La campana della torre del municipio rintocca lentamente, con colpi pesanti sotto la sua cupola dorata, per celebrare un Giorno dell’indipendenza velato dall’afa, che per alcuni di noi non includerà i fuochi d’artificio alla fine dei festeggiamenti. È lunedì e, mentre avevamo intenzione di partire presto per il lungo volo di ritorno a casa, ormai è quasi mezzogiorno e siamo ancora a Savannah.
Prima che si arrivi alla base dell’Aeronautica militare di Hanscom, a ovest di Boston, saranno già le otto se non le nove di sera, e il nostro ritardo non è dovuto al tempo, ma ai venti dell’umore di Marino, che soffiano a raffiche e cambiano spesso direzione. Ha insistito per riportare il furgone a Charleston, dove vuole che facciamo una tappa nel caso decidesse di proseguire il viaggio con noi, perché ha detto di non essere ancora sicuro di quello che vuole fare. Potrebbe rimanere qui nel Lowcountry e passare un po’ di tempo a pescare o a pensare, o potrebbe cercare un barcone di seconda mano e decidere di prendersi un anno sabbatico, come lo chiama lui. Difficile capire se voglia tornare nel Massachusetts, e per tutta la mattina, mentre rifletteva su cosa fare di se stesso, continuava a scoprire nuovi modi per perdere tempo.
Doveva andare a prendere il caffè. Doveva andare ad assaggiare un’ultima volta i toast alla Bismarck che su al Nord non sanno fare. Doveva andare in palestra. Doveva riportare al salone della Harley la motocicletta noleggiata da Lucy, per risparmiarle la fatica di portarla personalmente. Lucy s’era già dovuta sopportare gli interrogatori della polizia e dell’FBI, tutta la burocrazia, per dirla con le sue parole, che viene dopo una sparatoria, e non è una bella esperienza quando uccidi una persona e poi scopri che non cercava di prendere una pistola, ma il portafogli, la patente o magari un inalatore. Anche se il delinquente se lo meritava, finisci per pentirti della tua precipitazione, perché qualcuno metterà sempre in dubbio il tuo giudizio e non si lascerà mai convincere del contrario, ed è questo – se vogliamo essere sinceri – a stressarti più di tutto, assai più della morte della persona che hai ucciso. Marino non voleva che Lucy salisse su una moto nelle condizioni in cui era, e si preoccupava soprattutto della sua capacità di volare, in quello che giudicava il suo stato mentale stressato.
Ma Lucy è perfettamente a posto. È Marino a non esserlo. Ha continuato a voler fare una commissione dopo l’altra e quando alla fine era pronto a partire per il viaggio di due ore fino a Charleston, ha deciso di prendere con sé tutte le provviste che avevo acquistato a Savannah: non potevo portarle con me sull’elicottero, ha osservato. Non che io pensassi di portarmi a casa – dalla Georgia al New England – pentole, padelle, cibi in scatola e un bruciatore a due becchi con la sua bombola, ma lui ha insistito per farseli dare. Non ha ancora avuto la possibilità di arredare la sua nuova casa di Charleston, ha spiegato mentre infilava, in scatole di cartone che si era fatto dare da un negozio di liquori, tutto quel che trovava, compresa una scatola di muesli già iniziata, vaschette usate, confezioni di detersivo per i piatti e per lavare a mano, persino un asciugacapelli da viaggio che non poteva certo servirgli per la sua testa calva e un ferro da stiro con relativa asse che non potrà mai usare sui suoi vestiti sintetici.
Ha preso tutto: spezie e vasetti quasi vuoti di olive, sottaceti, antipasti e frutta sciroppata, una banana, condimenti, cracker, tovaglioli di carta, posate di plastica, un rotolo di alluminio, una pila di sacchetti della spesa ripiegati; poi è andato da una camera all’altra e ha raccolto gli articoli da toilette dell’albergo, come se gli fosse improvvisamente venuto il vizio di accumulare.
