ARGOMENTO DEL NOLANO
SOPRA
GLI EROICI FURORI:
SCRITTO AL MOLTO ILLUSTRE
SIGNOR FILIPPO SIDNEO.

È cosa veramente, o generosissimo Cavalliero, da basso, bruto e sporco ingegno d’essersi fatto constantemente studioso, ed aver affisso un curioso pensiero circa o sopra la bellezza d’un corpo femenile.3 Che spettacolo, o Dio buono!, più vile ed ignobile può presentarsi ad un occhio di terso sentimento, che un uomo cogitabundo, afflitto, tormentato, triste, maninconioso, per dovenir or freddo, or caldo, or fervente, or tremante, or pallido, or rosso, or in mina di perplesso, or in atto di risoluto; un che spende il meglior intervallo di tempo e gli più scelti frutti di sua vita corrente, destillando l’elixir del cervello con mettere in concetto, scritto e sigillar in publichi monumenti quelle continue torture, que’ gravi tormenti, que’ razionali discorsi, que’ faticosi pensieri e quelli amarissimi studi destinati sotto la tirannide d’una indegna, imbecille, stolta e sozza sporcaria?

Che tragicomedia? che atto, dico, degno più di compassione e riso può esserne ripresentato in questo teatro del mondo,4 in questa scena delle nostre conscienze, che di tali e tanto numerosi suppositi fatti penserosi, contemplativi, constanti, fermi, fideli, amanti, coltori, adoratori e servi di cosa senza fede, priva d’ogni costanza, destituta d’ogni ingegno, vacua d’ogni merito, senza riconoscenza e gratitudine alcuna, dove non può capir più senso, intelletto e bontade, che trovarsi possa in una statua o imagine depinta al muro? e dove è più superbia, arroganza, protervia, orgoglio, ira, sdegno, falsitade, libidine, avarizia, ingratitudine ed altri crimi exiziali, che avessero possuto uscir veneni ed instrumenti di morte dal vascello5 di Pandora, per aver pur troppo largo ricetto dentro il cervello di mostro tale? Ecco vergato in carte, rinchiuso in libri, messo avanti gli occhi ed intonato a gli orecchi un rumore, un strepito, un fracasso d’insegne, d’imprese,6 de motti, d’epistole, de sonetti, d’epigrammi, de libri, de prolissi scartafazzi, de sudori estremi, de vite consumate, con strida ch’assordiscon gli astri, lamenti che fanno ribombar gli antri infernali, doglie che fanno stupefar l’anime viventi, suspiri da far exinanire e compatir gli dei,7 per quegli occhi, per quelle guance, per quel busto, per quel bianco, per quel vermiglio, per quella lingua, per quel dente, per quel labro, quel crine, quella veste, quel manto, quel guanto, quella scarpetta, quella pianella, quella parsimonia, quel risetto, quel sdegnosetto, quella vedova fenestra, quell’eclissato sole,8 quel martello, quel schifo, quel puzzo, quel sepolcro, quel cesso,9 quel mestruo, quella carogna, quella febre quartana, quella estrema ingiuria e torto di natura, che con una superficie, un’ombra,10 un fantasma,11 un sogno, un Circeo incantesimo12 ordinato al serviggio della generazione,13 ne inganna in specie di bellezza.14 La quale insieme insieme viene e passa, nasce e muore, fiorisce e marcisce; ed è bella cossì un pochettino a l’esterno, che nel suo intrinseco vera- e stabilmente è contenuto un navilio, una bottega, una dogana, un mercato de quante sporcarie, tossichi e veneni abbia possuti produrre la nostra madrigna natura: la quale dopo aver riscosso quel seme di cui la si serva, ne viene sovente a pagar d’un lezzo, d’un pentimento, d’una tristizia, d’una fiacchezza, d’un dolor di capo, d’una lassitudine, d’altri ed altri malanni che son manifesti a tutto il mondo, a fin che amaramente dolga, dove suavemente proriva.

