XXVI
L’ombra di un uomo nuovo
Quel giorno fu interminabile nelle terre del barone De Panè. Poche ore dopo il patibolo, giunti a casa, Ginevra e Michele trovarono un messaggio dagli strani significati, inviato dal marchese Castillo alla cugina. Conteneva una frase di condoglianze e una strana morale:
Mia cara cugina,
lasciate che vi porga le mie condoglianze per la morte di un caro amico. Ma ricordate che la vita è una continua giostra, prima o poi la paura finisce.
La notte giunse, così come la pioggia e le lacrime sul volto di Ginevra.
La giovane donna si accovacciò sul letto solo a tarda notte e si svegliò ai primissimi albori.
Nel silenzio di un’alba ancora non giunta del tutto, aprì una delle finestre del primo piano, che dava sul lungo viale dinanzi alla casa.
In lontananza, poco dopo il cancello, un’ombra si avvicinava verso di lei. Era ancora troppo buio per distinguere le persone o gli oggetti. Una forte foschia mattutina, dovuta all’impetuoso e improvviso cambiamento di tempo, avvolgeva il viale.
La nobildonna scese per aiutate la povera ombra che sembrava a malapena in grado di reggersi in piedi. Aprì il grosso portone in legno e ferro, mentre chiamava aiuto, per soccorrere, chiunque fosse, la persona che stava arrivando all’uscio del castello.
Ginevra corse verso colui che lentamente si delineava come un uomo stanco e provato. Il viso dello sconosciuto si fece più nitido: era Rodrigo, ma dal suo aspetto appariva morente.
La giovane donna corse sempre più veloce chiamando aiuto. Intanto, nella dimora le candele iniziavano ad accendersi e chi vi abitava usciva. Uno dei contadini camminava poco dietro Ginevra, la quale raggiunse per prima Rodrigo, che cadde sulle ginocchia proprio in quel momento. Il contadino e Ginevra lo misero in piedi con attenzione, per poi condurlo dentro il castello.
Il collo era visibilmente violaceo. Il corpo aveva subito abrasioni e le profonde ferite facevano sospettare che qualcuno, subito dopo l’impiccagione, si fosse divertito con quelli che dovevano essere i suoi resti. Tuttavia, ciò non lo aveva ucciso. Non erano riusciti a distruggere la sua forte tempra.
Rodrigo fu steso su un divano e gli furono bendate le ferite, mentre il dolore invadeva il suo corpo. Era certo che una delle costole fosse stata rotta poiché la si riusciva a vedere a occhio nudo.
Inoltre, l’uomo era stato anche marchiato sul polso destro con un ferro ardente. La lettera “T” era incisa sulle sue carni: il traditore della corona doveva portarsi il suo peccato anche nell’oltretomba. Era facile capire chi avesse disposto tale trattamento tra le fila spagnole.
Il corpo rimase inerme su quel divano per tutto il giorno. Ogni tanto Ginevra entrava e controllava le ferite.
Dall’esterno nessuno doveva sospettare che tra quelle mura si rifugiasse un traditore fuggiasco. Un uomo voluto morto.
***
Solo qualche sera dopo, quando le fitte divennero meno incessanti, durante uno dei controlli della ragazza, Rodrigo disse qualcosa: “Non dovete farlo... Non siete tenuta... Devo lasciare questa città, partire per Roma, subito!”.
“Dovreste stare a riposo ed evitare di fare pensieri brutti o sbagliati” gli ordinò Ginevra, mentre rammendava una delle bende.
“Non pensate di essere in debito con me perché quel giorno vi ho salvato la vita uccidendo Estevez” replicò lui, stringendole delicatamente il braccio.
Seguirono istanti di silenzi.
“Questo non è il motivo per cui vi sto aiutando capitano” ammise la giovane nobile.
Il silenzio s’interruppe, per poi riprendere alcuni istanti dopo. Rodrigo lasciò la presa e Ginevra andò via a riposare nella sua stanza.
Man mano che il tempo passava, con l’arrivo dell’inverno e Rodrigo che riprendeva le sue forze, si giunse alla conclusione che, in quel frangente, l’unico modo per proteggerlo fosse farlo divenire uno dei contadini della tenuta, quindi confonderlo tra di loro, fin quando non fosse stato possibile farlo fuggire dalla città.
Le vie di fuga erano occluse e con il passare dei mesi la forza spagnola aumentava di giorno in giorno, chiudendo la città in una vera morsa infernale e di soppressione: fuggire via mare o verso Palermo era quasi del tutto impossibile.
La corona aveva distrutto l’anima della città e l’aveva spogliata di tutti i suoi diritti. Non era più solo una questione di predominio, ma anche di vendetta e di giochi attuati da menti perverse nei confronti di un popolo che non poteva più ribellarsi.
La morsa del gelo giunse sino in Sicilia in quell’inverno tra il 1678 e il 1679, al punto che la neve ricoprì leggermente i colli alle spalle della città per qualche giorno. Tuttavia, bisognava portate avanti la semina e raccogliere i frutti di stagione se si voleva sopravvivere in quel clima di tensione.