«Come quegli accattoni o come diavolo li chiama la TV» dico. «Quelli che vanno a vedere nei bidoni se c’è qualcosa che si possa ancora utilizzare, lo portano a casa e non buttano mai via niente. È una sorta di coazione, una nevrosi.»
«Paura» stabilisce Benton, che ha un computer portatile sulle ginocchia e il telefono appoggiato sul tavolo, a portata di mano. «Ha paura di buttar via qualcosa, o di scordarsi dove l’ha messa, e poi di averne assolutamente bisogno.»
«Okay, gli mando un altro messaggio. Niente scuse, torna a casa con noi. Non voglio lasciarlo qui da solo, non ragiona in modo lucido e si è fatto prendere dalla nuova passione dell’accumulo. Qualunque cosa dica, noi atterriamo a Charleston e, se dovesse essere il caso, andrò nel suo appartamento e lo trascinerò via a forza.»
«Non gli restano molte passioni tra cui scegliere» commenta Benton, mentre scorre in fretta i suoi file. «Niente liquori e niente sigarette. Non vuole ingrassare e perciò non ha neppure il mangiare, e allora comincia ad accumulare oggetti. Sarebbe preferibile il sesso, come passione. Relativamente economica e non richiede spazio di stoccaggio.» Apre una e-mail che, da dove siedo, mi sembra dell’FBI, forse dell’agente chiamato Phil che ha telefonato a Benton poco fa.
È stata una mattinata frenetica nel soggiorno della nostra suite all’hotel, nel nostro accampamento con una spettacolare vista sul fiume e sul porto. Da quando si è levato il sole, io e Benton ci siamo preparati per il ritorno al Nord, mentre esaminavamo le informazioni che continuavano ad arrivare a quella che sembrava la velocità della luce. Non sono abituata a un’indagine che viene condotta come una guerra, con molteplici attacchi su molteplici fronti, effettuati dai diversi rami dell’organizzazione militare e giudiziaria, il tutto svolto con una forza e una velocità da far girare la testa. Ma la maggior parte dei miei casi non sono una minaccia per la sicurezza nazionale e non vengono portati all’attenzione del presidente, e di solito i laboratori e i team investigativi non viaggiano a pieno regime, per usare le parole di Lucy.
Finora la notizia è stata tenuta segreta ai giornali, mentre l’FBI e la Sicurezza nazionale proseguono senza soste le ricerche per assicurarsi che nessun cibo o oggetto che Roberta Price ha avvelenato sia riuscito ad arrivare a una base di trasferimento per i militari, una portaerei o un trasporto aereo pieno di soldati, un sottomarino armato di missili atomici, o sia finito in mano a soldati impegnati a combattere su qualsiasi fronte. Le analisi e i confronti del DNA e delle impronte digitali sono stati confermati e ormai è certo che Roberta Price e Dawn Kincaid sono due diverse facce dello stesso male, gemelle identiche o cloni, come alcuni investigatori chiamano le gemelle cresciute separatamente e poi riunitesi a dare una sinergia da cui sono venute orribili tecnologie e un numero indeterminato di morti.
«È la paura di quanto è successo» dico io. «È quella che porta Marino a correre avanti e indietro e a uscire dalla città. Vede tutti i giorni la morte, ma quando sono soltanto casi su cui lavori ti illudi di poterla controllare. Pensi che se arrivi a conoscerla bene, non potrà mai toccare a te.»
«Fumare quella sigaretta che veniva dalla farmacia del dottor Monck è stato un rischio che ora giudica inaccettabile» risponde Benton, mentre il suo cellulare suona.
«Dopo quello che ha visto nella cantina sotterranea? Lo penso anch’io» confermo. «Si rende certamente conto di quello che poteva succedergli.»
