Mandy O’Toole fa ritorno dal laboratorio di istologia con un portatile e inizia ad aprire il file di Barrie Lou Rivers mentre io cerco ancora tra i vestiti di Lola Daggette qualcosa che possa essere passato inosservato.
Esamino la giacca a vento, la maglia azzurra a collo alto e i calzoni di velluto a coste marrone che stava lavando nella doccia, un’azione compromettente che era stata l’unico presupposto per giudicarla colpevole di omicidio plurimo premeditato e condannarla a morte. Gran parte del sangue è stato lavato via, restano solo le tracce delle macchie, aree di colore più scuro sulle cosce dei calzoni, e gocce e strisce sui polsini, sulle maniche e sul petto della giacca a vento. Lola avrebbe dovuto avere del sangue anche sotto le suole e i miei pensieri continuano a fare ritorno a questo particolare.
«Ho trovato il file. Il referto di tossicologia e di altri laboratori, i dati dell’autopsia» mi dice Mandy, seduta sulla sedia accanto alla finestra, con il computer sulle ginocchia. «Che cosa cerca, esattamente?»
«Un documento che aveva Jaime Berger, ma che forse a voi manca. Un foglio inserito nel dossier dell’autopsia e dei referti tossicologici» rispondo. «Un modulo di tracciabilità con l’intestazione del GPFW e riguardante i farmaci per l’esecuzione. L’ordine di acquisto è stato evaso, ma i farmaci non sono mai stati usati perché Barrie Lou Rivers è morta prima che potessero giustiziarla. È solo un foglio spaiato che non ha relazione con i dati dell’autopsia, ma che in qualche modo è finito nel dossier.»
«Giusto i miei preferiti» commenta lei. «Dettagli che non dovrebbero trovarsi in mezzo agli altri, ma che ci sono finiti per caso.»
Mentre continuo a osservare i vestiti di Lola Daggette, penso a cosa indossavano le vittime quando sono morte e a quanto sangue c’era, alla incomprensibile fila di impronte di scarpe sulle piastrelle a scacchi bianchi e neri della cucina e sul parquet in legno d’abete: indica che l’assassino ha sparso sangue per tutta la casa; se non lui, qualcun altro, o magari più di uno. Non tutte le tracce di sangue hanno lo stesso aspetto. C’è stata contaminazione da parte di qualcuno che ha inquinato la scena del delitto dopo l’arrivo della polizia oppure Dawn Kincaid aveva dei complici nei suoi odiosi delitti?
Non Lola, però. Se in quelle ore della notte avesse girato per la casa dei Jordan, le sue scarpe si sarebbero sporcate di sangue, eppure non lavava scarpe nella doccia quando era entrata l’assistente sociale volontaria. E non lavava né biancheria né calze. Non l’avevano visitata per accertare la presenza di piccole ferite, per esempio graffi, e non erano suoi il DNA e le impronte trovati sui corpi delle vittime o sulla scena del delitto, ed è tragico che nessuno abbia prestato attenzione a questi particolari. Il DNA era di Dawn Kincaid, ma le impronte non corrispondevano, e ricordo quello che ha detto Kathleen Lawler: di avere abbandonato “i figli”, al plurale. Come se ne avesse avuto più di uno.
«La polvere della vendetta» commenta Mandy e mi fa tornare in mente “Vendetta”.
Un mostro che tutti ritengono inventato da Lola.
«Sì, proprio quello che stavo cercando» rispondo leggendo il modulo sullo schermo, una ricetta per dei farmaci letali, preparati da una farmacista chiamata Roberta Price e consegnati alla prigione, con la firma di Tara Grimm per ricevuta. L’ora è mezzogiorno e la data è quella dell’esecuzione di Barrie Lou Rivers, il 1° marzo di due anni fa.
Sul modulo ci sono caselle segnate con una crocetta e spazi bianchi in cui è annotato che il tiopental sodico e il pancuronio bromuro sono stati conservati nell’ufficio della direttrice e poi passati nella camera delle esecuzioni alle cinque del pomeriggio, ma non sono stati usati.
