L’uomo che viene ad aprire la porta è sudato; sui suoi enormi bicipiti abbronzati le vene sembrano corde, come se stesse facendo ginnastica quando ci siamo presentati da lui senza essere annunciati.
È visibilmente seccato di trovare due estranei sotto il suo porticato, uno dei due in pantaloni tattici e la polo del Georgia Bureau of Investigation, l’altra in uniforme estiva color kaki. Due visitatori scesi da una vecchia Land Rover parcheggiata all’ombra di una grande quercia, vicino alle siepi di gelsomino che separano la sua proprietà da quella dei vicini.
«Mi spiace disturbarla.» Colin apre il portafogli e gli mostra il distintivo degli anatomopatologi. «Ma ci farebbe un vero piacere se ci potesse dedicare alcuni minuti del suo tempo.»
«Di cosa si tratta?»
«Lei è Gabe Mullery?»
«È successo qualcosa?»
«Non siamo qui in veste ufficiale e non è successo nulla di cui preoccuparsi. La nostra è una visita informale e andremo via se lei ce lo chiederà. Ma le sarei molto grato se mi concedesse un minuto per spiegare di cosa si tratta» continua Colin. «Lei è Gabe Mullery, il proprietario della casa?»
«In persona.» Non accenna a volerci stringere la mano. «La casa è mia. Mia moglie sta bene? È tutto a posto?»
«Per quel che ne so io, sì. Mi dispiace di averla spaventata.»
«Io non mi spavento di niente. Che cosa volete?»
Gabe Mullery è un bell’uomo, con i capelli neri, gli occhi grigi e la mascella robusta. Porta calzoncini corti e una T-shirt bianca con la scritta “Marina Nucleare degli Stati Uniti – Se mi vedi correre, è già troppo tardi”. Blocca l’ingresso con il suo corpo muscoloso; chiaramente non è una persona che si rallegra quando gli estranei gli piombano in casa senza avvertire, qualunque ne sia la ragione. Ma all’uomo che abita nella casa appartenuta ai Jordan non vogliamo dare la possibilità di dire di no. Ho bisogno di vedere il giardino per capire cosa facesse laggiù, il pomeriggio del 5 gennaio, Gloria Jordan.
Non credo che la donna abbia potato gli alberi e voglio sapere perché è tornata in giardino nel cuore della notte. Forse per andare nella vecchia cantina sotterranea, probabilmente perché qualcuno l’aveva costretta a recarsi laggiù a notte fonda, appena prima che lei e i suoi familiari venissero uccisi. Mi sono fatta una ricostruzione personale dell’accaduto, basata sulla mia interpretazione delle prove; le informazioni che Lucy mi ha inviato per e-mail mentre raggiungevamo la casa rafforzano la mia conclusione che la signora Jordan non era una vittima innocente, e questo per dirlo con un eufemismo.
Sospetto che la notte del 5 gennaio abbia drogato il liquore del marito sciogliendovi il clonazepam, per assicurarsi che dormisse di un sonno profondo. Poi, verso le undici, è scesa al pianterreno e ha disinserito l’allarme, lasciando la casa e la famiglia in balia di un’intrusione che certo, nelle sue previsioni, non doveva finire in quel modo. Ma quel che forse aveva in mente lei non corrispondeva alla realtà e soprattutto era un’idiozia, non molto diverso da altri piani concepiti da persone scontente che vogliono lasciare il coniuge e vengono indotte a credere di avere il diritto di prendere quello che pensano spetti loro.
Probabilmente la signora Jordan non prevedeva che potesse succedere qualcosa di male ai figli, e certo non a lei stessa, e magari neppure al marito, che secondo me era arrivata a trovare insopportabile, se non addirittura a odiare. Forse era decisa a lasciarlo, ma probabilmente quel che voleva era una fonte segreta di denaro per sé, e non necessariamente la morte del marito. Un piano molto semplice, una banale effrazione in una notte di gennaio, dopo una giornata che aveva visto una successione di temporali e di venti forti e gelidi. Lucy mi ha riferito com’era il tempo, quel giorno. Una persona non decide di lavorare in giardino con un tempo del genere, oltre al fatto che non c’è alcuna prova che la signora Jordan abbia potato un solo rametto o un solo rampicante, il pomeriggio che precedette la sua morte.
