II
Il barone
Il barone Salvatore De Panè era un uomo di mezza età, di origini francesi da parte di padre. Aveva i capelli grigi e il corpo precocemente avanti negli anni. Non si curava molto della politica, ma il suo sangue e la sua discendenza gli imponevano di occuparsene.
Tra divisioni e lotte di potere, Salvatore non aveva mai preso apertamente posizione nel Senato cittadino, anche se ne era uno dei membri. Sebbene cercasse di celarlo – si supponeva, infatti, che fosse un Merlo a causa del suo titolo nobiliare – era uno dei pochi che andava al di là dell’apparenza e dei dominatori di turno.
Si sentiva siculo poiché nato e cresciuto in quelle terre materne e patteggiava solo per il popolo siciliano. Solo in pochi, però, conoscevano questa specie di tradimento al suo sangue e al suo titolo nobiliare.
In quella situazione gli ideali personali non esistevano più.
Il barone aveva quattro figlie di diversa età e una moglie ancora giovane per sperare nell’arrivo di un figlio maschio a cui passare il titolo. Un giovane nobile come lui e, come da tradizione, forte e lavoratore.
Tuttavia, non era ancora accaduto. Ginevra, la più adulta delle figlie, era quasi in età da marito. Matilde era poco più che una bambina, aveva tredici anni. Infine, Agnese e Rosalia erano ancora troppo piccole per comprendere la situazione che si stava creando in città.
La carestia, i saccheggi e le lotte celate apparivano, a loro, scenari lontani.
Tutte le sue figlie erano, inoltre, ben distanti dai pensieri riguardo la politica. Come da tradizione per quei tempi, una donna doveva solo essere brava a curare la casa e partorire figli. Nessuna di loro, tuttavia, era ancora promessa in matrimonio, né troppo dedita alle faccende domestiche.
Le quattro ragazzine passavano le giornate a rincorrersi nei campi, a disegnare e suonare, com’era d’uso negli studi delle giovani donne di famiglia nobile, e solo quelle già entrate in società partecipavano a cerimonie e banchetti ufficiali.
Non era, per loro, ancora il tempo di preoccuparsi di qualcosa molto più grande e adulto. Almeno così avevano creduto sino a quel giorno.
L’unica cosa che accomunava le figlie del barone era l’essere bugiarde. L’aspetto fisico era tutto fuorché simile. Le giovani, però, non erano bugiarde per scopi malvagi: si trattava di bugie bianche per celare la loro vera natura.
Matilde era la più bugiarda delle quattro. Pur di ricevere un regalo o un apprezzamento, faceva carte false. Alla secondogenita, piacevano i bei vestiti e gli accessori e non evitava di sbattere i suoi occhi blu per ricevere qualcosa.
Rosalia era il maschiaccio della famiglia. Fingeva di farsi piacere gli ordini di sua madre riguardo all’educazione, ma a pochi anni di vita già faceva lo scoiattolo, arrampicandosi su alberi pericolosi.
Agnese era troppo piccola, ma mentiva spesso su cosa le piacesse mangiare.
Ginevra, invece, aveva costruito un falso atteggiamento di figlia educata e domata dai genitori perché non voleva mai scontentarli. Tuttavia, dietro le loro spalle, rubava libri al padre, li nascondeva e poi li leggeva.
Per noi contemporanei compiere un’azione come leggere è nulla, ma a quei tempi in cui alle donne, anche quando nobili, a malapena era concesso di conoscere lettura e scrittura, quell’atto era considerato un grande peccato, poiché andava contro l’educazione familiare del tempo. Era una sorta di sfregio.
***
Il barone Salvatore De Panè portò con sé Ginevra il giorno in cui si recò al Senato cittadino. La ragazza l’avrebbe accompagnato fino alla porta. Poi, in quanto donna sarebbe rimasta fuori per sbrigare le commissioni legate alla casa, come si conveniva al ruolo femminile in quell’epoca.
Era un tempo in cui non vi erano diritti, né la libertà di combattere per le proprie idee, se si era donna o schiavo. Secondo il padre, lei e le sue sorelle, come l’altezzosa madre, dovevano stare ben lontane da faccende che non competevano alle nobili fanciulle.
Tuttavia, durante il breve viaggio, quel giorno, avrebbe avuto compagnia nei momenti di silenzio legati agli eventi, che appena giunti in città si dimostrarono immediatamente più seri dei peggiori scenari immaginati dal barone.
Il vociferare della mattina precedente era aumentato, così come la presenza di nobili e curiosi davanti al Senato cittadino: riuscire a entrarvi era quasi impossibile, vista la massa ferma davanti alla porta principale.
Il barone De Panè scese dalla carrozza salutando la figlia, la quale rimase seduta al suo posto, incredula di tanto movimento.
