IV

La notte dei fuochi

Lo Stratigoto era un uomo dotato della più fine dote dell’inganno e passava i suoi giorni nella sua stanza del Senato cittadino, inviando messaggi su direzione della corona spagnola ai suoi collaboratori, persone, nobili e militari, vicine a lui e incaricate di un’unica missione: aizzare le due fazioni dei Merli e dei Malvizzi l’una contro l’altra.

Se la città si fosse massacrata da sola, la Spagna avrebbe avuto facile vittoria. Al tempo stesso, in apparenza, il militare si mostrava ai Merli come uomo di cui fidarsi. Si fingeva dalla loro parte, cercando di mediare nel mantenimento dei privilegi cittadini, che, però, ostacolavano l’ascesa al potere della sua terra.

L’unico modo per conquistare la città era fomentare i Malvizzi, che erano dalla parte del popolo, facendo credere loro che tutti quei privilegi erano sbagliati e che il loro lavoro era sfruttato dai nobili per il loro potere personale.

In realtà, però, non era così. Tutti vivevano la fame e la crisi, che non erano colpa dei siciliani, ma della cattiva amministrazione dello Stratigoto e della corona spagnola, che, come una sanguisuga, si nutriva sfruttando la città.

Il militare riceveva ogni giorno i nobili al Senato cittadino, con un finto sorriso sulle sue labbra per incantarli e farsi considerare amico. Se avesse continuato il suo lavoro e fosse riuscito a compiere quell’atto di violenza, i suoi desideri si sarebbero avverati. Voleva essere servito come mai nessuno e acquisire privilegi dalla corona.

“Mi avete fatto chiamare? Che cosa desiderate?” chiese il capitano Juan Cortez, entrando nella stanza dello Stratigoto dalle pareti piene di simboli militari.

“Tra giorni il popolo sarà pronto alla ribellione. Mi sono giunti messaggi di gruppi preparati a lasciar bruciare il freddo gelido di quest’inverno, durante una delle prossime notti. Voglio che siate pronto per quel giorno, andando a casa del marchese Castillo. Rappresentatemi e raccontatemi i visi di coloro che sapranno di morte e violenza contro i loro cari” disse lo Stratigoto, giocherellando con un tagliacarte.

Il capitano annuì a tale richiesta senza batter ciglio. Anche lui voleva acquisire potere in tutto quel rumoreggiare di animi di cittadini in declino. Inoltre, da tempo, mirava alla posizione di generale delle guardie cittadine.

Nei giorni successivi a quell’incontro tra militari, sotto il nome di Malvizzi, decine di persone si riunirono nelle taverne, nei retri, negli scantinati e nelle case. Tra di loro anche membri della borghesia, nobili o figli di essi, con il desiderio di distruggere parenti e amici.

***

Era la sera del 30 Marzo. Il barone De Panè e la sua famiglia erano stati invitati per un banchetto non ufficiale a casa del marchese e cugino Giovanni Castillo. Un’ottima occasione per gli uomini di discutere della situazione di violenza chiusi in una stanza e per le donne di spettegolare, vestite con l’ultimo capo acquistato, sebbene di quei tempi e con quella crisi pochi potevano permetterselo.

Il marchese Castillo viveva in un’antica casa patronale, con grandi colonne sui lati dell’entrata principale. All’interno, tante stanze creavano piccoli salotti uniti tra di loro da lunghi corridoi.

La dimora appariva come un palazzetto bianco. Benché non fosse lontano dal centro cittadino, possedeva un piccolo terreno delimitato da un muro in pietra grigia alto non più di un metro. Alberi di banane e frutti erano piantati e crescevano rigogliosi nel suo giardino, importati dal sud delle Americhe, ove il marchese si era recato in uno dei suoi viaggi.

Aveva da tempo lasciato le sue campagne e i suoi affari al figlioccio Francesco Fiumara. Oramai era un uomo alla soglia degli ottant’anni e non gli era più favorevole vivere troppo lontano dalla città e dal proprio medico. Anch’egli era membro del Senato cittadino. Era uno dei pochi presenti quando, nel 1622, era stata realizzata la palizzata. Era stato anche uno dei primissimi a studiare all’università della città. Di Messana aveva visto lo splendore, ma anche il declino. Era conosciuto da tutti per il suo titolo nobiliare e per la sua carriera. Anni prima, dopo aver acquisito il ruolo di generale, aveva, tuttavia, deciso di ritirarsi per questioni personali, che riguardavano principalmente i suoi gusti sessuali.