«Ha qualche importanza? Dalla sua espressione si direbbe che sta pensando a qualcosa.» Mandy non riesce a resistere alla curiosità quando le riconsegno il portatile.
«Per quel che ne sa lei, questi sono gli unici abiti che appartengono a Lola Daggette?» Rispondo alla sua domanda con un’altra domanda, mentre prendo il sacchetto contenente i medicinali esibiti come prove e controllo le etichette dei contenitori di plastica color arancione scuro. «In altre parole, niente scarpe.»
«Se è tutto quello che Colin le ha dato dei reperti ancora conservati al Georgia Bureau of Investigation, allora non c’era altro, ne sono certa» mi risponde.
«Con tutto il sangue che era schizzato sull’assassino, è impossibile credere che le scarpe non fossero macchiate» commento. «Perché lavare nella doccia i vestiti ma non le scarpe?»
«Una volta Colin ha grattato via la gomma da masticare sotto una scarpa dal tacco alto arrivata con un cadavere e ha recuperato un capello e poi il DNA dell’assassino. Ci siamo fatti fare delle T-shirt con la scritta “Colin Dengate, l’uomo del chewing-gum”.»
«Le dispiace andare a chiamarlo? Gli dica che lo aspetto fuori, vorrei fare un giro. Una visita retrospettiva, se possibile.»
Lola Daggette non aveva lavato le scarpe nella doccia perché i vestiti sporchi di sangue che le avevano piazzato nella stanza allo scopo di incriminarla non comprendevano le scarpe. Non aveva ucciso nessuno e non era stata nella casa ottocentesca dei Jordan, né la notte dell’omicidio né in altri momenti. Sospetto che quell’adolescente disturbata non avesse mai avuto alcun motivo di incontrare i ricchi e distinti Clarence e Gloria Jordan, o i loro bellissimi gemelli biondi, e probabilmente non sapeva neppure chi fossero finché non fu interrogata sulla loro uccisione e accusata dell’omicidio.
Sospetto inoltre che Lola non avesse alcuna idea di chi potesse essere il responsabile, una o più persone con un movente più forte della droga o di qualche spicciolo o del brivido di dare la morte: un mostro o un paio di mostri con un grandioso progetto che una ragazza mentalmente ritardata, ospitata in una comunità di recupero, non aveva alcuna ragione di conoscere. E, se l’avesse avuta, sarebbe già stata uccisa, come Kathleen Lawler e Jaime. Sospetto la presenza di un piano ben congegnato che comprendeva la falsa accusa per incastrare Lola, esattamente come si cerca adesso di fare con me, e non credo che questi raggiri siano opera solo di Dawn Kincaid.
Cerco il telefono nella borsa e chiamo Benton mentre esco dall’edificio del laboratorio; mi fermo vicino ad alcuni cespugli di callistemon con boccioli rosso vivo e mi trovo faccia a faccia con un colibrì. Il sole cocente è un sollievo. Sono gelata, mi si sono raffreddate persino le ossa con l’aria condizionata della sala riunioni, in mezzo a corpi del reato così ovvi da dare l’impressione di gridare i loro grotteschi segreti, e io non so chi risponderà alle loro invocazioni.
Posso contare su Colin e, naturalmente, Marino e Lucy mi presteranno attenzione. Ho mandato a entrambi un messaggio in cui chiedevo se il nome Roberta Price dicesse loro qualcosa e li invitavo a cercare tutto quel che è possibile scoprire su Gloria Jordan. C’era ben poco sulla signora Jordan negli articoli che ho letto, alcuni dettagli personali e niente che suggerisca l’esistenza di problemi, ma sono certa che ce n’erano, anche se il momento per fare quelle ricerche non potrebbe essere peggiore.
