III

Il cesto

Idi di Marzo 1672.

Le voci raccontavano di lotte fratricide e subdole tra i cittadini. Con il passare dei giorni, più non vi era cibo, più gli odi aumentavano. Lo Stratigoto non faceva nulla per metterne fine. Anzi, dove poteva, aumentava gli scherni e inseriva nelle orecchie pulci peggiori di sanguisughe, inviando i suoi fedelissimi sia tra il popolo sia tra la nobiltà.

Quando comandato, gli adepti della corona spagnola aizzavano il popolo contro i senatori, con la scusa che questi ultimi si stessero appropriando dei loro averi e del loro cibo. Il popolo, non avendo di cui cibarsi, iniziava a rivoltarsi. Minacce e scontri si propagavano per la città, in un crescendo di violenza. Non importava chi fosse l’artefice della crisi e della carestia: non vi era differenza, soprattutto sul tavolo della cucina.

La gente moriva di fame. Il frumento era il nutrimento di poveri e dei ricchi, ma in quel momento i depositi cittadini erano vuoti come le pance dei messanesi.

Allo stesso tempo, con il suo potere, lo Stratigoto muoveva le teste dei nobili contro i cittadini poveri, affermando che i nobili fossero contrari al mantenere Messana capitale, insieme ai pregi acquisiti dopo tanto lavoro.

La corona aveva ordinato al militare di rendere la città più debole possibile e quello era il miglior modo, lasciando che si distruggesse la solidarietà tra fratelli.

***

Quel pomeriggio di metà Marzo una quiete irreale regnava in città. Il silenzio totale era sintomo di qualcosa di grande all’orizzonte.

Nelle campagne, per i contadini era stato un giorno qualsiasi: sveglia quando il cielo era ancora scuro, arare, raccogliere, portare i frutti al padrone e prendere la paga. Tuttavia, quel giorno un cesto in più apparve tra le consegne alla dimora del barone De Panè ed era stato inviato con intenzioni tutt’altro che amichevoli. Non era un dono, ma un biglietto di sola andata per un viaggio eterno.

Qualcuno aveva, infatti, deciso di divertirsi, la notte precedente, nelle scuderie di De Panè, facendogli trovare un ricordino durante le consegne del giorno seguente. Il gesto era abbastanza comune a quei tempi, in cui tra Merli e Malvizzi anche i contadini più fedeli trovavano uno schieramento.

La testa di un cavallo giaceva in un cesto di mele, il frutto preferito di De Panè. Il simbolo era chiaro: il cibo era ciò che mancava al popolo, e il barone, essendo nobile, era un Merlo, la razza da combattere. Non si conosceva chi fosse stato a tradirlo tra i suoi contadini, ma non avrebbe fatto differenza.

Alla visione tanto brutale e crudele – alla povera bestia erano stati strappati occhi e orecchie, per vedere e sentire le urla di chi moriva di fame – il barone ebbe un malore, al punto che dovette accorrere il medico.

Non importavano gli ideali del barone, se egli fosse in favore o contro il popolo. Ciò che i Malvizzi vedevano in lui era un Merlo e per questo doveva essere ucciso.

In realtà, Salvatore De Panè era solo un uomo avanti negli anni, con un corpo suscettibile ai grandi attacchi. Ebbe, infatti, un principio d’infarto, per cui Calegna, suo amico e notaio, fu subito chiamato, dopo pranzo, per portargli aiuto.

“Salvatore, sono giunto il prima possibile. Che cosa è accaduto?” chiese Marco Calegna con espressione preoccupata, entrando di corsa nello studiolo del castello dei De Panè.

“Le minacce continuano. Oggi, tra i cesti del raccolto, qualcuno ha inviato un messaggio forte e chiaro. Sotto le mele portate questa mattina, vi era la testa del mio migliore cavallo e un biglietto di omaggio alla mia persona. La bestia era stata privata di occhi e orecchie. Amico mio, non devo spiegarti il significato di questo gesto. Sappiamo entrambi cosa sta accadendo.”

Il tono rassegnato del barone fu come un tuono nel silenzio di quelle quattro mura. Calegna non era un uomo di molte parole, ma possedeva un volto espressivo. Era facile leggere ogni sua emozione. Aveva i capelli rossicci e la sua epidermide era molto pallida. Bastò poco, nella fretta di quel giorno, per fargli arrossire le guance e sudare qualche goccia, dopo le notizie che gli furono date.

“Troppo silenzio quest’oggi. Dovevamo capirlo. Mi domando cosa stia accadendo nel resto della città.”

Dopo questa frase, il notaio si fermò a pensare, guardando fuori dalla finestra della dimora di De Panè.

Era Marzo, ma c’era il sole. Da lassù era visibile l’intera falce, ma non i visi preoccupati di chi vi camminava lungo le vie. In quel pomeriggio, la calma che sovrastava il magnifico scenario rappresentava un paradosso forse più spaventoso di pesanti rivolte.

“Avete pensato alla possibilità di lasciare Messana per altri luoghi più sicuri?” domandò Calegna.

“Ho quattro figlie e una moglie. Fuggire lasciandole sole non salverebbe la mia coscienza” confidò il nobile all’amico.

“Allo stesso tempo, se rimanessi, lascerei una moglie vedova e quattro orfane senza protezione. Non riesco a trovare una via d’uscita. Volevo che voi mi deste consiglio. Oggi ho avuto un malanno dopo l’accaduto. Non sono più un ragazzo, perché non posso trovar pace? Per qual motivo, per il sangue di mio padre nelle mie vene? Siamo tutti uomini, uguali di fronte a Dio e il suo perdono, ma per il torto di uno, su questa terra, rischiamo di arrivare dal Signore prima dei peccatori.”

Il barone non era mai stato speranzoso di ricevere una risposta positiva. Però sentendo le proprie parole, comprese che chiedere di trovare pace fosse inutile.

“Quantunque, qual è la vostra decisione? Partirete?” chiese Calegna.

“Aspetterò. Forse tale attimo di tumulto troverà stasi. Dobbiamo solo pregare.”