per un istante, ci si ricorda che non si è mai a più di pochi passi dal nostro passato.