Ginevra era una ragazza nobile, ma semplice. Aveva studiato, come da tradizione, secondo il volere del padre. Pochi grilli saltavano nella sua testa. Le sue giornate trascorrevano tra studio, corse con le sue sorelle nelle campagne; ogni tanto andava, insieme ai suoi genitori, ai banchetti che il suo status sociale richiedeva. Era legata alla sua famiglia; non contraddiceva mai il padre, sebbene da anni gli nascondesse il suo amore per la lettura.
Le curiosità dovevano stare lontano dal ruolo di una giovane nobile. Specialmente in Sicilia, certi atteggiamenti erano al bando e condannati. Nessuno sfarzo particolare era presente nei vestiti che Ginevra indossava: solo ricami bianchi, il suo colore preferito. I suoi capelli erano sempre ben raccolti in basso, con un fermaglio a forma di rombo. Le importava poco quale fosse la moda tra le ragazze nobili del tempo. Sua sorella Matilde, invece, era la vanesia della famiglia, come la loro madre.
A Ginevra bastava la conoscenza.
La ragazza sedeva pacatamente sulla carrozza, osservando il mondo che la circondava. Non importava se avesse percorso quelle strade migliaia di volte. A Ginevra piaceva osservare. La città cambiava ogni giorno, a ogni folata di vento. Così le diceva la sua mente ogni volta che passava lungo la palizzata, osservando i vascelli stranieri attraccare e portare notizie.
La palizzata era un muro di abitazioni, che sorgeva a ridosso del complesso cittadino di fronte al mare. La costruzione si estendeva per chilometri lungo l’affaccio naturale della città, seguendo la linea della falce, che ne era il simbolo. Il porto si allungava parallelamente al maestoso edificio, rendendo la cittadina di uno splendore che nella storia non raggiunse mai più.
I commerci di qualsiasi natura avvenivano in quel luogo. A quell’epoca, dall’Oriente attraccavano in quel porto commercianti di tutti i generi. Dal nord giungevano carichi di materiale, come dalle Indie, dall’Africa e da tutto ciò che oggi chiamiamo Europa. Persone di ogni nazionalità facevano parte di quella New York europea di scambi commerciali del Seicento, ma insieme a esse arrivavano i problemi e i dominatori. Chiunque voleva impossessarsi di quel lembo di terra di confine, che offriva potere e guadagno.
“Ginevra, hai la lista di tua madre?” chiese il padre, scendendo dalla carrozza, alla ragazza ancora intenta a capire il perché di quel baccano.
“Sì, padre. Che cosa sta accadendo?” rispose e domandò, incuriosita dalla massa di persone che si accalcava, di minuto in minuto, davanti al Senato e nelle vie limitrofe.
“Non sono cose che devono interessarti” affermò con tono autoritario il padre, ordinando al cocchiere di continuare per quella via e di non tornare prima di pranzo. I tumulti davanti al Senato erano, infatti, divenuti troppo pericolosi.
Sebbene la carrozza si stesse allontanando sempre più dal Senato, lo sguardo di Ginevra rimaneva fisso su di esso, almeno mentalmente.
La ragazza cercò di contenersi, non voltandosi, come le aveva ordinato il padre, ma i suoi piedi iniziarono nervosamente a tamburellare. Il collo ebbe dei piccoli spasmi muscolari poiché era voltato nella direzione sbagliata, avanti e non indietro verso il tumulto che stava accadendo e che lei non doveva conoscere.
Ginevra fece un lungo respiro e si voltò indietro, sentendo di sbagliare. Quel movimento era una rottura rispetto alle regole del padre, cosa che di rado faceva. Tuttavia, provò un senso di coraggio come mai prima.
Sotto il suo sguardo, in lontananza, il popolo aumentava davanti al portone del Senato cittadino. La gente intorno a lei si avviava nel senso contrario alla carrozza, intanto che il cocchiere continuava a eseguire gli ordini di suo padre.
A quel punto non le fu più possibile trattenersi.
“Cocchiere, la prima commissione è proprio dietro l’angolo” abbozzò la giovane baronessa, mentendo con voce tremolante. Stava dicendo una bugia, ma era a fin di bene. In fondo, in tutto quel trambusto poteva accadere qualcosa al padre. Come l’avrebbe giustificato una volta tornata a casa, se fosse rimasta indifferente a riguardo? Una bugia bianca, per la sua testa ancora da bambina.
Giunta davanti a una piccola bottega di setaioli, commercio ben impiantato nella città, Ginevra scese dalla carrozza, lasciando un’altra bugia dietro le sue spalle.
“Può darsi che perderò molto tempo, date acqua ai cavalli” suggerì la ragazza al cocchiere prima di entrare nel negozio.
Fece pochi passi, avviandosi all’interno dell’edificio e quando vide il cocchiere allontanarsi, uscì camminando velocemente, per perdersi in quel flusso di folla verso il Senato.