Ma che fo io? che penso? Son forse nemico della generazione? Ho forse in odio il sole?15 Rincrescemi forse il mio ed altrui essere messo al mondo? Voglio forse ridur gli uomini a non raccôrre quel più dolce pomo che può produr l’orto del nostro terrestre paradiso? Son forse io per impedir l’instituto santo della natura? Debbo tentare di suttrarmi io o altro dal dolce amaro giogo che n’ha messo al collo la divina providenza? Ho forse da persuader a me e ad altri, che gli nostri predecessori sieno nati per noi, e noi non siamo nati per gli nostri successori? Non voglia, non voglia Dio che questo giamai abbia possuto cadermi nel pensiero! Anzi aggiongo che per quanti regni e beatitudini mi s’abbiano possuti proporre e nominare, mai fui tanto savio o buono che mi potesse venir voglia de castrarmi o dovenir eunuco. Anzi mi vergognarei, se cossì come mi trovo in apparenza, volesse cedere pur un pelo a qualsivoglia che mangia degnamente il pane per servire alla natura e Dio benedetto. E se alla buona volontà soccorrer possano o, soccorrano gl’instrumenti e gli lavori, lo lascio considerar solo a chi ne può far giudicio e donar sentenza. Io non credo d’esser legato; perché son certo che non bastarebbono tutte le stringhe e tutti gli lacci che abbian saputo e sappian mai intessere ed annodare quanti fûro e sono stringari e lacciaiuoli, (non so se posso dir) se fusse con essi la morte istessa, che volessero maleficiarmi. Né credo d’esser freddo, se a refrigerar il mio caldo non penso che bastarebbono le nevi del monte Caucaso16 o Rifeo.17 Or vedete dunque se è la raggione o qualche difetto che mi fa parlare.

Che dunque voglio dire? che voglio conchiudere? che voglio determinare? Quel che voglio conchiudere e dire, o Cavalliero illustre, è che quel ch’è di Cesare, sia donato a Cesare, e quel ch’è de Dio, sia renduto a Dio.18 Voglio dire che a le donne, benché talvolta non bastino gli onori ed ossequi divini, non perciò se gli denno onori ed ossequii divini. Voglio che le donne siano cossì onorate ed amate, come denno essere amate ed onorate le donne: per tal causa dico, e per tanto, per quanto si deve a quel poco, a quel tempo e quella occasione, se non hanno altra virtù che naturale, cioè di quella bellezza, di quel splendore, di quel serviggio, senza il quale denno esser stimate più vanamente nate al mondo che un morboso fungo, qual con pregiudicio de meglior piante occupa la terra; e più noiosamente che qualsivoglia napello19 o vipera che caccia il capo fuor di quella. Voglio dire che tutte le cose de l’universo, perché possano aver fermezza e consistenza, hanno gli suoi pondi, numeri, ordini e misure, a fin che siano dispensate e governate con ogni giustizia e raggione. Là onde Sileno, Bacco, Pomona, Vertunno, il dio di Lampsaco20 ed altri simili che son dei da tinello, da cervosa21 forte e vino rinversato,22 come non siedeno in cielo a bever nettare e gustar ambrosia nella mensa di Giove, Saturno, Pallade, Febo ed altri simili; cossì gli lor fani, tempii, sacrificii e culti denno essere differenti da quelli de costoro.