«Posso suggerirti un modo di affrontare la cosa» dice Benton alla persona che lo ha chiamato. «Basato sul fatto che si tratta di una persona che si sente perfettamente giustificata. Lei ha fatto un favore al mondo, liberandolo da un mucchio di delinquenti.»
Capisco che parla di Tara Grimm, che è stata arrestata ma non è ancora accusata di nessun reato. L’FBI cerca di arrivare a un accordo, è disposta a negoziare con lei in cambio di informazioni sul resto del personale del GPFW, come l’agente Macon, che potrebbe averla aiutata a somministrare la punizione che, secondo lei, spettava ad alcune recluse, uccise con la complicità di un’avvelenatrice diabolicamente astuta, desiderosa di fare pratica.
«Devi insistere su quella che per lei è la verità» continua Benton al telefono. «Quella donna è convinta di non avere fatto niente di male. Dando a Barrie Lou Rivers un’ultima sigaretta con il filtro impregnato di... Certo, devi dirglielo senza mezzi termini, ma premettendo che comprendi bene come le sembrasse la cosa giusta da farsi... Sì, ottimo modo per dirglielo. Stava per essere giustiziata, doveva morire in qualsiasi caso ed era una fine assai misericordiosa rispetto a quello che lei faceva alle sue vittime, avvelenate in modo cronico con l’arsenico. In realtà non c’è niente di misericordioso nel far fumare una sigaretta impregnata di tossina botulinica, è una morte orrenda, ma questa parte lasciala perdere.»
Benton finisce di bere il caffè mentre ascolta.
Fissa il fiume e infine dice: «Insisti sul modo in cui lei giudica se stessa. Certo, dille che neanche tu sopporti i delinquenti e che puoi capire la tentazione di farsi giustizia da sé... Sì, la teoria è quella. E forse Tara Grimm, che devi ricordarti di chiamare direttrice Grimm, per riconoscere la sua autorità... certo, si tratta sempre di autorità, di potere, capisci. Forse, dicevo, sarà lei stessa a rivelare se è stata una sigaretta o l’ultimo pasto, ma lei non ha fatto altro che assicurarsi che Barrie Lou Rivers e le altre avessero quello che si meritavano, ha fatto a loro quello che facevano alle vittime, magari rincarando la dose. Rigirando la lama nella ferita, per maggiore sicurezza».
«Non so come farlo ragionare» riprendo io quando Benton chiude la telefonata, perché, anche se è scosso da quel che è successo a Jaime, è nella natura di Marino essere ancora più scosso da quello che poteva succedere a lui.
«Non è molto forte quando si tratta di comprensione intuitiva» risponde Benton. «Ha corso uno stupido rischio. Come bere e poi salire in auto e prendere una strada dove si verificano molti incidenti. Spero che Phil faccia come gli ho detto» aggiunge cambiando discorso. Phil è uno degli agenti che ho conosciuto negli ultimi due giorni. «Quando trovi una persona del genere, devi fare leva sulla sua convinzione di avere agito per il meglio. Alimentare il suo narcisismo. Dirle che ha fatto un favore al mondo.»
«Sì, alle persone che ne sono convinte. Hitler, per esempio.»
«A parte che Tara Grimm non lo mostra in modo così evidente» risponde Benton. «Si presenta come la grande umanitaria che gestisce una prigione esemplare considerata un modello. Ha offerte di lavoro, colleghi che vengono a visitare il suo istituto.»
«Sì, ho visto le onorificenze sulla parete.»
«Il giorno che sei andata da lei» mi racconta «un gruppo che veniva da un carcere maschile della California aveva fatto il giro turistico completo e parlava di assumerla. Sarebbe stata la prima donna a dirigere quella prigione.»
«Una bella beffa se finisse anche lei al Blocco B. Magari nella cella finora occupata da Lola Daggette» rispondo.
«Proverò a dirlo» risponde Benton, asciutto. «Insieme al suggerimento di Lucy di chiedere a Gabe Mullery, come parente più prossimo, di autorizzare i medici a staccare la spina a Dawn Kincaid.»