Quella sera al banchetto vi erano nobili e qualche militare. Per il marchese non faceva molta differenza se i partecipanti fossero di sangue nobile o meno. Peraltro, alla sua età, certe lotte tra Merli e Malvizzi non lo interessavano, né ci avrebbe messo mano. Alla sua tavola vi erano membri di entrambi gli schieramenti, ma anche amici borghesi. Si diceva che tutta la popolazione fosse passata dal suo salotto. Quella cena era, dunque, solo una come tante.

Matilde, la seconda figlia del barone De Panè, giunse al banchetto insieme alla sorella maggiore e ai genitori. Era una ragazzina loquace, dai lunghi capelli color miele, e sedeva su un vecchio divano tappezzato con una stoffa a fiori, cercando di parlare con chiunque le si fermasse vicino. Fremeva di crescere per entrare nel mondo degli adulti, parlare con donne sposate e sorseggiare il tè, spettegolando a voce bassa.

La tredicenne osservava Ginevra con attenzione, catturando ogni possibile gesto che un giorno le sarebbe potuto essere utile. Sua sorella maggiore era lontana, in un angolo del salone, impegnata a scambiare poche parole con alcuni nobili coetanei.

Matilde voleva essere come lei, già grande abbastanza da poterne scegliere uno e indossarlo come un cappellino, mostrandolo in bella vista. Non capiva come mai sua sorella non lo facesse. Intorno a lei si trovavano, in quel momento, tre giovani pronti a chiedere la sua mano. Matilde avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di trovarsi in quella stessa situazione.

Ginevra era una ragazza dai tratti mediterranei, sebbene il suo cognome fosse relativamente siciliano. Si sa che la Sicilia, piena di dominazioni, dà colori misti ai suoi figli. Le sue sorelle erano bionde, con occhi chiari e pelle bianca come lenzuola. La maggiore delle De Panè no: era di carnagione scura, aveva i capelli ricci e occhi color terra bruciata.

La ragazza era sempre circondata di attenzioni a quei banchetti, dove si recava di malavoglia. Non si vedeva ancora adulta, a differenza di Matilde. Sua sorella minore, invece, ancora non era entrata in società e riusciva solo dopo ore di capricci a farsi portare a quei festeggiamenti.

Ginevra voleva rimanere sola con i suoi pensieri. Non desiderava trovare marito o spettegolare. Non era ancora pronta per farlo. Si sentiva una bambina, seppur quasi non più adolescente.

“La vostra compagnia rallegra questa serata lontana dai tumulti, Ginevra” disse uno dei tre giovani intorno a lei, pensando che coprendo la baronessina di complimenti avrebbe catturato la sua attenzione.

“Sono molto lieta di essere una ricercata via di fuga dalla realtà” cercò di abbozzare Ginevra gentilmente. Anche se nella sua mente sperava nella conclusione repentina di quei discorsi, con l’inizio della cena.

“I tumulti non possono essere fermati, neanche di fronte al più bello dei visi.”

Il capitano Rodrigo Olivier interruppe quel vaneggiare di complimenti di cortesia. Il giovane militare era appena giunto insieme al generale Estevez e al capitano Cortez, il quale era presente, come ordinato dallo Stratigoto.

“Mi ricordate Esopo, capitano. La formica dei suoi racconti, che durante il canto felice della cicala raccontava di male nove e doveri” replicò acidamente l’orgogliosa Ginevra.

Quando udì quella voce, ricordò il loro primo incontro e quell’offesa a cui lei non aveva potuto ribattere perché in presenza paterna. Ora, lontana da possibili rimproveri, poteva vendicare quel torto subito e mai dimenticato, avviando un battibecco con il capitano Olivier carico di sottintesi.

“La vostra lingua è tagliente. Non sarete mica Medusa, sempre che voi conosciate tale mito...” replicò Rodrigo.

Per il capitano fu facile comprendere che il problema principale degli atteggiamenti della ragazza fosse l’essere trattata con svantaggio a causa del suo sesso, visto che bastava poco per ricevere indietro una reazione irruenta o leggere sul suo volto oltraggio e offesa a maldicenze maschiliste. Il tanto incalzare di battute divertì il capitano, che non si tirò indietro di fronte a quella sfida.

Durante lo scambio di battute, che non fu di breve durata, i tre giovani presenti si allontanarono da quella che sembrava una gara di botta e risposta. Partecipare a quella sfida era una sentenza di suicidio, se in un prossimo banchetto si mirava alla compagnia della loro preda, la bella Ginevra.