Voglio finalmente dire, che questi Furori eroici23 ottegnono suggetto ed oggetto eroico, e però non ponno più cadere in stima d’amori volgari e naturaleschi, che veder si possano delfini su gli alberi de le selve, e porci cinghiali sotto gli marini scogli.24 Però per liberare tutti da tal suspizione, avevo pensato prima di donar a questo libro un titolo simile a quello di Salomone,25 il quale sotto la scorza d’amori ed affetti ordinarii contiene similmente divini ed eroici furori, come interpretano gli mistici e cabalisti dottori; volevo, per dirla, chiamarlo Cantica. Ma per più caggioni mi sono astenuto al fine: de le quali ne voglio referir due sole. L’una per il timor ch’ho conceputo dal rigoroso supercilio de certi farisei, che cossì mi stimarebono profano per usurpar in mio naturale26 e fisico discorso titoli sacri e sopranaturali, come essi, sceleratissimi e ministri d’ogni ribaldaria, si usurpano più altamente, che dir si possa, gli titoli de sacri, de santi, de divini oratori, de figli de Dio, de sacerdoti, de regi; stante che stiamo aspettando quel giudicio divino che farà manifesta la lor maligna ignoranza ed altrui dottrina, la nostra simplice libertà e l’altrui maliciose regole, censure ed instituzioni. L’altra per la grande dissimilitudine che si vede fra il volto di questa opra e quella, quantunque medesimo misterio e sustanza d’anima sia compreso sotto l’ombra dell’una e l’altra: stante che là nessuno dubita che il primo instituto del sapiente fusse più tosto di figurar cose divine che di presentar altro: perché ivi le figure sono aperta- e manifestamente figure, ed il senso metaforico è conosciuto di sorte che non può esser negato per metaforico: dove odi quelli occhi di colombe, quel collo di torre, quella lingua di latte, quella fragranzia d’incenso, que’ denti che paiono greggi de pecore che descendono dal lavatoio, que’ capelli che sembrano le capre che vegnono giù da la montagna di Galaad,27 ma in questo poema non si scorge volto, che cossì al vivo ti spinga a cercar latente ed occolto sentimento; atteso che per l’ordinario modo di parlare e de similitudini più accomodate a gli sensi communi, che ordinariamente fanno gli accorti amanti, e soglion mettere in versi e rime gli usati poeti, son simili ai sentimenti de coloro che parlarono a Citereida, o Licori, a Dori, a Cintia, a Lesbia, a Corinna,28 a Laura ed altre simili. Onde facilmente ognuno potrebbe esser persuaso che la fondamentale e prima intenzion mia sia stata addirizzata da ordinario amore, che m’abbia dettati concetti tali; il quale appresso, per forza de sdegno, s’abbia improntate l’ali29 e dovenuto eroico; come è possibile di convertir qualsivoglia fola, romanzo, sogno e profetico enigma, e transferirle, in virtù di metafora e pretesto d’allegoria, a significar tutto quello che piace a chi più comodamente è atto a stiracchiar gli sentimenti,30 e far cossì tutto di tutto, come tutto essere in tutto disse il profondo Anaxagora. Ma pensi chi vuol quel che gli pare e piace, ch’alfine, o voglia o non, per giustizia la deve ognuno intendere e definire come l’intendo e definisco io, non io come l’intende e definisce lui: perché come gli furori di quel sapiente Ebreo hanno gli proprii modi, ordini e titolo che nessuno ha possuto intendere e potrebbe meglio dechiarar che lui, se fusse presente; cossì questi Cantici hanno il proprio titolo, ordine e modo che nessun può meglio dechiarar ed intendere che io medesimo, quando non sono absente.

D’una cosa voglio che sia certo il mondo: che quello, per il che io mi essagito in questo proemiale argomento, dove sigularmente parlo a voi, eccellente Signore, e ne gli Dialogi formati sopra gli seguenti articoli, sonetti e stanze, è ch’io voglio ch’ognun sappia, ch’io mi stimarei molto vituperoso e bestialaccio, se con molto pensiero, studio e fatica mi fusse mai delettato o delettasse de imitar,31 come dicono, un Orfeo circa il culto d’una donna in vita, e dopo morte, se possibil fia, ricovrarla da l’inferno:32 se a pena la stimarei degna, senza arrossir il volto, d’amarla sul naturale di quell’istante del fiore della sua beltade e facultà di far figlioli alla natura e Dio. Tanto manca, che vorrei parer simile a certi poeti e versificanti in far trionfo d’una perpetua perseveranza di tale amore, come d’una cossì pertinace pazzia, la qual sicuramente può competere con tutte l’altre specie che possano far residenza in un cervello umano: tanto, dico, son lontano da quella vanissima, vilissima e vituperosissima gloria, che non posso credere ch’un uomo, che si trova un granello di senso e spirito, possa spendere più amore in cosa simile che io abbia speso al passato e possa spendere al presente. E per mia fede, se io voglio adattarmi a defendere per nobile l’ingegno di quel tosco poeta, che si mostrò tanto spasimare alle rive di Sorga per una di Valclusa, e non voglio dire che sia stato un pazzo da catene, donarommi a credere, e forzarommi di persuader ad altri, che lui per non aver ingegno atto a cose megliori, volse studiosamente nodrir quella melancolia, per celebrar non meno il proprio ingegno su quella matassa, con esplicar gli affetti d’un ostinato amor volgare, animale e bestiale, ch’abbiano fatto gli altri ch’han parlato delle lodi della mosca, del scarafone, de l’asino, de Sileno, de Priapo, scimie de quali son coloro ch’han poetato a’ nostri tempi delle lodi de gli orinali, de la piva, della fava, del letto, delle bugie, del disonore, del forno, del martello, della caristia, de la peste;33 le quali non meno forse sen denno gir altere e superbe per la celebre bocca de canzonieri suoi,34 che debbano e possano le prefate ed altre dame per gli suoi.