«Non so come andrà a finire» rispondo, anche se non sarà Gabe Mullery ad autorizzare la sospensione delle terapie che la tengono in vita.
A quanto pare, Gabe non ha mai sentito parlare di lei, a parte un vago ricordo di quel nome, o di un nome simile, perché era apparsa la notizia che aveva commesso dei delitti nel Massachusetts. Sapeva che la moglie, Roberta Price, era cresciuta presso una famiglia di Atlanta: di tanto in tanto s’incontravano nelle festività, ma non sapeva nulla di una sorella.
«Penso che sarà trasferita in qualche altro istituto» dico. «Nel reparto di sicurezza di qualche ospedale, dove verrà tenuta in vita da un respiratore finché non sarà giudicata clinicamente morta.»
«Un rispetto assai superiore a quello mostrato per le sue vittime» commenta Benton.
«È sempre così. Mi dispiace di non avere dato retta a Marino quando mi ha fatto notare gli alti livelli di adrenalina e di monossido di carbonio. Visto che nelle carceri è vietato fumare, come si spiegavano quei livelli in Barrie Lou Rivers? Io non gli ho dato retta perché al momento non mi interessava. Pensavo a tutt’altro. Forse, se lo dirò anche a lui, eviterà di prendersela così tanto con se stesso per essere stato incauto quando è passato alla farmacia e si è lasciato offrire una sigaretta.»
«E forse neanche tu te la prenderai così tanto con me per lo stesso motivo.» Benton alza la testa e mi fissa negli occhi, perché ci siamo scambiati qualche frase in tono d’accusa su quell’argomento. «Mi hai detto una cosa importante ma io pensavo ad altro. Comprensibilmente.»
«Posso preparare dell’altro caffè» dico.
«Buona idea. Quello di prima è stato come non berlo. Mi dispiace di non essere stato più gentile.»
«L’hai detto tu.» Mi alzo mentre passa davanti alla finestra una nave, carica di un’altissima pila di container e spinta dai rimorchiatori. «Non hai bisogno di essere gentile quando si tratta di lavoro. Mi basta essere presa sul serio. Non chiedo altro.»
«Io ti prendo sempre sul serio. Semplicemente, in quel momento prendevo ancora più sul serio qualcosa d’altro.»
«Jaime, e poi accettare una sigaretta che poteva ucciderlo: certo che è traumatizzato» dico, perché non voglio più discutere le scuse di Benton e la cucina mi sembra improvvisamente spoglia e abbandonata, come se avessimo già lasciato l’appartamento. «E dovrà farsene una ragione, altrimenti commetterà di nuovo qualcosa di stupido, come bere o lasciare il lavoro e passare il resto della vita a pescare con quel suo amico che noleggia la barca.»
Infilo una cialda di caffè nella caffettiera dell’hotel perché Marino ha portato via la macchinetta del caffè espresso che avevo comprato.
«Fumare davanti al negozio dove lavora un’avvelenatrice» continuo. «Anche se in quel momento non ne avevamo ancora la certezza, ma lui era là per raccogliere informazioni. Non era un rischio che potesse ignorare.»
«Che cosa gli avevi raccomandato? Di non mangiare e bere nulla, a meno che non ne fosse maledettamente sicuro» commenta Benton, mentre gli porto il caffè.
«Come l’allarme per il Tylenol. Quando cominci a pensare a tutti i pericoli possibili, scopri di non fidarti più di niente. O così o negare il rischio. Dopo quello che ho visto, probabilmente sceglierò la negazione.» Ritorno nel cucinino; i miei pensieri corrono alla vecchia cantina sotterranea dietro la bella casa antica dove Roberta Price aveva collaborato ad assassinare un’intera famiglia quando aveva solo ventitré anni. «Altrimenti non potrò mai più bere o mangiare nulla, o comprare qualcosa al supermercato» aggiungo.