Se Benton non fosse mio marito, non ho dubbi che non darebbe retta a quella che sembra una storia dell’orrore, una cosa inventata, un racconto sensazionale. Il mio sospetto – un sospetto molto forte – su quanto è accaduto nove anni fa in questo momento non suscita l’interesse dell’FBI o della Sicurezza nazionale, e io capisco perché, ma in ogni caso intendo trovare qualcuno che mi ascolti e che agisca.
«Pare che siano arrivati i tuoi amici di Atlanta» dico a Benton quando risponde al telefono e sento i rumori in sottofondo: voci forti, con lui ci sono parecchie persone.
So di mettere alla prova la sua pazienza, sento crescere l’irritazione.
«Cominciamo adesso. Cosa succede?» Il tono è distratto e teso; mentre risponde, si muove all’interno di una stanza dove tutti parlano insieme.
«Forse tu e i tuoi colleghi potreste cercare una cosa.»
«Che cosa?»
«I registri delle adozioni, e ti chiedo di fare attenzione» rispondo. «So che il caso Jordan non è una priorità in questo momento, ma penso che dovrebbe esserlo.»
«Io faccio sempre attenzione, Kay.» Il tono della voce non è seccato, ma lui lo è.
«Mi serve sapere tutto quello che riguarda Kathleen Lawler e Dawn Kincaid, anche se non era il suo nome alla nascita e non ho idea del nome della prima famiglia che l’ha adottata. Dawn ha girato varie case d’accoglienza e diverse famiglie prima di arrivare in California, presso una coppia che è deceduta di morte naturale. Si presume. Tutto quel che puoi trovare e che l’FBI non abbia già trovato, soprattutto riguardo agli incontri fra Dawn e altre persone. Nel 2001 o 2002 deve avere contattato qualcuno, forse un’agenzia investigativa di qui, quando ha deciso di conoscere l’identità dei suoi genitori biologici. Deve avere fatto la stessa trafila che fanno tutti.»
«Non siamo sicuri che quanto ti ha detto Kathleen Lawler sia vero. Forse sarebbe meglio riparlarne più tardi.»
«Sappiamo che Dawn Kincaid era a Savannah all’inizio del 2002 e dobbiamo parlarne adesso» rispondo mentre ripenso a Kathleen Lawler che, nella sala dei colloqui, mi racconta di essere stata “rinchiusa come un animale” e costretta a “dare via i figli”. Del resto cosa doveva fare, “darli” a un dodicenne, a Jack Fielding?
«Anche questo non è stato dimostrato» dice Benton. Quando ha fretta e non vuole discutere, sostiene sempre il contrario di quello che gli si dice.
«I nuovi test del DNA indicano la sua presenza nella casa dei Jordan nel 2002» rispondo. «Ma dovrai richiedere altre analisi e arrivo al punto: Dawn Kincaid ha fatto tutta quella strada dalla California per incontrare la madre biologica, o aveva anche un altro scopo?»
«So che è importante per te» risponde Benton, e quello che intende dire è che a lui, invece, della presunta visita di Dawn Kincaid a Savannah nel 2002 non importa niente. L’FBI e il governo statunitense, e magari lo stesso presidente, sono preoccupati dei potenziali terroristi.
«Quel che suggerisco è la possibilità che volesse incontrare qualcun altro, oltre alla madre» continuo, senza badare alle sue rimostranze. «Forse c’è qualche documento che nessuno ha pensato di controllare. Ma è una cosa importante. Te lo prometto.»
Continua a girare per la stanza e una voce in sottofondo dice qualcosa a proposito del caffè e Benton risponde “grazie” e poi torna a me: «Cosa stai pensando?».
«Com’è possibile lasciare impronte digitali insanguinate su un manico di coltello e su un contenitore di sapone alla lavanda sulla scena di un plurimo omicidio se non hai niente a che fare con i delitti stessi?»
«E di chi è il DNA di quelle impronte digitali insanguinate?»