In lontananza, Matilde non osservava più la sorella. Ora era occupata a intraprendere una civettuola conversazione con il generale Estevez, sebbene potesse essere suo padre o suo zio.

“Vostra sorella è particolarmente accomodante, nonché dotata di una bellezza molto eterea, non trovate?”

Chiese Rodrigo nello scambio di battute.

“Se vi piace tanto perché non la chiedete in moglie? Fidatevi di me, capitano. Non si opporrebbe dopo due conti in tasca, sebbene sia a malapena uscita dalla sottana di mia madre”.

Ginevra e sua sorella erano poco simili. Non litigavano mai, ma spesso dalle loro differenze di vedute scaturivano frasi poco fraterne.

“Avete la stessa lingua tagliente anche riguardo a vostra sorella?” chiese il capitano, incuriosito di come, anche nei confronti di un familiare, lontano da possibili giochi di superiorità tra sessi, la reazione non fosse differente.

Rodrigo era uno di quegli uomini che considerava inconcepibile l’andare oltre i limiti: vi era o bianco o nero; il grigio non era una gradazione nei suoi pensieri, né doveva essere presente nel mondo che lo circondava.

“No. È che so che non aspetta altro da una vita. Anche se ancora è così giovane, diversamente da me. Io voglio vivere sola ancora per molto. Non m’interessano i banchetti, i cappellini o i pettegolezzi” replicò la ragazza, incamminandosi lungo i salotti della casa, la cui mobilia cambiava stile di stanza in stanza.

“Molto interessante il vostro punto di vista. Un po’ un paradosso, visto che fino a pochi minuti fa vi circondavano dei giovani in attesa della vostra approvazione e voi non eravate lontana dal pavoneggiarvi tra essi. Come ogni donna, vi piace essere riempita di complimenti, fatti da poeti o fiorai sempre alla vostra porta” osservò, con il tono di voce di colui che pensa di saper tutto.

Ginevra tenne testa a quella discussione, sin quando trovò la scusa di voler prendere una boccata d’aria nel balcone del marchese e si allontanò dal suo interlocutore. Si ritrovò, così, sola a osservare il cielo che via via era divenuto nero come la pece, ma con luci bianche ben visibili: erano stelle.

Cercava ristoro, lasciando perdere il suo sguardo nell’infinito. Era scossa, poiché solitamente taciturna, ma soprattutto perché stanca di quel dover dimostrare di essere migliore del suo avversario. Quello era un buon luogo per ragazze come Matilde, non per lei, continuò a ripetersi scuotendo la testa.

“Voglio andar via” disse sottovoce, auspicando di essere sola.

“Eccovi, credevo vi foste persa!” interruppe Rodrigo. “Dove volete recarvi? Non vi avrò stancato? Forse siete troppo delicata per tener testa a qualcuno, in fondo siete solo una donna.”

“Ma si può sapere quale problema avete nei miei confronti?” sbraitò Ginevra. “Cosa vi ho fatto per essere trattata dal primo giorno come se fossi una stupida? Qual è il vostro problema, capitano?”

La rabbia si accese sul suo volto.

“Che furore inaspettato, molto interessante! Non avrei scommesso su una vostra reazione neanche una zecca d’argento, ragazzina viziata per come apparite” disse lui acidamente.

Ginevra, a tale offesa, non si contenne più e improvvisamente, senza che il capitano si accorgesse dell’impeto dei suoi movimenti, gli diede uno schiaffo in faccia con tutta la sua forza, a tal punto da lasciarvi un alone di rossore.

“Mai dirmi che non sono in grado di provare o di conoscere qualcosa solo perché sono donna. Voi non sapete nulla della mia persona, se è vero che sia viziata, solo perché nobile, o se è vero che, come le mie coetanee, smanio solo per prender marito. Non vi permettete mai più di giudicarmi o io farò lo stesso, e il vostro ego sarà morto quel giorno. Voi sarete pure un uomo, più forte di me fisicamente, ma il mio cervello è grande quanto il vostro e funziona allo stesso modo.”

Dopo quest’ultima battuta, la giovane nobile andò via, lontana dal capitano e dalla sua misoginia.

Tuttavia, Rodrigo, ancora sorpreso, continuò a seguire per un lungo tratto Ginevra, la quale, in pochi minuti, pur di sbollire, percorse quasi tutta la casa del marchese.