Mi chiedo se abbia mai usato l’arma che abbiamo trovato, un coltello a serramanico con la lama di acciaio inossidabile lunga sette centimetri e la guardia a forma di aquila dalle ali aperte, che corrisponde alla dimensione delle ferite e alle strane abrasioni lineari degli omicidi Jordan. Immagino invece che pugnalare a morte le vittime fosse la specialità di sua sorella Dawn, mentre Roberta preferiva uccidere indirettamente e a distanza. Sospetto che abbia conservato il coltello come souvenir o come icona, tenendolo per tanti anni in una scatola di bois-de-rose, in un vano sotterraneo costruito in modo assai sofisticato, con il controllo della temperatura e dell’umidità e il condizionamento indipendente.
All’interno della cantina convertita, accessibile da una botola nel pavimento dello studio, nascosta sotto un tappeto, c’era una straordinaria collezione di sigarette di tutti i tipi e di pasti pronti, di iniettori e altri prodotti che Roberta Price riempiva con le regolari ordinazioni di tossina botulinica di tipo A che effettuava presso alcune compagnie cinesi che spediscono il prodotto senza fare domande o quasi. La squadra HatMaz per il recupero dei materiali pericolosi ha trovato, oltre a quelle cose orribili, anche vecchie buste e vecchi francobolli con la colla da inumidire; non solo carta da lettere con i palloncini e francobolli con la spiaggia e l’ombrellone, ma una grande varietà di vecchia carta da lettere e vecchi francobolli ordinati su Internet.
Gran parte di quel materiale era destinato ai detenuti, penso, perché francobolli e carta da lettere, di qualsiasi tipo, risultano assai graditi alle persone incarcerate e ansiose di comunicare con l’esterno. Probabilmente non sapremo mai quante persone ha ucciso, scegliendo una morte atroce dai sintomi simili a quelli dei forti attacchi d’asma di cui soffriva non solo lei, ma anche la gemella a lei sconosciuta, tutt’e due nate il 18 aprile 1979 al Savannah Community Hospital, a pochi chilometri dal GPFW. Separate da piccole, nessuna delle due aveva saputo dell’esistenza dell’altra, almeno fino a qualche mese dopo l’11 settembre, quando Dawn decise di scoprire l’identità dei suoi genitori biologici, giungendo così alla scoperta di avere una gemella identica.
Nel dicembre del 2001 si incontrarono per la prima volta a Savannah, tutt’e due afflitte da quelli che Benton chiama gravi disturbi della personalità. Sociopatiche, sadiche, violente e incredibilmente intelligenti, entrambe avevano fatto scelte stranamente simili. Dawn Kincaid aveva discusso con un reclutatore dell’esercito la possibilità di arruolarsi dopo il college ed era interessata alla sicurezza informatica e all’ingegneria medica; a migliaia di chilometri da lei, sulla Costa Orientale, Roberta si era informata sulla possibilità di ricevere un insegnamento scientifico entrando in Marina.
Separatamente e indipendentemente, sulle sponde opposte del paese, Roberta e Dawn erano state rifiutate a causa della loro asma e si erano iscritte a programmi per neolaureati. Dawn aveva studiato scienza dei materiali a Berkeley, mentre Roberta si era iscritta alla facoltà di farmacia di Athens, in Georgia, e nel 2001 aveva iniziato a lavorare al negozio della catena Rexall vicino alla casa dei Jordan. Nei fine settimana e durante le feste distribuiva metadone presso la comunità Liberty House, dove aveva conosciuto Lola Daggette, una ex eroinomane in terapia di disintossicazione.
Le ultime affermazioni fatte da Lola agli investigatori concordano con quello che aveva detto a Jaime. Lola non aveva alcuna conoscenza diretta di quel che era successo nelle prime ore del mattino del 6 gennaio, una domenica, quando Roberta era di turno per distribuire il metadone nell’ambulatorio, che si trovava sullo stesso piano della stanza di Lola, che non aveva serratura.
