Prefazione

di Phil Zimbardo

Sono nato nel Bronx, da una famiglia povera, e credo che queste origini abbiano determinato il mio interesse per qualsiasi aspetto della situazione possa influenzare il comportamento e, in generale, la vita delle persone. A differenza di chi, ricco, vuole prendersi il merito del successo, io ero in qualche misura obbligato a cercare spiegazioni «esterne» (e dunque consolanti) alle nostre modeste condizioni. Un simile orientamento era rafforzato anche da quanto accadeva attorno a me, fuori da casa mia: vedevo continuamente amici e compagni di scuola compiere atti vandalici, rubare o aggredire persone innocenti. Non capivo come tutto ciò fosse possibile, considerato che si trattava per me di bravi ragazzi. Ancora una volta, mi dicevo che doveva esserci una spiegazione di tipo situazionale – come avrei imparato a dire qualche anno dopo.

Era praticamente inevitabile che da studente rimanessi affascinato dalla psicologia sociale, giovane disciplina che si occupa di scoprire con rigore scientifico in che misura le variabili esterne (oggetti e individui, reali o immaginari che siano) influenzano pensieri, emozioni e comportamenti di ognuno. Grazie all’attività di ricerca sono riuscito a trovare risposte inseguite per anni. Sin dagli inizi della mia vita professionale ho cercato di individuare, in studi di laboratorio e sul campo, quali fattori potessero spingere gli esseri umani a compiere azioni cattive, immorali, distruttive. L’idea predominante nella cultura occidentale è che tali azioni siano l’esito della personalità o del patrimonio genetico di chi le compie; ne consegue che bisogna scavare all’interno di questi individui per capire le ragioni del loro comportamento. La popolarità di tale idea è legata ai benefici che ne derivano sia per il sistema, che così viene alleggerito dalla responsabilità di aver creato i presupposti all’attuazione del male, sia per chi non ha ancora agito in maniera cattiva, che così può continuare a credere di essere diverso «da quel genere di persone». Per quanto mi riguarda, considero semplicistica questa impostazione disposizionale e la dicotomia bene/male che ingloba, per cui, nel tentativo di rispondere alle domande che mi ero posto, ho abbracciato un approccio di tipo situazionista – proprio come facevo da bambino.

I risultati di numerosi studi condotti a partire dagli anni Sessanta mi hanno dato ragione: sembra che il male (nelle sue varie forme) possa essere compiuto da chiunque venga a trovarsi in particolari situazioni. Compiere il male, più nello specifico, vuol dire attuare in maniera intenzionale un comportamento che danneggi, oltraggi, umili, deumanizzi o distrugga una o più persone innocenti, mentre restano fuori da questa definizione le condotte che provocano sofferenza o morte in maniera accidentale.

Siamo dunque più vulnerabili di quanto amiamo credere. Immersi in un certo campo di forze situazionali, potremmo mettere in atto comportamenti spietati che pure consideriamo completamente estranei alla nostra natura. Riconosco che è necessario del tempo per digerire simili affermazioni, vista la diffusa abitudine a pensare al male come a un’«entità» che si trova all’interno di alcuni ma non di altri (ho definito altrove tale visione essentialized, «essenzializzata»). Se si riflette un attimo, anche il linguaggio di cui ci serviamo, specchio del nostro modo di pensare, rivela la tendenza a dividere il mondo sociale in «buoni» e «cattivi»: usiamo spesso espressioni come «tipo sensibile», «individuo malvagio», «brava ragazza», «persona da evitare». In questo dualismo è implicita l’attenzione particolare rivolta alla figura (attore) unita a una scarsa inclinazione mostrata nei confronti dello sfondo (contesto).

Ma quali sono le forze situazionali che, più di altre, condizionano il nostro comportamento? In che modo si combinano? Possiamo difendercene? Sono alcune delle questioni affrontate nel libro di Piero Bocchiaro.

L’autore, prendendo spunto da quattro esperimenti classici di psicologia sociale, conduce un’analisi approfondita sulle dinamiche della situazione in cui i partecipanti – loro malgrado – si trovano ad agire, giungendo a una ricostruzione attenta dei processi psicologici da esse innescati. La ricerca è da considerarsi funzionale a una più approfondita comprensione di quanto accade nella realtà: l’esame viene così esteso ad alcuni fatti storici e di cronaca i cui protagonisti, come i partecipanti agli esperimenti, hanno agito in maniera distruttiva spinti dai medesimi processi psicologici osservati in laboratorio. I fatti presi in considerazione riguardano il caso Eichmann, tenente colonnello nazista responsabile della morte di almeno cinque milioni di ebrei; il delitto Genovese, giovane italo-americana assassinata dinanzi allo sguardo passivo di trentotto testimoni; la tragedia dell’Heysel, stadio belga in cui rimasero uccise trentanove persone per mano di un gruppo di tifosi inglesi; le torture di Abu Ghraib, carcere tristemente noto per gli atti disumani perpetrati da alcuni militari americani sui detenuti iracheni.

Sin dalle prime pagine del libro emerge la concezione di un individuo in grado di agire in maniera estremamente crudele se posto in circostanze insolite ed estreme. Ci rifiutiamo di credere che possa essere così, e come pronta risposta utilizziamo un armamentario di meccanismi di difesa: «Gli uomini normali non sanno che tutto è possibile», diceva lo scrittore francese David Rousset. Vogliamo sentirci al sicuro, e così arriviamo a credere davvero che noi non siamo in grado di commettere azioni distruttive o brutali. Pensiamo che non ci capiterà mai di maltrattare qualcuno o di assistere inerti a scene di violenza: queste cose le fanno gli altri, i «cattivi». E se proprio dovessimo commettere qualche infrazione al codice morale, saremo pronti a dare la colpa alla situazione o agli altri. Viviamo costantemente protetti da tutte queste illusioni. Il libro mostra però come anche individui normali, o addirittura brave persone come noi, abbiano torturato in maniera intenzionale altri esseri umani, obbedito a ordini palesemente ingiusti, omesso di aiutare persone in pericolo di vita, inflitto dolorose scariche elettriche a donne innocenti. Le spiegazioni offerte dall’autore, accurate e scientificamente fondate, sono assolutamente «vietate» per chi, affezionato al mondo binario «buoni/cattivi», è a caccia di conferme e rassicurazioni.

Siamo destinati allora a soccombere allo strapotere delle forze situazionali? Capita spesso, certo, ma non possiamo considerarci vittime designate: lo testimoniano quanti riescono a resistere in contesti dove un insieme di forze orienta al male o quanti mettono in atto condotte eroiche. Si tratta naturalmente di minoranze, individui peraltro ancora poco noti alla psicologia. A loro sono dedicate le ultime pagine del libro. Si parlerà questa volta di ordinarietà del bene, una prospettiva decisamente «fuori dal coro» che considera l’essere umano (ancora una volta, chiunque) capace di azioni straordinarie.

Dedicato a un pubblico vasto, di addetti ai lavori ma anche di semplici curiosi, il libro di Piero Bocchiaro colpisce per il rigore e per la lucidità con cui affronta un tema difficile, doti molto rare in un giovane studioso.