“Ginevra, andate dentro. C’è troppo freddo e lavoro da fare, qui finisco io...” disse Rodrigo, mentre uno dei carichi veniva ultimato e spedito al porto per essere venduto.
Lei lo guardò preoccupata. In fondo, non si era ancora ripreso del tutto. Il suo sguardo lo fece divertire e sorridere. In quelle ore di lavoro, un filo di paglia le si era incastrato tra i capelli, il che la rendeva buffa.
Le attenzioni, dopo che egli si era ripreso, erano cessate immediatamente, sebbene in lontananza lei continuasse a controllarlo e questo aveva, in un crescendo, incuriosito Rodrigo. Era ovvio che Ginevra facesse di tutto per evitare di far trapelare qualsiasi genere di sentimento nei suoi confronti, se non con misura, ma era più forte di lei controllare regolarmente che lui stesse bene.
L’aspetto di Rodrigo era visibilmente cambiato: i suoi capelli erano cresciuti e una folta barba biondiccia gli avvolgeva il viso. Ora il giovane uomo appariva più adulto. Per nascondere il marchio imposto dalla corona spagnola, aveva legato al polso una stringa di pelle, proprio come quella utilizzata dai marinai o dagli schiavi.
Quell’ultimo controllo da parte di Ginevra lo scosse nel profondo. Rodrigo la seguì ed entrò nella dimora. Lei stava scendendo le scale, a pochi passi da lui.
“Si può sapere cosa vi suscita tanto divertimento quest’oggi?” chiese lei, facendo finta di essere incurante a riguardo.
“Avete qualcosa tra i capelli” rispose il ragazzo, indicando con un gesto la ciocca. Lei iniziò a toccarsi i capelli, ma Rodrigo per divertimento le aveva indicato il posto sbagliato, così che perse più tempo del previsto alla ricerca di quel qualcosa.
“State ferma...” continuò lui, avvicinandosi e allungandole una mano tra i capelli. Lentamente, le tolse la spiga di grano, gettandola via, poi la sua mano ancora vicina scese accarezzando il viso di Ginevra.
Si guardavano immobili in quel momento d’intimità. I loro visi si avvicinarono e d’impeto si baciarono.
Fu un bacio caldo e appassionato, stretti come se l’uno volesse rubare il respiro dell’altra e viceversa.
Le effusioni tra i due durarono per diversi minuti. Dopo tanti anni e sofferenze, finalmente le ultime reticenze erano state annientate da un bacio, un calore e un amore tanto desiderato.
Il rumore degli zoccoli si sentì in lontananza. Dalla porta semichiusa dell’entrata della casa, dove si trovavano Rodrigo e Ginevra intenti a baciarsi, si scorgeva all’orizzonte la figura imponente e dura di un uomo a cavallo. Era Cortez, il quale, dopo mesi che non effettuava i suoi continui controlli su quelle terre, faceva ritorno più fiero che mai, visto che tornava come generale delle guardie spagnole dell’intera città.
Il suo sguardo catturò due ombre che si baciavano all’interno della casa. In un primo momento il suo pensiero fu che fossero Matilde e Michele o due servi del castello. Tuttavia, man mano che il nuovo generale procedette verso la dimora, capì che la donna in questione non era un’adolescente, ma una giovane donna dai capelli più scuri. Capì che si trattava di Ginevra, intenta a baciare un altro uomo.
Cortez iniziò a galoppare lungo quella stretta salita retta in modo più veloce, più si avvicinava più capiva che non si trattava di uno sconosciuto, ma di un viso a lui familiare. Distingueva sempre più la figura di Rodrigo.
“Ginevra!” urlò il generale Cortez, preso dall’impeto dei suoi nervi. Il suo atteggiamento brutale risaltava sempre più, a causa dei tratti marcati del suo viso.
La ragazza e Rodrigo interruppero il bacio improvvisamente per l’urlo emesso da una voce nemica. Ma questa volta, al posto di fuggire, Rodrigo decise di affrontare il rivale.
Juan scese da cavallo, mentre Rodrigo e Ginevra uscivano dall’uscio del castello.
“Voi eravate morto!” disse Cortez, visibilmente furioso.
Rodrigo non disse nulla. Lo guardò gelidamente, dritto negli occhi, come due felini pronti a combattere.
“Rodrigo, ti prego... Fuggi!” lo implorò Ginevra, ma le sue parole spaventate erano inutili di fronte a ciò che stava accadendo.
I due uomini iniziarono a lottare tra di loro.
Cortez giocò sporco utilizzando la spada. Ferì Rodrigo, ma solo superficialmente. Quest’ultimo si difese come poteva, poiché non armato, sin quando con la sola forza fisica riuscì a far crollare a terra Juan, rubandogli la spada.
“Ginevra, non preoccupatevi per me. Ricordatevi cosa vi confidai quando mi avete accolto in fin di vita” disse l’uomo.
Dopo tali parole, Rodrigo salì sul cavallo del generale e fuggì via, lasciando il militare ferito steso a terra.