Che cosa faceva accanto ai muri in rovina e all’avvallamento nel terreno che, nelle fotografie, mi parevano i resti di una vecchia cantina sotterranea, appartenente a un secolo passato? Forse cercava di battere in astuzia la sua complice o le sue complici, e qui l’aspetto più cupo e ironico dell’intera situazione è che non sarebbe sopravvissuta neppure se avesse mantenuto gli accordi. Non aveva riconosciuto il diavolo che aveva accolto come amica e di cui era giunta a fidarsi, e doveva avere pensato che le sarebbe stato perdonato tutto se la fortuna in oro che, secondo me, aveva promesso di dividere fosse risultata introvabile perché lei aveva deciso di tenerla per sé e l’aveva nascosta.
«Senta, non potrei biasimarla se non volesse permetterci di seccarla ancora con questa storia» dice Colin, sotto il sole che batte tra le alte colonne bianche del porticato, dal quale si vede l’antico cimitero che risale alla Rivoluzione americana. Le folate di vento caldo portano fino a noi il profumo di erba appena tagliata.
«Non sarà per quel maledetto delitto» brontola Gabe Mullery. «Voi e i giornalisti, e i peggiori di tutti sono i turisti. Gente che suona il campanello e vuole fare il giro dei locali.»
«Non siamo turisti e non ci interessa quel tipo di visita.» Colin mi presenta e aggiunge che tra un paio di giorni devo tornare a Boston e che vorrei dare un’occhiata al giardino sul retro.
«Non voglio sembrare maleducato, ma a che diavolo le serve?» chiede Mullery. Dietro di lui, attraverso la porta aperta, vedo la scala di abete e il pianerottolo nell’atrio dove è stato trovato il corpo di Brenda Jordan.
«Ha tutti i diritti di essere maleducato» gli rispondo «e non è obbligato a lasciarmi guardare.»
«È una zona di mia moglie, che l’ha rifatta da cima a fondo. C’è il suo studio, laggiù. Perciò, qualunque cosa lei cerchi, probabilmente non esiste più. Non ne capisco l’utilità.»
«Se non ha niente in contrario, darei lo stesso una rapida occhiata» rispondo. «Stavo riesaminando alcune informazioni...»
«Sul delitto.» Sbuffa per l’esasperazione. «Sapevo che era un errore comprare questa casa e adesso, con l’esecuzione di quella donna, che per di più è fissata proprio il maledetto giorno di Halloween, ci sarà la fila dei ficcanaso. Come se potessimo rimanere qui a sopportarlo. Sprangherei questo maledetto posto e farei venire la Guardia nazionale, se solo potessi, e me ne andrei alle Hawaii finché non fosse tutto finito, non so se mi spiego. D’accordo.»
Si sposta per lasciarci passare.
«Tutta questa conversazione è ridicola» continua, con la voce irritata. «Soprattutto fatta qui fuori, al caldo e dove tutti ci guardano. Non avrei dovuto comprare questa maledetta casa. Gesù Cristo. Non avrei dovuto dare retta a mia moglie. Le ho detto che saremmo finiti nei circuiti del turismo locale e che non era una buona idea, ma è lei che sta qui per la maggior parte del tempo. Io sono quasi sempre in viaggio, e lei deve vivere dove le piace, è giusto così. Sapete, mi dispiace che qui sia morta della gente, ma i morti sono morti e quello che odio sono le persone che violano la nostra privacy.»
«Capisco perfettamente» gli assicura Colin.
