XIV
Il predominio e la paura
La città aveva perso i suoi privilegi. La Spagna aveva deciso di non fermarsi a quell’iniziativa compiuta. per assicurarsi ancor di più il predominio su quei mari e su quelle terre. In poco tempo, a dimostrazione del proprio potere, la corona fece erigere, all’interno della falce, una fortezza di forma pentagonale, al cui interno risiedevano coloro che della città risucchiavano vite e forze.
Il nuovo viceré, insieme al suo consigliere, decise di usare il pugno di ferro, imponendo un governatore militare ed eliminando lo Stratigoto, una presenza che, nel bene o nel male, sino ad allora aveva rappresentato un mediatore tra il popolo e la corona.
Il Senato oramai distrutto e oltraggiato fu sostituito con un magistero di eletti.
***
“Cosa ci fai già alzata e fuori alla luce del giorno? Potrebbero vederci!” si lamentò Matilde con la sorella.
Era mattina e il sole iniziava a prendere vigore. La ragazzina, oramai quasi donna, era visibilmente preoccupata dal gesto compiuto da Ginevra, che, coperta da un grande scialle di lana, sorseggiando una tisana, osservava all’orizzonte il sorgere della fortezza che avrebbe rappresentato la porta di una prigione.
“Rischiamo di farci ammazzare rimanendo qui” continuò Matilde.
“Perché? Farebbe qualche differenza?” domandò Ginevra senza spostare lo sguardo. D’impeto, la ragazza lanciò con forza la tazza, fino a farla rompere in mille pezzi nel dirupo sul lato del castello.
“Era del servizio di mamma! Cosa hai fatto?”
“Era! Hai detto bene. Matilde, svegliati! Siamo sole. Non ci sono mamma o papà ad aiutarci, né potrebbero mai farlo da dove si trovano. Nessun messaggio arriverà da parte loro in un prossimo futuro. Chissà quando scopriranno che siamo ancora vive. Ci siamo solo noi. Io e te, insieme a queste terre a malapena coltivabili. Bisogna cambiare testa! Cappellini e banchetti, come le buone maniere, sono morti tanto tempo fa. Non lascerò mai la nostra vita e la nostra tenuta nelle mani di questi infami.”
“Ma...”
“No, Matilde. Non abbiamo soldi. Nostra madre ha portato via con sé gli ultimi gioielli che potevano aiutarci a sopravvivere. Siamo già morte. La carestia giungerà sin qui e non potremo farci nulla. Tuttavia, bisogna opporsi a essa lottando, nella speranza di sopravvivere. Non una parola. Questo posto è una tomba. Più loro vedranno che non esistiamo, più cercheranno di approfittarsi di noi. Torneranno. Sì, loro torneranno ancora, ma la prossima non sarà per violentarci poiché donne sole. Semmai, lo faranno per ucciderci perché Merli e oppositori. Va a cambiarti. Dobbiamo andare da Calegna. Abbiamo bisogno di contadini.”
“Come faremo?” chiese sconvolta Matilde.
“Ogni tanto bisogna rompere qualche regola, quando non si vuole soccombere alla morte” rispose Ginevra.
Entrambe le ragazze rientrarono nella dimora. Indossando i pochi abiti rimasti nei loro armadi e salendo sulla carrozza utilizzata poche settimane prima per nascondere il corpo di Estevez. Le due nobili fanciulle si recarono alla porta dei Calegna.
***
La casa del notaio era un palazzetto dai bianchi colori che sorgeva appena dentro le mura della città. Le finestre erano aperte quel giorno, ma non c’era molto movimento dentro, né nei dintorni. Bussarono varie volte prima che aprisse un bambino, il figlio minore di Marco Calegna, il quale, con un gesto silenzioso, le invitò a entrare in casa, lasciando sospetti nelle due sorelle, che si scambiarono uno sguardo incuriosito.
“Volevamo parlare con tuo padre. Siamo le figlie del barone De Panè” disse Ginevra, accarezzando la testa del bambino, ma fu interrotta.
“Mio marito non può ricevervi...”
Una voce femminile s’introdusse nel silenzio. Era la moglie del notaio, Maria. Una signora con un corpo da matrona, dai tratti mediterranei. I suoi fianchi erano la dimostrazione che di figli ne aveva partoriti in abbondanza. La loro famiglia era, infatti, molto numerosa, per essere in un periodo di carestia: contava ben otto figli di età diversa.