Una tossicodipendente con significativi limiti intellettivi e problemi a controllare la collera costituiva il facile bersaglio di una falsa accusa. Anche se non è possibile ricostruire esattamente l’accaduto, pensiamo che Roberta sia entrata in camera di Lola, in un momento indeterminato del sabato, e abbia preso dal suo armadio un paio di calzoni, una maglia e un giubbotto, e che lei o Dawn li abbia indossati mentre commettevano i crimini. In seguito Roberta è entrata nella camera di Lola mentre lei dormiva, ha lasciato sul pavimento del bagno i vestiti insanguinati e, alle otto del mattino, ha aperto l’ambulatorio per distribuire il metadone.
«La morte è una faccenda profondamente personale e solitaria e nessuno è realmente preparato ad accoglierla, per quanto ci si ripeta di esserlo» dico a Benton mentre mi siedo con il mio caffè. «Per Marino è più facile pensare ai problemi di Lucy. O ossessionarsi per fare in modo che la sua dispensa sia piena.»
«È nella fase dello scambio simbolico.»
«Lo penso anch’io. Se ha la cucina ben piena, se ha tutto il cibo e le attrezzature per cucinarlo, non rischia di morire di fame» rispondo. «Se faccio A e B, allora C non può succedere. Ha avuto un tumore alla pelle, e all’improvviso decide di divenire imprenditore e fondamentalmente di smettere di lavorare per me. Forse è anche quello uno scambio. Se avviene un grosso cambiamento nella tua vita, significa che hai ancora un futuro.»
«Credo che il fattore principale sia stato Jaime.» Mentre parla, Benton controlla la posta. «Non il tumore. Lei riusciva sempre a intortarlo, a fargli credere che il meglio doveva ancora venire. “Presto ti succederà qualcosa di magico.” Stare con lei legittimava la sua illusione di non avere bisogno di te, Kay. Di non avere passato metà della sua vita correndo con te da un posto all’altro.»
«Brutta cosa se non riuscirò a intortarlo un po’ anch’io» commento, mentre suona il campanello. «E, peggio ancora, se pensa di avere sprecato con me metà della sua vita.»
«Non ho detto che l’abbia sprecata. Io so di non avere sprecato niente.» Benton mi bacia.
Ci baciamo di nuovo e ci abbracciamo, poi andiamo alla porta. Colin è in corridoio con un carrello per i bagagli di cui non abbiamo bisogno, perché Lucy ha già portato i nostri fino all’elicottero.
«Non lo sapevo» risponde Colin, spingendo verso l’ascensore il carrello vuoto. Poi commenta: «Mi ero abituato ad avervi qui in giro».
«La prossima volta speriamo di portare in città qualcosa di meglio» dico io.
«Con voi del Nord non succede mai. Trasformate in cannoni le campane delle nostre chiese, bruciate le nostre fattorie, fate saltare in aria i nostri treni. C’è un piccolo cambiamento di programma: andiamo all’ospedale invece che all’aeroporto. Non perché sia molto più vicino, ma perché Lucy non vuole essere costretta a badare alla torre di controllo e a tutta quella gente che va in giro vestita da cetriolo, espressione che non credo si debba intendere alla lettera.»
«Militari» spiega Benton.
«Ah, tute di volo, quelle verdi, suppongo. Mi chiedevo di chi parlasse, mentre chiacchierava di loro a duecento all’ora, e immaginavo persone mascherate da ortaggio» continua Colin, e non sono certa che scherzi. «Comunque, penso che i controlli siano molto stretti, sia lì sia all’aeroporto militare di Hunter. A quanto ho capito, fanno i controlli sull’idoneità dei piloti e lei ne ha già fatto uno e non ne vuole più sapere. Mi ha detto di avvertirla quando siamo vicino all’ospedale. Non vuole attendere sulla pista e doversi allontanare se arriva un’eliambulanza. In quell’ospedale è poco probabile, ma preferisce non correre rischi.»