Entriamo nel grande atrio di una casa che mi pare familiare come se ci fossi già stata. Immagino Gloria Jordan sulle scale, a piedi nudi e con la camicia da notte a fiori azzurri, diretta in cucina, dove aspettò che arrivassero le sue complici e che il piano entrasse in azione. O forse era in qualche altra parte della casa quando il vetro della porta fu infranto e una mano si infilò ad aprire la serratura dall’interno, girando la chiave che era nella toppa e non avrebbe dovuto trovarsi lì. Non so dove fosse Gloria quando il marito venne ucciso, ma non certo a letto. Non era là quando fu pugnalata ventisette volte e le venne tagliata la gola, in un eccesso di violenza omicida, che io associo all’ira e alla cupidigia di uccidere. Probabilmente l’aggressione era avvenuta nell’atrio dove lei, a piedi nudi, aveva calpestato il proprio sangue e quello della figlia.
«Forse avrete capito che non sono di qui» dice Mullery. Io, in un primo momento, avevo pensato che fosse inglese, ma adesso mi sembra australiano. «Sydney, Londra e poi North Carolina per specializzarmi in medicina iperbarica alla Duke. Sono finito a Savannah parecchio tempo dopo i delitti e la storia di questa casa non aveva molto significato per me, altrimenti, sicuro come l’oro, non sarei mai venuto a vederla quando l’hanno messa in vendita qualche anno fa. Ma siamo venuti a fare una visita alla casa e per Robbi è stato amore a prima vista.»
“Non era quel matrimonio idilliaco che sembrava essere” mi ha scritto Lucy per e-mail, e ha allegato le informazioni da lei trovate, che tracciano il ritratto di una donna infelice con un passato autodistruttivo, che sposò Clarence Jordan nel 1997 e immediatamente mise al mondo i gemelli, un maschio e una femmina di nome Josh e Brenda. A coloro che la conoscevano, deve essere sembrata una storia tipo Cenerentola: all’età di vent’anni era stata assunta dal dottor Jordan come segretaria del suo studio, e a quanto pare fu così che si conobbero. Forse lui pensava di riuscire a farle mettere la testa a posto, e per qualche tempo Gloria parve essersi stabilizzata, rispetto alla sua vita precedente: un’esistenza caotica e piena di guai, passata spacciando assegni falsi e sfuggendo alle agenzie di recupero crediti, ubriacandosi in pubblico e traslocando continuamente da uno squallido appartamento a un altro.
«Kings Bay?» Colin pensa che Gabe Mullery sia in forza presso la sede della Flotta atlantica dove sono stanziati i sottomarini Trident II armati di bombe nucleari, a meno di duecento chilometri da Savannah.
«Ufficiale medico subacqueo nella riserva» spiega. «Ma lavoro all’ospedale regionale. Medicina d’urgenza.»
Un altro medico in quella casa, penso, e mi auguro che sia più felice di Clarence Jordan, il quale voleva tenere sotto controllo la moglie e cercava di farlo con discrezione, probabilmente affidandosi alla sua nota amicizia con il presidente dell’agenzia di stampa che all’epoca possedeva vari giornali, stazioni televisive e radiofoniche locali, una persona che il dottor Jordan frequentava presso i comitati di assistenza e le fondazioni benefiche e che era in grado di fermare le notizie che rischiavano di arrivare alla stampa.
I giornali non avevano fatto parola del ripetersi di trasgressioni da parte della signora Jordan, una serie di episodi tristi e umilianti iniziata nel gennaio 2001 quando venne arrestata per furto in un negozio perché aveva nascosto sotto i vestiti un abito costoso e non aveva tolto la targhetta dell’allarme. Forse un grido d’aiuto per richiamare l’attenzione del marito, ma forse qualcosa di più maligno, ho pensato leggendo la documentazione di Lucy.