Passi nervosi, per aver infranto una delle prime regole della sua vita, forse la più importante.
Il Senato cittadino si trovava nel centro della città, vicino al porto, in uno stabile di antico splendore secondo quell’architettura dalle mille tradizioni. All’interno vi era una grande scalinata centrale sino alla camera del Consiglio, dove il barone De Panè e gli altri nobili della città si trovavano in consultazione insieme allo Stratigoto.
Quel luogo non era per le donne, sia per la mentalità dei tempi sia perché la politica era affare solo per pochi uomini. Ginevra non si era mai recata in quei luoghi, neanche per le cerimonie ufficiali alle quali erano invitate anche le donne poiché solo quelle sposate potevano accompagnare i mariti. Sebbene ne avesse sentito parlare da sua madre, non conosceva il Senato al suo interno. La camera di Consiglio era, però, ben in vista in cima alle scale, così salì, con il vociferare delle persone in strada che diminuiva pian piano che se lo lasciava alle spalle.
All’improvviso, vi fu un silenzio tombale, fatto di sguardi e gesti che solo tra siciliani si possono comprendere. Spaventata delle possibili reazioni che la sua presenza poteva suscitare, cercando di non farsi notare, si fece spazio sino a entrare all’interno della camera di Consiglio, dove alcuni uomini sostavano in piedi creando una piccola folla.
In fondo, i membri dei Merli sedevano a destra della Camera, osservando i Malvizzi al lato opposto. Al centro lo Stratigoto controllava delle carte disposte su un lungo tavolo in legno. In tanto silenzio e tensione, la presenza della fanciulla fu notata solo da coloro che la circondavano e, in lontananza, da un giovane militare che, con gli occhi verdi, osservava incuriosito quella grazia femminile all’interno di quel luogo.
I nobili in piedi riempivano ogni angolo, osservando ogni singolo gesto di entrambe le fazioni.
In lontananza, Ginevra scorse anche il padre.
Il silenzio fu interrotto bruscamente dalla voce dello Stratigoto.
“Non siamo riusciti a sequestrare i vascelli sulla via di Napoli, abbiamo perso il frumento” disse il militare con autorità.
Da mesi, il frumento era la prima causa di ribellione della popolazione. I depositi cittadini erano al collasso e il popolo era morente d’inedia. Quella prima risorsa di cibo era riservata a pochi, ovvero ai nobili; il resto della popolazione era rassegnato alla morte.
Pur di mangiare, si era deciso di fermare, al passaggio dello Stretto, alcuni vascelli sulla via di Napoli. La città di Messana era autorizzata a farlo secondo i diritti da essa acquisiti. In quei giorni, sequestrando quei carichi, la popolazione si sarebbe nutrita. Tuttavia, i tentativi compiuti dallo Stratigoto e dai suoi fidati furono, stranamente, inutili e non abbastanza efficaci da ottenere la salvezza del popolo.
Ginevra osservò in silenzio, cercando di comprendere di cosa si stesse parlando. Ignara della situazione, ascoltò il vociferare di coloro che, intorno a lei, abbozzarono dei commenti sussurrati non molto piacevoli. Cercò, inoltre, di catturare lo sguardo del padre e la sua reazione, ma non vi riuscì.
Dopo le parole dello Stratigoto vi fu un crescendo di voci. Quelli che si trovavano fuori dalla porta entrarono nella camera di Consiglio.
La carestia era il male assoluto della città. Una guerra che non si combatteva lontano dalle sue mura, ma all’interno, contro i dominatori da sempre presenti, nel bene e nel male, i quali, con la loro sete di potere, avevano impedito persino il nutrimento dei cittadini.
Il popolo aveva perso, ma non contro la nobiltà. Al contrario, una parte di essa era apprezzata e benvoluta. La rabbia era contro quella fazione che aveva fatto del popolo una massa di schiavi per assecondare il suo potere personale, negando l’importanza della sua stessa vita e della sua sopravvivenza.
La confusione divenne tale che Ginevra si allontanò, rintanandosi in un angolo vicino la porta di uscita, in attesa che il padre la trovasse. Pochi sguardi si posarono sulla baronessina: c’erano problemi molto più grandi del vedere una donna dentro la camera di Consiglio e urlarvi contro. Bastò un rimprovero del padre, appena la vide in lontananza: uno sguardo che fu peggiore di una frustata.
“Cosa ci fai qui?” le chiese avvicinandosi.
“Fuori la situazione è peggiorata. Ero preoccupata per voi, padre” cercò di giustificarsi.
“Presto, devi andar via di qui. Non è posto per te.”