Or (perché non si faccia errore) qua non voglio che sia tassata la dignità di quelle che son state e sono degnamente lodate e lodabili: non quelle che possono essere e sono particolarmente in questo paese Britannico, a cui doviamo la fideltà ed amore ospitale: perché dove si biasimasse tutto l’orbe, non si biasima questo, che in tal proposito non è orbe, né parte d’orbe, ma diviso35 da quello in tutto, come sapete: dove si ragionasse de tutto il sesso femenile, non si deve né può intendere de alcune vostre, che non denno esser stimate parte di quel sesso; perché non son femine, non son donne, ma, in similitudine di quelle, son nimfe, son dive, son di sustanza celeste, tra le quali è lecito di contemplar quell’unica Diana,36 che in questo numero e proposito non voglio nominare. Comprendasi, dunque, il geno ordinario. E di quello ancora indegna- ed ingiustamente perseguitarei le persone: perciò che a nessuna particulare deve essere improperato l’imbecillità e condizion del sesso, come né il difetto e vizio di complessione; atteso che, se in ciò è fallo ed errore, deve essere attibuito per la specie alla natura, e non per particolare a gl’individui. Certamente quello che circa tai supposti abomino, è quel studioso e disordinato amor venereo che sogliono alcuni spendervi de maniera che se gli fanno servi con l’ingegno, e vi vegnono a cattivar le potenze ed atti più nobili de l’anima intellettiva. Il qual intento essendo considerato, non sarà donna casta ed onesta che voglia per nostro naturale e veridico discorso constristarsi e farmisi più tosto irata, che sottoscrivendomi amarmi di vantaggio, vituperando passivamente quell’amor nelle donne verso gli uomini, che io attivamente riprovo ne gli uomini verso le donne. Tal dunque essendo il mio animo, ingegno, parere e determinazione, mi protesto che il mio primo e principale, mezzano ed accessorio, ultimo e finale intento in questa tessitura fu ed è d’apportare contemplazion divina, e metter avanti a gli occhi ed orecchie altrui furori non de volgari,37 ma eroici amori, ispiegati in due parti; de le quali ciascuna è divisa in cinque dialogi.

ARGOMENTO DE’ CINQUE DIALOGI DE LA PRIMA PARTE.

Nel Primo dialogo della prima parte son cinque articoli, dove per ordine: nel primo si mostrano le cause e principii motivi intrinseci sotto nome e figura del monte e del fiume e de muse, che si dechiarano presenti, non perché chiamate, invocate e cercate, ma più tosto come quelle che più volte importunamente si sono offerte: onde vegna significato che la divina luce è sempre presente; s’offre sempre, sempre chiama e batte a le porte de nostri sensi ed altre potenze cognoscitive ed apprensive: come pure è significato nella Cantica di Salomone dove si dice: «En ipse stat post parietem nostrum, respiciens per cancellos, et prospiciens per fenestras».38 La qual spesso per varie occasioni ed impedimenti avvien che rimangna esclusa fuori e trattenuta. Nel secondo articolo si mostra quali sieno que’ suggetti, oggetti, affetti, instrumenti ed effetti per li quali s’introduce, si mostra e prende il possesso nell’anima questa divina luce, perché la inalze e la converta in Dio. Nel terzo il proponimento, definizione e determinazione che fa l’anima ben informata circa l’uno, perfetto ed ultimo fine. Nel quarto la guerra civile che séguita e si discuopre contra il spirito dopo tal proponimento; onde disse la Cantica: «Noli mirari, quia nigra sum: decoloravit enim me sol, quia fratres mei pugnaverunt contra me, quam posuerunt custodem in vineis».39 Là sono esplicati solamente come quattro antesignani l’Affetto, l’Appulso fatale, la Specie del bene ed il Rimorso, che son seguitati da tante coorte militari de tante, contrarie, varie e diverse potenze con gli lor ministri, mezzi ed organi che sono in questo composto. Nel quinto s’ispiega una naturale contemplazione in cui si mostra che ogni contrarietà si riduce a l’amicizia o per vittoria de l’uno de’ contrarii o per armonia e contemperamento o per qualch’altra raggione di vicissitudine, ogni lite alla concordia, ogni diversità a l’unità: la qual dottrina è stata da noi distesa ne gli discorsi d’altri dialogi.40