La signora Jordan sembrava comportarsi in modo da punire un marito che la trascurava e che nutriva rigide aspettative sul ruolo della moglie e sul comportamento che doveva tenere; lei rispondeva demolendo il suo orgoglio, la sua immagine, i suoi standard impossibilmente alti. Neppure due mesi dopo l’episodio del taccheggio al centro commerciale Oglethorpe, finì con l’auto contro un albero e fu accusata di guida in stato di ebbrezza; quattro mesi più tardi, in luglio, telefonò alla polizia e – sotto l’effetto dell’alcol e in toni bellicosi – denunciò che la casa era stata svaligiata. Le passarono un investigatore e nella deposizione lei dichiarò che la cameriera aveva rubato una collezione di monete d’oro che valeva almeno duecentomila dollari e che era nascosta in soffitta, dietro l’isolamento del tetto. La cameriera non venne indagata e l’accusa venne archiviata quando il dottor Jordan informò la polizia di avere da poco nascosto l’oro in un altro posto, riferendo che si trattava di un investimento risalente a vari anni prima. Era al sicuro all’interno della casa e non era sparito nulla.
E dov’era finito quell’oro tra il mese di luglio e il 6 gennaio? Suppongo che il dottor Jordan potrebbe averlo venduto, anche se per tutto il 2001 il prezzo dell’oro era ai minimi assoluti ed era quotato a meno di trecento dollari l’oncia. Così commentava Lucy, e anche a me pare strano che Jordan non aspettasse che la quotazione risalisse, soprattutto se aveva quell’oro da parecchio tempo. Non c’è alcuna indicazione che avesse bisogno di denaro. La sua dichiarazione del 2001 indicava guadagni e redditi da investimento per un ammontare superiore al milione di dollari. Qualunque cosa sia successa all’oro, pare chiaro che si sia dileguato come gli assassini. Non c’è alcun riferimento a beni rubati e i rapporti degli investigatori indicano che i gioielli e l’argenteria non erano stati toccati.
Senza dubbio non fu Gloria Jordan ad allontanarsi con quella piccola fortuna in oro, magari dopo che era stata lei a nasconderlo l’ultima volta, probabilmente il pomeriggio prima di essere uccisa. Anche se nessuno saprà mai cosa sia esattamente successo, ho una mia teoria basata sui fatti che sono venuti a mia conoscenza poco fa. Penso che Gloria Jordan avesse inscenato un furto con scasso per spiegare la scomparsa di quello che lei stessa intendeva rubare, poi avesse deciso di non dividere il bottino con i complici, o col complice, dicendo loro di non essere riuscita a trovarlo: il marito doveva averlo nascosto di nuovo e lei era terribilmente dispiaciuta, ma non era colpa sua.
Posso solo immaginare cos’abbia detto all’arrivo della sua complice, o più probabilmente delle sue due complici, ma credo che la signora Jordan si sia scontrata con una forza del male assai più intelligente e crudele di quel che poteva evocare nei suoi peggiori incubi. Scommetto che nelle prime ore del mattino del 6 gennaio sia stata costretta a rivelare il nascondiglio dell’oro e, mentre era in giardino accanto alla vecchia cantina sotterranea, abbia ricevuto la prima coltellata. Forse come avvertimento. O forse era l’inizio dell’aggressione. Lei è corsa a rifugiarsi in casa, dove è stata uccisa. Il suo corpo è stato poi trasportato al piano di sopra, per essere collocato in una posa oscena accanto al marito ucciso.
«Così ci siamo guardati attorno e, lo ammetto, sono rimasto impressionato da questa casa fantastica» ci sta raccontando Gabe Mullery. «A un prezzo straordinariamente buono. Poi l’impiegato dell’agenzia immobiliare ci ha raccontato nei particolari quello che è successo qui nel 2002 e non mi sono più stupito che l’acquisto fosse un vero affare. Ammetto che non mi entusiasmava affatto quella storia di un vecchio delitto, il karma della casa o come si voglia chiamarlo, ma non sono superstizioso. Non credo ai fantasmi: la sola cosa che sono arrivato a temere sono i turisti, gli idioti che hanno l’intelligenza e l’educazione di un piccione. Non voglio un’atmosfera da luna park in casa mia, adesso che si torna a parlare della sua esecuzione.»