Entriamo nell’ascensore e la cabina di vetro comincia a scendere, passando sotto balconi coperti di rampicanti, e per un momento immagino le carcerate che lavorano nel cortile della prigione e portano i cani al guinzaglio, come spettri delle loro precedenti personalità, seviziatrici e seviziate, e poi rinchiuse in un luogo dove è in corso una segreta ricerca di morte.
Immagino Kathleen Lawler e Jack Fielding la prima volta che si sono visti in quel ranch per giovani disadattati, un rapporto da cui ha preso le mosse una serie di avvenimenti che hanno cambiato molte vite e ne hanno distrutto per sempre molte altre, comprese le loro.
«Se trovate dei biglietti per i Bruins o, meglio ancora, per i Red Sox, potrei anche venire a farvi visita, una volta o l’altra» dice Colin.
«Be’, se mai ti venisse voglia di lasciare il Georgia Bureau.» Passiamo nell’atrio, diretti verso l’afa che regna all’esterno e una corsa surriscaldata e piena di vento.
«Veramente non stavo pensando di cambiare lavoro» dice mentre saliamo sulla Land Rover.
«Hai un invito permanente a Cambridge» gli rispondo. «Abbiamo dei buoni quartetti vocali, da noi, e questa macchina non manca di riscaldamento» aggiungo mentre lui aziona il ventilatore. «Probabilmente se la cava altrettanto bene con le valanghe, le tormente e le tempeste di neve.»
Chiamo Marino al telefono e, dal rumore, capisco che è ancora nel furgone diretto a Charleston, o da qualche altra parte. Non ho idea di cosa abbia in mente. «Dove ti trovi?» gli chiedo.
«Trenta minuti a sud» risponde con aria sconfitta, forse triste.
«Dovremmo arrivare a Charleston verso le due e ho bisogno di trovarti laggiù» rispondo.
«Non so se...»
«Be’, lo so io, Marino. Ceneremo tardi, festeggeremo il Quattro Luglio con qualcosa di buono da mangiare, andremo tutti insieme a riprendere i cani» gli dico, mentre cominciamo a intravedere il vecchio ospedale.
Inaugurato poco dopo la Guerra civile, il Savannah Community Hospital, dove Kathleen Lawler partorì le gemelle trentadue anni fa, è di mattoni rossi con le finestre bianche e fornisce servizi di medicina generale, ma non di pronto soccorso. Ormai è raro che arrivino le eliambulanze, spiega Colin. L’eliporto è una piccola area erbosa con una manica a vento arancione un po’ sfilacciata, circondato da alberi che si agitano e perdono le foglie quando il nero 407 scende rumorosamente e si posa con leggerezza sul retro dei pattini.
Gridiamo arrivederci a Colin in mezzo al rumore dell’elica e io salgo sul sedile anteriore di destra e Benton si siede dietro, agganciamo le cinture di sicurezza e infiliamo i caschi.
«Una pista molto piccola, questa» dico a Lucy, che, vestita di nero, controlla i suoi strumenti e fa quello che le piace di più, sfidare la gravità ed evitare gli ostacoli.
«Una pista così vecchia che si dimenticano di potare gli alberi» sento la sua voce dall’auricolare, mentre l’elicottero si stacca da terra, poi s’innalza lasciando l’ospedale sotto di noi.
Colin diventa sempre più piccolo e agita le braccia mentre noi saliamo verticalmente, sempre più in alto, al di sopra degli alberi. Poi procediamo in orizzontale e viriamo verso gli edifici e i tetti della città vecchia. Oltre quella c’è il fiume e noi lo seguiamo fino al mare, dirigendoci a nordest verso Charleston e poi verso casa.