Nel Secondo dialogo viene più esplicatamente descritto l’ordine ed atto della milizia che si ritrova nella sustanza di questa composizione del furioso; ed ivi: nel primo articolo si mostrano tre sorte di contrarietà: la prima d’un affetto ed atto contra l’altro, come dove son le speranze fredde e gli desiderii caldi; la seconda de medesimi affetti ed atti in se stessi, non solo in diversi, ma ed in medesimi tempi; come quando ciascuno non si contenta di sé, ma attende ad altro, ed insieme insieme ama ed odia; la terza tra la potenza che séguita ed aspira, e l’oggetto che fugge e si suttrae. Nel secondo articolo si manifesta la contrarietà ch’è come di doi contrarii appulsi in generale; alli quali si rapportano tutte le particolari e subalternate contrarietadi, mentre come a doi luoghi e sedie contrarie si monta o scende: anzi il composto tutto per la diversità de le inclinazioni che son nelle diverse parti, e varietà de disposizioni che accade nelle medesime, viene insieme insieme a salire ed abbassare, a farsi avanti ed adietro, ad allontanarsi da sé e tenersi ristretto in sé. Nel terzo articolo si discorre circa la conseguenza da tal contrarietade.

Nel Terzo dialogo si fa aperto quanta forza abbia la volontade in questa milizia, come quella a cui sola appartiene ordinare, cominciare, exeguire e compire; cui vien intonato nella Cantica: «Surge, propera, columba mea, et veni: iam enim hiems transiit, imber abiit, flores apparuerunt in terra nostra; tempus putationis advenit».41 Questa sumministra forza ad altri in molte maniere, ed a se medesima specialmente, quando si reflette in se stessa e si radoppia; allor che vuol volere, e gli piace che voglia quel che vuole; o si ritratta, allor che non vuol quel che vuole, e gli dispiace che voglia quel che vuole: cossì in tutto e per tutto approva quel ch’è bene e quel tanto che la natural legge e giustizia gli definisce: e mai affatto approva quel che è altrimente. E questo è quanto si esplica nel primo e secondo articolo. Nel terzo si vede il gemino frutto di tal efficacia, secondo che (per consequenza de l’affetto che le attira e rapisce) le cose alte si fanno basse, e le basse dovegnono alte; come per forza de vertiginoso appulso e vicissitudini successo dicono che la fiamma s’inspessa in aere, vapore ed acqua, e l’acqua s’assottiglia in vapore, aere e fiamma.

In sette articoli del Quarto dialogo si contempla l’impeto e vigor de l’intelletto, che rapisce l’affetto seco, ed il progresso de pensieri del furioso composto, e delle passioni de l’anima che si trova al governo di questa republica cossì turbulenta. Là non è oscuro chi sia il cacciatore, l’ucellatore, la fiera, gli cagnuoli, gli pulcini, la tana, il nido, la rocca, la preda, il compimento de tante fatiche, la pace, riposo e bramato fine de sì travaglioso conflitto.

Nel Quinto dialogo si descrive il stato del furioso in questo mentre, ed è mostro l’ordine, raggione e condizion de studii e fortune. Nel primo articolo per quanto appartiene a perseguitar l’oggetto che si fa scarso di sé; nel secondo quanto al continuo e non remittente concorso de gli affetti: nel terzo quanto a gli alti e caldi, benché vani proponimenti; nel quarto quanto al volontario volere; nel quinto quanto a gli pronti e forti ripari e soccorsi. Ne gli seguenti si mostra variamente la condizion di sua fortuna, studio e stato, con la raggione e convenienza di quelli, per le antitesi, similitudini e comparazioni espresse in ciascuno di essi articoli.

ARGOMENTO DE’ CINQUE DIALOGI DELLA SECONDA PARTE.