Il barone prese il braccio della figlia, senza stringerlo, e si avviò con lei verso la porta. Il nobile, però, fu fermato da un capitano, Juan Cortez, che si avvicinò al suo orecchio, dopo avergli rivolto un silenzioso cenno di saluto con il capo.
“Puoi scappare o nasconderti dietro una donna, ma sappi che una delle prime teste su quel banco sarà la tua, Merlo” sussurrò il capitano al barone.
Cortez era un uomo di circa dieci anni più piccolo del barone, ma aveva già raggiunto gli apici del potere, grazie alle sue amicizie nelle fila dei membri filospagnoli insinuati nel Senato. Erano aristocratici pronti a tutto pur di mantenere i loro posti di potere, proprio come lui era pronto a mantenere il suo e a goderne dei servigi. Il suo aspetto, dai tratti marcati e dai modi falsamente gentili, richiamava la sua origine spagnola, sebbene fosse nato a Messana.
Il barone rispose rimanendo gelido, rivolgendogli uno sguardo di sfida. Era un uomo pieno di orgoglio, ma non credeva che quella affermazione avesse fondamenta. Nulla sarebbe cambiato: la carestia e la crisi economica sarebbero continuate come in passato. Non si fece, perciò, intimidire e proseguì uscendo dal Senato, lungo la via cittadina, tenendo stretta a sé la figlia.
Giunti fuori nuovamente furono fermati da un nobile, suo amico e cugino. Questa volta a trattenerli era, infatti, il vecchio marchese Giovanni Castillo, un uomo anziano, considerato saggio da chi lo conosceva. Anche lui era ancora scosso dalla notizia e aveva preferito allontanarsi dal Senato e dai commenti.
Lo circondavano alcuni nobili e membri dell’esercito che, avendo assistito a quanto accaduto all’interno dell’edificio, conversavano sui possibili scenari che si sarebbero creati da lì a breve.
Il barone e la figlia furono costretti a fermarsi.
“Questa situazione potrebbe degenerare molto velocemente. Il commercio è in crisi. Quando non avremo pane per i nostri denti neanche il principe in persona potrà aiutarci” disse il marchese, trovando l’appoggio di chi lo circondava.
Improvvisamente, nel tumulto, si scatenarono degli scontri tra nobili a pochi metri dal gruppo. Qualcuno aveva parlato troppo. La situazione era al limite, a tal punto che alcuni uomini in divisa furono costretti a mettere fine al litigio.
Uno di questi, dopo aver cercato di far cessare il subbuglio, si avvicinò al gruppo di nobili che ancora conversava, osservando la scena da lontano.
“Capitano Olivier, qual buon vento vi porta nella nostra città? Sono passati anni dal nostro ultimo incontro” disse con tono familiare il marchese all’uomo mentre si avvicinava.
Era un ragazzo sulla trentina, molto alto, dai capelli castano chiari ondulati. Camminava con il rigore dell’Arma ed era rimasto quasi impassibile dopo aver fermato lo scontro.
“Marchese...” disse salutandolo con gesto militare, “sono giunto in città solo ieri, il principe ha inviato me e il generale Estevez ai primi sentori di un possibile ribaltamento nel Senato della capitale. Sono molto lieto di incontrarla ancora dopo tanto tempo” continuò senza scomporsi troppo.
Tuttavia, in pochi sguardi, il giovane capitano aveva già inquadrato chi lo circondava, compresa la ragazza che minuti prima aveva catturato la sua attenzione all’interno della camera di Consiglio.
“Le presento alcuni miei amici che, come lei, si son trovati a discutere degli eventi. Il mio figlioccio Francesco Fiumara, il conte Marco Lion e, infine, il mio caro cugino, il barone Salvatore De Panè e sua figlia Ginevra” disse l’anziano marchese, con modi amichevoli.
“Avevo già notato la sua presenza qualche minuto fa, in luoghi che non sono di sua competenza” osservò il capitano.
Dopo essersi inchinato al cospetto dell’unica donna del gruppo, un mezzo sorriso comparve sul suo volto, sebbene fino a pochi istanti prima fosse apparso rigido. Il suo tono suonò, tuttavia, acido alla rappresentante del gentil sesso.
Ginevra rimase, infatti, impettita e offesa da quella affermazione.
“Il capitano Rodrigo Olivier è il figlio di un mio vecchio amico di battaglia, con cui ho combattuto anni or sono. Giunge a noi dalla lontana Barcellona spagnola, per vegliare sulle nostre teste” affermò Castillo.
“Ora è giunto il momento di riposare le nostre menti dopo tutti questi avvenimenti. Possiate voi condurre un buon soggiorno in città, capitano”.
Dopo i lunghi saluti e le promesse di rincontrarsi il prima possibile per eventi più piacevoli, il gruppo si sciolse. Ciascuno voleva tornare alla propria dimora, ignaro che da lì a breve tutto sarebbe cambiato.