“Buongiorno, signora Maria! Da quanto tempo non c’incontriamo! Saranno mesi” disse Matilde, sorridendo nel vedere finalmente un volto familiare.
“Entrate e accomodatevi. Dobbiamo parlare” rispose la donna, con tono amichevole ma freddo.
Il sobrio salotto di casa Calegna era situato ai piani inferiori e dava su un giardino. Il camino in pietra era acceso. Sebbene fosse Aprile e il clima siciliano fosse sempre mite in quei periodi, quell’anno vi fu una gelata.
“Vi vedo provata, state bene? Cosa è successo?” chiese Ginevra appena accomodata.
“Credevo che voi ce l’aveste fatta, non vedendovi. Purtroppo noto che come noi non siete riuscite a fuggire quel maledetto giorno...” rispose la donna.
I suoi occhi lentamente s’inumidirono. “Anche noi abbiamo cercato di fuggire, insieme ai ragazzi quel giorno...”
“Avete perso qualcuno?” chiese d’impeto Matilde, presa dalla conversazione, senza ricordarsi le buone maniere.
“No, siamo stati fortunati. Voi?”
“Nostra madre e nostra sorella sono riuscite a imbarcarsi, così ci ha riferito il capitano Olivier” rispose Ginevra, rallentando verso la fine della risposta.
“Mio marito e uno dei nostri figli sono vivi per miracolo, ma a causa di una cannonata non avranno più la vita che meritavano. Marco ha perso l’uso delle gambe; mio figlio ha subito una forte ustione in metà corpo.”
Le lacrime scesero sul viso di Maria. “Non abbiamo più soldi. I pochi risparmi li stiamo usando per comprare poco cibo razionato. Non so come faremo. Mio marito non può più lavorare. Ora è fermo a letto. I nostri figli sono ancora così piccoli. In più, nessuno darebbe lavoro a un nobile di questi tempi. Mio figlio più grande...”
“Lavorerà con noi, senza problemi” la fermò Ginevra. La sorella minore la osservò sorpresa. “Certo, non le assicuro una grande paga come quella che offriva nostro padre, ma parte dei frutti delle nostre terre e i proventi che ne ricaveremo. Sebbene sia un lavoro non molto facile.”
“Michele, vieni!” disse la madre alzando la voce di qualche tono. Un giovane ragazzo, dall’aspetto dinoccolato, entrò educatamente nella stanza, salutando le due ragazze.
“Sono le figlie del barone, ti daranno lavoro nelle loro terre.”
“Mio figlio, di cui vostro padre è stato il padrino, non è molto forte fisicamente. Però gli va bene di lavorare anche come contadino. Peraltro, conosce molti di coloro che lavoravano le vostre terre.”
“No, non sarà quello il suo lavoro. Occuperà il posto di suo padre. Il fatto che siate come noi, in una situazione complicata, non comporterà una mancanza di fiducia nell’educazione culturale del ragazzo. Soprattutto non al punto da farlo lavorare come contadino” disse Ginevra.
“Vi ringrazio, ma il diritto e i conti non sono mai stati il mio forte” replicò il ragazzo, osservando Matilde con interesse.
“Dov’è il problema? Studierai!” disse Ginevra, sorridendogli per ammorbidire il clima triste che inondava la casa.
“Comunicate a tutti i contadini che conoscete di spargere voce che i De Panè, Merli, cercano contadini con cui condividere i profitti delle loro terre. Sarà dato il 40 per cento a tutti coloro che si presenteranno per aiutarci.”
“Il 40 per cento ai contadini? È da pazzi! È troppo!” disse il ragazzo.
“Pensi che con meno accetterebbero?” chiese Matilde, facendo arrossire il ragazzo, suo coetaneo.
“Penso che il... il 25 per cento vada più che bene. Se non si convinceranno, si proporrà il 30” tartagliò Michele, mentre sua madre lo osservava sorpresa. Era stupita che il figlio, da sempre calmo, prendesse tanto l’iniziativa in una conversazione.
Il giovane Calegna era un bravo ragazzo. Aveva cercato di seguire le orme del padre con i suoi studi, ma non era molto diligente poiché preferiva la natura. Avrebbe studiato, da lì a pochi anni, all’università cittadina, se non fosse stata chiusa dai dominatori. A causa dei conflitti non aveva ultimato gli studi con costanza. Ora non poteva far altro che andar a lavorare nei campi.
“Ci fidiamo dei tuoi consigli. Penso sia ora di tornare a casa. Abbiamo molto da lavorare quest’oggi” concluse Ginevra, alzandosi e salutando.