Nel Primo dialogo della seconda parte s’adduce un seminario delle maniere e raggioni del stato dell’eroico furioso. Ove nel primo sonetto vien descritto il stato di quello sotto la ruota del tempo; nel secondo viene ad iscusarsi dalla stima d’ignobile occupazione ed indegna iattura della angustia e brevità del tempo; nel terzo accusa l’impotenza de suoi studi, gli quali, quantunque all’interno sieno illustrati dall’eccellenza de l’oggetto, questo per l’incontro viene ad essere offoscato ed annuvolato da quelli; nel quarto è il compianto del sforzo senza profitto delle facultadi de l’anima, mentre cerca risorgere con l’imparità de le potenze a quel stato che pretende e mira; nel quinto vien rammentata la contrarietà e domestico conflitto che si trova in un suggetto, onde non possa intieramente appigliarsi ad un termine o fine; nel sesto vien espresso l’affetto aspirante; nel settimo vien messa in considerazione la mala corrispondenza che si trova tra colui ch’aspira, e quello a cui s’aspira; nell’ottavo è messa avanti gli occhi la distrazion dell’anima, conseguente della contrarietà de cose esterne ed interne tra loro, e de le cose interne in se stesse, e de le cose esterne in se medesime; nel nono è ispiegata l’etate ed il tempo del corso de la vita ordinarii all’atto de l’alta e profonda contemplazione: per quel che non vi conturba il flusso o reflusso della complessione vegetante, ma l’anima si trova in condizione stazionaria e come quieta; nel decimo l’ordine e maniera in cui l’eroico amore talor ne assale, fere e sveglia; nell’undecimo la moltitudine delle specie ed idee particolari che mostrano l’eccellenza della marca dell’unico fonte di quelle, mediante le quali vien incitato l’affetto verso alto; nel duodecimo s’esprime la condizion del studio umano verso le divine imprese, perché molto si presume prima che vi s’entri, e nell’entrare istesso: ma quando poi s’ingolfa e vassi più verso il profondo, viene ad essere smorzato il fervido spirito di presunzione, vegnono relassati i nervi, dismessi gli ordegni, inviliti gli pensieri, svaniti tutti dissegni, e riman l’animo confuso, vinto ed exinanito. Al qual proposito fu detto dal sapiente: «qui scrutator est maiestatis, opprimetur a gloria».42 Nell’ultimo è più manifestamente espresso quello che nel duodecimo è mostrato in similitudine e figura.

Nel Secondo dialogo è in un sonetto ed un discorso dialogale sopra di quello specificato il primo motivo che domò il forte, ramollò il duro ed il rese sotto l’amoroso imperio di Cupidine superiore, con celebrar tal vigilanza, studio, elezione e scopo.

Nel Terzo dialogo in quattro proposte e quattro risposte del core a gli occhi, e de gli occhi al core, è dechiarato l’essere e modo delle potenze cognoscitive ed appetitive. Là si manifesta qualmente la volontà è risvegliata, addirizzata, mossa e condotta dalla cognizione; e reciprocamente la cognizione è suscitata, formata e ravvivata dalla volontade, procedendo or l’una da l’altra, or l’altra da l’una. Là si fa dubio, se l’intelletto o generalmente la potenza conoscitiva, o pur l’atto della cognizione sia maggior de la volontà o generalmente della potenza appetitiva, o pur de l’affetto: se non si può amare più che intendere, e tutto quello ch’in certo modo si desidera, in certo modo ancora si conosce, e per il roverso; onde è consueto di chiamar l’appetito cognizione, perché veggiamo che gli peripatetici, nella dottrina de quali siamo allievati e nodriti in gioventù,43 sin a l’appetito in potenza ed atto naturale chiamano cognizione; onde tutti effetti, fini e mezzi, principii, cause ed elementi distingueno in prima-, media- ed ultimamente noti secondo la natura, nella quale fanno in conclusione concorrere l’appetito e la cognizione. Là si propone infinita la potenza della materia ed il soccorso dell’atto che non fa essere la potenza vana. Laonde cossì non è terminato l’atto della volontà circa il bene, come è infinito ed interminabile l’atto della cognizione circa il vero: onde ente,44 vero e buono son presi per medesimo significante circa medesima cosa significata.