«Appartiene sia alle vittime sia a un donatore sconosciuto, un profilo che oggi sappiamo essere quello di Dawn Kincaid. Ma le impronte non sono sue» rispondo. «Il DNA è dei Jordan e di Dawn, si presume. Ma le impronte sono di un’altra persona.»
«Si presume?» ripete.
«Un trasferimento di sangue da qualcuno che aveva le mani insanguinate e ha toccato il coltello e il contenitore, ma non sono le impronte di Dawn Kincaid. Non sono mai state identificate, si presume che siano dovute a contaminazione. Sulla scena c’erano molte persone, giornalisti compresi, che magari pestavano il sangue e toccavano le prove, raccogliendole da terra, e anche poliziotti, tecnici della Scientifica. A quanto pare, la scena del delitto non è stata isolata in modo efficace. Questa è la spiegazione che mi è stata data.»
«È possibile, se le persone che hanno toccato gli oggetti non hanno precedentemente depositato le loro impronte a scopo di esclusione. Ma adesso devo andare, Kay.»
Ignoro l’ultima frase. «Certo, è possibile, soprattutto quando tutti coloro che si occupano del caso sono ansiosi di accettare una simile spiegazione perché hanno trovato Lola Daggette e non cercano nessun altro. Questo sembra il problema generale: trascurare qualche elemento, non porsi domande, non scavare abbastanza a fondo. Il caso è risolto, il colpevole è stato visto mentre lavava gli abiti sporchi di sangue e ha raccontato un mucchio di fandonie che confinano con l’assurdo.»
«Riferitele che la richiamo tra un minuto» dice Benton a qualcun altro.
Vedo Colin uscire dall’edificio. Quando si accorge che sono al telefono, mi fa segno che mi aspetterà sulla Land Rover.
«Tu e i tuoi colleghi agenti cercate di scoprire il possibile su Roberta Price» ripeto a Benton, che non dice nulla. «La farmacista che ha fornito le medicine a Gloria Jordan nove anni fa. Voglio sapere chi è e se è collegata a Dawn Kincaid.»
«Ricorda che se una persona è il farmacista titolare, il suo nome compare su tutti i flaconi dei medicinali venduti dietro presentazione di una ricetta, anche se non è lui a evadere fisicamente l’ordine.»
«Probabilmente no, se l’ordine viene dal medico della prigione o da qualcuno che somministra le iniezioni letali» rispondo. «Se sei il titolare e non hai voluto preparare il tiopental sodico e il pancuronio bromuro, non vuoi il nome sulla bolla di consegna. Non lo vuoi su nessun documento che sia pur lontanamente collegato con un’esecuzione.»
«Non capisco dove vuoi arrivare.»
«Due anni fa, una farmacista di nome Roberta Price, presumibilmente la stessa persona che forniva le medicine alla signora Jordan, ha evaso la richiesta per il tiopental sodico e il pancuronio bromuro che dovevano essere usati per l’iniezione letale a Barrie Lou Rivers, se non fosse misteriosamente morta prima. I farmaci sono stati consegnati al GPFW e sono stati ritirati da Tara Grimm. È difficile immaginare che lei e Roberta Price non si conoscano.»
«Una farmacista della Monck’s Pharmacy. Una piccola farmacia di proprietà di Herbert Monck.» Benton deve avere cercato il nome di Roberta Price mentre mi ascoltava.
«Dove si serviva anche Jaime, ma il nome di Roberta Price non compare sulle boccette di Jaime. Mi chiedo perché» rispondo.
«Perché? Scusa, ma non capisco.» Benton sembra piuttosto assente.
«Solo un’impressione: che quando Jaime è andata nella farmacia del dottor Monck, Roberta Price si sia tenuta lontano» aggiungo, pensando all’uomo in camice da laboratorio che mi ha venduto l’Advil e ha fatto il nome di “Robbi”, la persona che si trovava al banco un momento prima e che era improvvisamente scomparsa. «Non credo che tu possa dirmi che tipo di auto possiede, e se per caso è una Mercedes station wagon nera» dico a Benton.