Non ci sarà nessuna esecuzione, me ne assicurerò io.
«È proprio una vergogna che non sia andata come previsto, che il giudice l’abbia rinviata. Vorremmo che fosse tutto finito, che potessimo tornare nell’anonimato ed essere dimenticati. Per fortuna, prima o poi la gente la smetterà di voler visitare la casa.»
Farò tutto il possibile per assicurarmi che Lola Daggette non finisca mai nella camera della morte e forse verrà il momento in cui non avrà più nulla da temere. Né Tara Grimm né le punizioni del carcere né “Vendetta”, a cui pagare il suo prezzo, e magari quel prezzo si chiama Roberta. Qualsiasi sostanza può diventare velenosa se ne assumi troppa, compresa l’acqua, diceva il generale Briggs, e chi potrebbe conoscere le medicine e i batteri e le loro potenzialità letali meglio di una farmacista, un’alchimista del male che trasforma un medicinale prodotto per guarire in una pozione di sofferenza e di morte?
«Mi spieghi cosa vuole vedere» mi dice Gabe Mullery. «Non so se potrò aiutarla. Prima di noi, qui abitava un’altra famiglia e non so assolutamente come fosse la casa quando sono state uccise quelle persone.»
La cucina è irriconoscibile, completamente rifatta, con armadietti nuovi, elettrodomestici in acciaio inossidabile e il pavimento di lastre in granito nero. La porta che dà sul giardino è solida, senza vetri, proprio come ha detto Jaime, e mi chiedo come lo sapesse, ma posso fare un paio di ipotesi. Non avrebbe esitato a venire qui e a farsi aprire, magari fingendosi una turista che s’era persa da queste parti, ma di certo sarebbe stata anche capace di dare la propria identità e di spiegare che cosa volesse. Noto il computer portatile in un punto della cucina dove non c’è posto a sedere per lavorarci. Sul tavolo c’è una tastiera wireless e vedo sensori a tutte le finestre, un aggiornato impianto d’allarme che potrebbe anche includere qualche telecamera.
«Fate bene ad avere un buon antifurto» osservo, rivolta a Gabe Mullery. «Considerando la curiosità della gente verso questo luogo.»
«Certo, e si chiama Browning calibro 9. Ecco il mio antifurto.» Sorride. «L’impianto d’allarme è roba di mia moglie, sensori di rottura dei vetri, radar volumetrici, videocamere, tutta quella roba da smanettatori di computer. Teme sempre che la gente pensi di trovare droghe in casa nostra.»
«Sono due leggende metropolitane» dice Colin. «Che i medici abbiano in casa le droghe e che guadagnino milioni.»
«Be’, io sono sempre via e lei, con il suo lavoro, qualche droga deve maneggiarla.» Ci apre la porta. «Un’altra leggenda metropolitana, che i farmacisti ne tengano in casa una scorta» dice mentre scendiamo gli scalini fino a un vialetto di lastre di pietra ed erba e sento una musica venire dalla veranda, che è attrezzata come palestra ed è probabilmente il luogo dove Gabe Mullery si trovava al nostro arrivo. Ancor prima, probabilmente aveva tagliato l’erba.
Riconosco dietro i vetri della veranda la pavimentazione di piastrelle rosse di terracotta, con una panca e alcune rastrelliere di pesi a manubrio, da culturismo. Appoggiate alla facciata posteriore della casa ci sono due biciclette con ruote piccole e telaio di alluminio ripiegabile: una rossa, con il sellino e il manubrio al massimo dell’altezza, l’altra color argento per una persona di statura inferiore. Accanto alle biciclette ci sono un tosaerba, un rastrello e sacchetti pieni di erba tagliata.
«Credo sia meglio lasciare che giriate voi nel giardino» dice Mullery e vedo dal suo comportamento che non ha alcun timore di noi, né sospetta che farebbe meglio ad averlo. «Il giardinaggio non è compito mio. Quello è il regno di Robbi» continua, come se non avesse alcun interesse per quel che c’è in giardino.