All’improvviso, qualcosa catturò l’attenzione del giovane militare e lo fermò. Giunto vicino alla porta d’ingresso, il ragazzo vide il capitano Cortez accostato a essa. Qualcuno, il cui volto non era delineato nella notte, stava comunicando qualcosa al suo orecchio in grande segretezza.

“Potrebbe essere chiunque” pensò Rodrigo, “forse solo una donna”, visto il sorriso che apparve compiaciuto sul volto del collega.

Rodrigo perse, quindi, di vista Ginevra, sino a quando non si accomodarono a cenare. Erano seduti frontalmente, non troppo lontani, lungo la tavola imbandita, con pietanze opulente e tovaglie purpuree.

La cena era iniziata da alcune portate quando giunse a interromperla uno dei contadini del barone De Panè, che piombò nella stanza accompagnato da un membro della servitù del marchese, il quale non riuscì a fermarlo.

Fu l’inizio del cambiamento.

Il suo aspetto turbò immediatamente gli animi dei presenti, che smisero di mangiare alla vista dell’uomo. Il silenzio come una mannaia tagliò le risa.

Il viso del contadino appariva molto provato e sporco di fuliggine. Riusciva a malapena a parlare, a causa della tosse convulsiva che lo aveva colpito.

“Barone, incendi in tutta la città! Ferro e fuoco! Parte del castello sta bruciando, dovete tornare subito! Il tetto sta crollando, abbiamo bisogno di acqua e di aiuto!” L’uomo era disperato e tossiva, tra le parole.

“Cosa?” replicò sconvolta la baronessa Beatrice, moglie di De Panè.

“Fuoco, fuoco ovunque e urla per la città in nome di Carlo II!” rispose il contadino.

I nobili presenti si allarmarono a tali parole.

“Sono stati i Malvizzi. Dobbiamo tornare tutti alle nostre dimore e pregare che si fermino questa notte” affermò il barone De Panè, che di fretta abbandonò il banchetto con la sua famiglia.

“Vi scorteremo noi. La vostra dimora è la più lontana, rischiate il linciaggio durante il tragitto” disse il generale Estevez, appena i De Panè giunsero sulla loro carrozza fuori dalla casa del marchese.

Rodrigo era al fianco del suo superiore, in sella al suo cavallo marrone, che nel buio di quella notte rispecchiava le sfumature rosse della tragedia sul suo manto. Una notte in cui le luci erano fuochi per distruggere e non per riscaldare in quell’inverno freddo.

La città era stata messa a ferro e fuoco dai Malvizzi o da chi si considerava tale. Molte case dei senatori bruciarono e un assalto alle prigioni liberò ben ottocento detenuti. Molto prima della presa della Bastiglia di Parigi, a Messana si compiva lo stesso atto di rivoluzione contro una parte della nobiltà.

Il tragitto sino al castello del barone fu molto difficoltoso. I detenuti correvano per le vie esultanti, saccheggiando la città. Le case dei Merli bruciavano, il fumo era incessante, come le lacrime di chi quella notte non era riuscito a salvarsi, rimanendo intrappolato nel suo letto.

Non vi erano solo uomini, adulti e nobili. In quelle case vi erano anche donne, bambini e lavoratori che non c’entravano nulla con le lotte di potere.

Soddisfatto di quell’atto che avrebbe decretato la fine della città, lo Stratigoto rimase inerme a osservare le scene di violenza e di morte in quella notte di Marzo bollente.

Quando il gruppo raggiunse il castello, fu in grado di vedere il disastro già dal lontano cancello.

Il fuoco illuminava a giorno le piantagioni. La mezza ala del castello, dove settimane prima Carmela, la cameriera, aveva sbattuto una tovaglia dagli antichi ricami, stava bruciando. L’antico soffitto era in procinto di piegarsi su se stesso, mentre le sue travi cedevano.

Una trentina di uomini cercavano di spegnere il fuoco con la sabbia e l’acqua, ma era inutile. L’unico modo era cercare di contenerlo sino a quando non si sarebbe spento da solo, sperando che il vento smettesse di respirare, spostando le fiamme in tante direzioni.

La baronessa iniziò a urlare quando vide la piccola Rosalia che teneva per mano la sua balia. Era una bambina di appena cinque anni, indossava ancora la sua camicia da notte bianca, ma non era più candida: c’erano macchie di sangue e cenere.

Pian piano, alla vista del barone, delle sue figlie maggiori, della moglie e di chi vi era con loro, uno dei contadini si mostrò nell’ombra: teneva in braccio il corpicino di Agnese.