Dopo una lunga pausa mi risponde: «Nessun’auto registrata a suo nome, almeno non come Roberta Price. Potrebbe averla registrata con un nome diverso. Gloria Jordan acquistava le medicine dalla stessa farmacia?».
«Da una farmacia vicino a casa sua. Una del gruppo commerciale Rexall, che in seguito è passata a un altro gruppo, il CVS.»
«Perciò in un momento da determinare, dopo gli omicidi, forse Roberta Price ha cambiato posto di lavoro ed è finita in una farmacia più piccola, ma assai più vicina al GPFW» mi dice Benton, mentre assicura a qualcun altro che arriva subito. «Non c’è nessuna ragione plausibile di dare la caccia a una farmacista soltanto perché ha fornito medicinali a Gloria Jordan, al GPFW e probabilmente a decine di migliaia di altre persone di questa regione, Kay. Non sto dicendo che non faremo indagini.»
«Una farmacista che non ha problemi a collaborare alle esecuzioni nel carcere femminile, e magari anche a quelle nel carcere maschile. È raro» gli faccio notare. «Molti farmacisti si considerano controllori della terapia farmacologica, con la responsabilità di agire nel migliore interesse del paziente. Questo in genere non comprende la sua uccisione.»
«Ne deduciamo che Roberta Price non ha problemi etici di questo genere o che semplicemente bada solo a fare il proprio lavoro.»
«O che trae piacere dal farlo, specialmente se l’anestesia perde efficacia o qualcos’altro non funziona. C’è stato un caso del genere qui in Georgia non molto tempo fa. Per uccidere il prigioniero condannato c’è voluto un tempo almeno doppio del normale, e ha sofferto. Mi chiedo chi abbia preparato quelle dosi letali.»
«Lo scopriremo» mi promette Benton, ma non lo farà certamente in questo preciso istante.
«E qualcuno deve mettersi in contatto con il laboratorio del DNA a cui si appoggiava Jaime» continuo, senza badare al fatto che Benton non la considera certamente una priorità, mentre mi avvio verso la Land Rover di Colin, con il motore che già brontola. «Ma sospetto che non siano all’altezza delle nuove tecniche veloci usate dai militari.»
Mi riferisco all’AFDIL, il Laboratorio di identificazione genetica delle forze armate, con sede presso la base dell’Aeronautica di Dover, dove la tecnologia del DNA ha raggiunto un nuovo livello di sofisticazione e di precisione a causa delle sfide poste dai nostri caduti in guerra. Che cosa succede quando due gemelli identici finiscono in prima linea e uno di loro viene ucciso o – Dio non voglia – muoiono tutt’e due? I test standard del DNA non sono sufficienti per distinguerli e, se è vero che le loro impronte digitali non sono uguali, può capitare il caso che non esistano più le dita da cui rilevarle.
«Con gli ordigni esplosivi improvvisati e le loro ferite devastanti, che in alcuni casi arrivano all’annientamento quasi completo» aggiungo «identificare un corpo diventa una vera sfida, quando resta solo una spruzzata di sangue contaminato su un frammento di tela o un pezzo di osso bruciacchiato. So che l’AFDIL ha una tecnica in grado di analizzare i fenomeni epigenetici, usando la metilazione e l’acetilazione degli istoni per effettuare confronti del DNA impossibili con altri tipi di analisi.»
«E perché mai dovremmo fare qualcosa del genere in questo caso?»
«Perché i gemelli identici possono iniziare la vita con un DNA identico, ma in quelli più anziani ci sono significative differenze nell’espressione dei geni, riscontrabili con le tecnologie più avanzate. Maggiore è il tempo che i gemelli passano separati tra loro, maggiori diventano queste differenze. Il tuo DNA determina chi sei e alla fine chi sei determina il tuo DNA» gli spiego, mentre apro la portiera dell’auto e vengo colpita dall’aria surriscaldata del ventilatore.