Del resto, non è rimasto nulla di quello che c’era all’epoca. L’osmanto odoroso, i cespugli originali, le statue, le pietre, i muri diroccati sono stati sostituiti da un terrazzo di pietra calcarea costruito direttamente sopra quella che immagino essere stata una cantina sotterranea. In fondo al terrazzo c’è un piccolo edificio dipinto di giallo, con il tetto inclinato coperto di tegole e una presa d’aria che sembra di tipo industriale; sotto il cornicione ci sono telecamere in miniatura. Finora ne ho contate tre e, dietro le siepi di bosso, ci sono un condizionatore estate-inverno e un generatore d’emergenza; le finestre hanno imposte massicce, come se la moglie di Gabe Mullery si aspettasse uragani e interruzioni di corrente, e temesse che qualcuno ne approfittasse per venire a spiare. L’edificio è bloccato su tre lati da schermi antintrusione, reticoli dipinti di bianco su cui si arrampicano Vitis coignetiae rosse e pyracantha.
«E che lavoro fa, Robbi, in questo suo studio in giardino?» chiedo al marito, rivolgendogli quella che in circostanze normali sarebbe stata una domanda normale.
«Prepara il dottorato in chimica farmacologica. Un corso online, adesso sta scrivendo la tesi.» Non ci rivelerebbe mai tutto questo se non fosse un grosso e forte guerriero innocente, che ignora di vivere con il nemico.
«Caro? Chi c’è con te?» Una voce femminile ci giunge da dietro la casa; poi la donna compare: cammina senza fretta ma decisa, non si dirige verso il marito ma verso di me.
Porta calzoni di lino color avorio e una camicetta fucsia, ha i capelli tirati indietro e non è Dawn Kincaid, ma potrebbe esserlo se Dawn non si trovasse in coma a Boston e se fosse più muscolosa, più in forma. Noto l’anello con la baguette e il grosso orologio nero, e soprattutto noto la sua faccia. Vedo Jack Fielding nei suoi occhi e nel suo naso, nella forma delle labbra.
«Ciao» dice al marito, mentre fissa me. «Non mi hai detto che avevamo ospiti.»
«Sono medici legali e volevano controllare in giardino per quei vecchi omicidi» dice il bel marito, che è un dottore molto occupato, appartiene alla riserva della Marina e sta via un mucchio di tempo, lasciandola sola a fare tutto quello che le pare. «Come mai a casa così presto?»
«È arrivato un poliziotto grosso e cattivo» risponde a lui mentre guarda me. «Ha fatto un mucchio di domande strane.»
«A te?»
«Su di me. Io ero nel retro, ma ho sentito tutto e mi sono seccata.» Mi guarda con gli occhi di Jack Fielding. «È venuto a comprare un pallone ambu e voleva sapere se avevamo un defibrillatore. Ha tempestato di chiacchiere il povero Herb, poi tutt’e due sono usciti a fumare. A quel punto ho deciso di andarmene.»
«Herb è un imbecille.»
«C’è ancora un mucchio di erba tagliata, per terra» si lamenta con lui, ma non si guarda attorno. Guarda me. «Sai come la odio. Per favore, assicurati di rastrellare via il resto. E non mi interessa se è un buon fertilizzante.»
«Non ho ancora finito. Non mi aspettavo che tornassi a casa così presto. Penso che sarebbe ora di prendere un giardiniere.»
«Perché non ci porti un po’ d’acqua e qualcuno di quei biscotti che ho preparato? Intanto faccio fare un giro ai nostri ospiti.»
«Colin, mentre io do un’occhiata al giardino, o almeno quanto ne resta, forse potresti passare a Benton un mio messaggio» gli dico, ma non distolgo lo sguardo da lei e, ne sono certa, Colin ha già capito che c’è qualcosa che non va.
Gli do il numero di cellulare di Benton.