Per la piccola di casa non vi era stato scampo, ma almeno il fuoco aveva risparmiato il suo corpo, lasciandolo intatto. Beatrice scoppiò in lacrime, alla vista della figlia.

Le stanze di entrambe le bambine si trovavano in quell’ala della dimora in distruzione. Chiunque avesse appiccato il fuoco aveva mirato a colpire una delle due figlie del barone. L’incendio era stato appiccato proprio nella stanza della più piccola.

Le urla strazianti di Matilde a quella scena non furono mai più dimenticate dai presenti, come quelle del resto della famiglia: era dolore puro di fronte a una violenza ingiustificata.

Con quale cuore si poteva commettere un atto del genere? Di cosa aveva colpa una bambina così piccola per meritarsi la morte?

Dopo il malore dei giorni precedenti, il barone ebbe un nuovo infarto, molto più forte. Per poco non morì. Il generale Estevez lo sostenne prima che cadesse al suolo.

Ginevra non riuscì a muoversi, né a versare una lacrima. Sul suo viso vi erano soltanto rabbia e odio. Parte della sua vita era stata distrutta insieme alla sua serenità, senza giustificazioni.

“Ginevra, allontanatevi, potreste farvi del male” disse Rodrigo, avvicinandosi alla ragazza davanti a quello scenario infernale.

“No!” replicò lei secca, senza piegare ciglio o spostare il capo. “Se devo vedere la mia vita distruggersi, lo farò guardando lo scenario in prima linea. Da oggi non mi considero più siciliana. Questo non è il posto dove sono cresciuta, né questi sono gli animi delle persone con cui ho vissuto sino a ora.”

Quella notte, ben diciotto case dei senatori furono distrutte e con esse spezzate vite innocenti di figli, mogli e amici.

Il giorno dopo, in città, vi erano solo fumo e nebbia che coprivano il sole. Il grigio della cenere aveva creato un manto lugubre sulla cittadina e il vento l’aveva aiutato a espandersi anche nei luoghi dove non vi erano stati incendi.

Nei giorni successivi la città fu piena di teli viola e neri. In ogni chiesa vi era un funerale e lacrime piovevano come pioggia.

Il funerale della piccola Agnese fu tenuto nella chiesa più vicina alle terre della baronia, non lontano dalle mura della città. Pochi vi parteciparono, secondo il volere del barone. Era accettato solo chi quella notte si era dimostrato amico, aiutando la famiglia, e pochi parenti stretti, i quali, in parte, pure avevano subìto delle perdite.

Nella mente del barone non vi era che un pensiero costante: il rimorso. Se fosse andato via non sarebbe successo: i rivoltosi non avrebbero avuto motivo di attaccare delle donne poiché ai Malvizzi non importava di loro, ma del nobile. Lui era stato minacciato: di lui era la testa che doveva essere posata sul tavolo del Senato cittadino! Non aveva ascoltato, e ora sua figlia era morta al suo posto.

Anche le teste dei senatori Merli caddero una dopo l’altra, in un crescendo di morti e assassinii. C’era chi moriva per paura e chi, invece, fu ucciso per la strada. Alla fine, però, fu solo uno sterminio fratricida.

I Malvizzi non erano più solo il popolo, ma anche parte dei membri del Senato che patteggiavano per la corona spagnola.

Le terre dei De Panè erano in parte bruciate. Le piantagioni e le distese di alberi dove sino a giorni prima si rincorrevano le figlie del barone erano distrutte.

Il castello aveva subito ingenti danni. Per metà era crollato e le stanze delle ragazze erano sparite poiché il tetto si era ripiegato su di esse. I libri nascosti di Ginevra, i vestiti della vanitosa Matilde, i giochi delle due bambine più piccole, la stanza da pranzo e altre camere erano state completamente bruciate.

Era l’inizio del cambiamento. Cominciava la battaglia per la sopravvivenza. Questo il barone lo aveva capito bene. Infatti, in tutta la città, i membri Merli avevano ricevuto minacce di morte simili a quella recapitata a De Panè.

Come preannunciato, le teste dei Merli si sarebbero posate sul tavolo del Senato cittadino. Non importava la democrazia, né che fossero tutti parte dello stesso popolo. Vi era una guerra non solo tra classi, ma tra fratelli, con gli stessi privilegi e titoli, per ottenere potere e supremazia. Neanche un padre avrebbe avuto pietà di dichiarare guerra al proprio figlio.