«Forse potresti dirgli che lui e i suoi colleghi dovrebbero proprio vedere quel che Robbi ha fatto in giardino, convertendo la vecchia cantina sotterranea in uno studio straordinariamente funzionale. Mai visto niente di simile. Robbi da Roberta, suppongo» gli dico ancora mentre continuo a guardare lei, e sento che Colin è già in comunicazione.
«Sì, siamo nel giardino dietro la casa» dice tranquillamente, ma non dà l’indirizzo di dove siamo, e sospetto che Benton sia già per strada.
«È esattamente quello che vorrei fare a casa mia, uno studio in cortile che sia sicuro come Fort Knox, un’area dove forse una volta tenevano l’oro prima che fosse rubato» dico davanti a Roberta Price. «Con un generatore d’emergenza e un impianto di condizionamento, un sacco di privacy e di telecamere di sorveglianza, che posso controllare dalla mia scrivania. O, ancora meglio, da lontano. Tenendo d’occhio chi viene e chi va. Se non le dà fastidio che mio marito e i suoi colleghi facciano un salto qui da lei» dico a Roberta mentre la porta della cucina si chiude.
Mi chiedo se Colin sia armato.
«Price o Mullery?» chiedo a lei. «Ma probabilmente ha preso il nome di suo marito, Mullery. Il dottor Mullery e signora, che abitano in un’incantevole residenza storica che deve contenere ricordi molto speciali per la signora» le dico, in tono duro come una pietra, e mentre parlo sento in lontananza il rombo di un motore molto potente.
Lei si avvicina a me, poi si ferma. Vedo ribollire la sua collera perché è spacciata e sa di esserlo, e mi chiedo nuovamente se Colin sia armato; mi chiedo anche se lo sia lei. Mentre mi pongo tutte queste domande, sono preoccupata per il marito, che potrebbe uscire di casa infuriato impugnando la calibro 9. Se Colin puntasse una pistola contro Roberta o la gettasse a terra, potrebbe finire ucciso a pugni o a pistolettate, e non voglio neppure che Colin sia costretto a sparare a Gabe Mullery.
«Quando suo marito uscirà di casa» le dico mentre Colin si avvicina «lo avverta che sta arrivando la polizia. L’FBI è già per strada mentre noi parliamo. Non vorrà che suo marito si faccia male, e se ne farà se lei opporrà resistenza. Non corra. Non faccia niente, altrimenti lui si metterà in mezzo. Non capirà.»
«Lei non l’avrà vinta.» Infila la mano nella borsetta; i suoi occhi sono vitrei. Respira a fatica, come se fosse estremamente agitata o stesse per assalirmi, e il rumore della grossa cilindrata è vicino, una motocicletta, mentre il marito spunta da dietro l’angolo della casa, portando con sé un vassoio e alcune bottiglie.
«Sfili la mano dalla borsa. Lentamente» le dico, mentre il motore ruggisce forte e si ferma bruscamente. «Non faccia nulla che ci costringa ad agire.»
«Pare che arrivino nuovi ospiti.» Il marito attraversa a lunghe falcate il prato ancora pieno di fili d’erba tagliati, e bottiglie e vassoio gli sfuggono di mano quando Roberta Price tira fuori dalla borsetta la mano che stringe una bomboletta bianca, a forma di stivale, e da un punto vicino alla casa echeggia un colpo di pistola.
Roberta fa un passo avanti e scivola a terra, con il sangue che le sgorga dalla testa. Sull’erba, accanto a lei, c’è un inalatore per asmatici. Lucy corre sul prato stringendo con entrambe le mani la pistola e grida a Gabe Mullery di non muoversi.
«Seduto, da bravo, e lentamente.» Lucy continua a tenerlo di mira mentre lui è immobile nel suo giardino, traumatizzato.
«Devo aiutarla» grida lui. «Per l’amor di Dio, lasciate che l’aiuti!»
«Seduto!» grida Lucy, mentre sento sbattere le portiere delle auto. «E tieni le mani dove posso vederle!»