Nel Quarto dialogo son figurate ed alcunamente ispiegate le nove raggioni della inabilità, improporzionalità e difetto dell’umano sguardo e potenza apprensiva de cose divine.45 Dove nel primo cieco,46 che è da natività, è notata la raggione ch’è per la natura che ne umilia ed abbassa. Nel secondo, cieco per il tossico della gelosia, è notata quella ch’è per l’irascibile e concupiscibile che ne diverte e desvia. Nel terzo, cieco per repentino apparimento d’intensa luce, si mostra quella che procede dalla chiarezza de l’oggetto che ne abbaglia. Nel quarto, allievato e nodrito a lungo a l’aspetto del sole, quella che da troppo alta contemplazione de l’unità che ne fura alla moltitudine. Nel quinto, che sempre mai ha gli occhi colmi de spesse lacrime, è designata l’improporzionalità de mezzi tra la potenza ed oggetto che ne impedisce. Nel sesto, che per molto lacrimar ave svanito l’umor organico visivo, è figurato il mancamento de la vera pastura intellettuale che ne indebolisce. Nel settimo, cui gli occhi sono inceneriti da l’ardor del core, è notato l’ardente affetto che disperge, attenua e divora tal volta la potenza discretiva. Nell’ottavo, orbo per la ferita d’una punta di strale, quello che proviene dall’istesso atto dell’unione della specie de l’oggetto; la qual vince, altera e corrompe la potenza apprensiva, che è suppressa dal peso e cade sotto l’impeto de la presenza di quello; onde non senza raggion talvolta la sua vista è figurata per l’aspetto di folgore penetrativo. Nel nono, che per esser mutolo non può ispiegar la causa della sua cecitade, vien significata la raggion de le raggioni, la quale è l’occolto giudicio divino che a gli uomini ha donato questo studio e pensiero d’investigare, de sorte che non possa mai gionger più alto che alla cognizione della sua cecità ed ignoranza, e stimar più degno il silenzio ch’il parlare. Dal che non vien iscusata né favorita l’ordinaria ignoranza; perché è doppiamente cieco chi non vede la sua cecità: e questa è la differenza tra gli profettivamente studiosi e gli ociosi insipienti: che questi son sepolti nel letargo della privazion del giudicio di suo non vedere, e quelli sono accorti, svegliati e prudenti giudici della sua cecità, e però son nell’inquisizione e nelle porte de l’acquisizione della luce, delle quali son lungamente banditi gli altri.

ARGOMENTO ED ALLEGORIA DEL QUINTO DIALOGO.

Nel Quinto dialogo, perché vi sono introdotte due donne, alle quali (secondo la consuetudine del mio paese) non sta bene di commentare, argumentare, desciferare, saper molto ed esser dottoresse, per usurparsi ufficio d’insegnare e donar instituzione, regola e dottrina a gli uomini, ma ben de divinar e profetar qualche volta che si trovano il spirito in corpo; però gli ha bastato de farsi solamente recitatrici della figura, lasciando a qualche maschio ingegno il pensiero e negocio di chiarir la cosa significata. Al quale (per alleviar overamente tôrgli la fatica) fo intendere, qualmente questi nove ciechi, come in forma d’ufficio e cause esterne, cossì con molte altre differenze suggettive correno con altra significazione, che gli nove del dialogo precedente; atteso che, secondo la volgare imaginazione delle nove sfere, mostrano il numero, ordine e diversità de tutte le cose che sono subsistenti infra unità absoluta, nelle quali e sopra le quali tutte sono ordinate le proprie intelligenze che, secondo certa similitudine analogale, dependono dalla prima ed unica. Queste da cabalisti, da caldei, da maghi, da platonici e da cristiani teologi son distinte in nove ordini per la perfezione del numero che domina nell’università de le cose ed in certa maniera formaliza il tutto; e però con semplice raggione fanno che si significhe la divinità, e secondo la reflessione e quadratura in se stesso, il numero e la sustanza de tutte le cose dependenti.47 Tutti gli contemplatori più illustri, o sieno filosofi, o siano teologi, o parlino per raggione e proprio lume, o parlino per fede e lume superiore, intendeno in queste intelligenze il circolo di ascenso e descenso. Quindi dicono gli platonici, che per certa conversione accade che quelle, che son sopra il fato,48 si facciano sotto il fato del tempo e mutazione, e da qua montano altre al luogo di quelle. Medesima conversione è significata dal pitagorico poeta, dove dice:

Has omnes, ubi mille rotam volvere per annos

Lethaeum ad fluvium deus evocat agmine magno,

Rursus ut incipiant in corpora velle reverti.49

Questo, dicono alcuni, è significato dove è detto in revelazione che il drago starà avvinto nelle catene per mille anni, e passati quelli, sarà disciolto.50 A cotal significazione voglion che mirino molti altri luoghi, dove il millenario ora è espresso, ora è significato per uno anno, ora per una ecade, ora per un cubito, ora per una ed un’altra maniera. Oltre che certo il millenario istesso non si prende secondo le revoluzioni definite da gli anni del sole, ma secondo le diverse raggioni delle diverse misure ed ordini con li quali son dispensate diverse cose: perché cossì son differenti gli anni de gli astri, come le specie de particolari non son medesime. Or quanto al fatto della revoluzione, è divolgato appresso gli cristiani teologi, che da ciascuno de’ nove ordini de spiriti sieno trabalzate le moltitudini de legioni a queste basse ed oscure regioni;51 e che per non esser quelle sedie vacanti, vuole la divina providenza che di queste anime, che vivono in corpi umani, siano assumpte a quella eminenza. Ma tra’ filosofi Plotino solo ho visto dire espressamente, come tutti teologi grandi, che cotal revoluzione non è de tutti, né sempre, ma una volta.52 E tra teologi Origene solamente, come tutti filosofi grandi, dopo gli Saduchini ed altri molti riprovati, ave ardito de dire che la revoluzione è vicissitudinale e sempiterna; e che tutto quel medesimo che ascende, ha da ricalar a basso; come si vede in tutti gli elementi e cose che sono nella superficie, grembo e ventre de la natura.53 Ed io per mia fede dico e confermo per convenientissimo, con gli teologi e color che versano su le leggi ed instituzioni de popoli, quel senso loro: come non manco d’affirmare ed accettar questo senso di quei che parlano secondo la raggion naturale tra’ pochi, buoni e sapienti. L’opinion de’ quali degnamente è stata riprovata, per esser di Volgata54 a gli occhi della moltitudine; la quale se a gran pena può essere refrenata da vizii e spronata ad atti virtuosi per la fede de pene sempiterne, che sarebbe se la si persuadesse qualche più leggiera condizione in premiar gli eroici ed umani gesti, e castigare gli delitti e sceleragini?55 Ma per venire alla conclusione di questo mio progresso, dico che da qua si prende la raggione e discorso della cecità e luce di questi nove, or vedenti, or ciechi, or illuminati; quali son rivali ora nell’ombre e vestigii della divina beltade, or sono al tutto orbi, ora nella più aperta luce pacificamente si godeno.56 Allor che sono nella prima condizione, son ridutti alla stanza di Circe,57 la qual significa la omniparente materia. Ed è detta figlia del sole, perché da quel padre de le forme ha l’eredità e possesso di tutte quelle le quali, con l’aspersion de le acqui,58 cioè con l’atto della generazione, per forza d’incanto, cioè d’occolta armonica raggione, cangia il tutto, facendo dovenir ciechi quelli che vedeno. Perché la generazione e corrozione è causa d’oblio e cecità, come esplicano gli antichi con la figura de le anime che si bagnano ed inebriano di Lete.

Quindi dove gli ciechi si lamentano, dicendo: Figlia e madre di tenebre ed orrore, è significata la conturbazion e contristazion de l’anima che ha perse l’ali, la quale se gli mitiga allor che è messa in speranza di ricovrarle. Dove Circe dice: Prendete un altro mio vase fatale, è significato che seco portano il decreto e destino del suo cangiamento; il qual però è detto essergli porgiuto dalla medesima Circe; perché un contrario è originalmente nell’altro, quantunque non vi sia effettualmente: onde disse lei, che sua medesima mano non vale aprirlo, ma commetterlo. Significa ancora che son due sorte d’acqui: inferiori, sotto il firmamento che acciecano; e superiori, sopra il firmamento che illuminano: quelle che sono significate da pitagorici e platonici nel descenso da un tropico ed ascenso da un altro. Là dove dice: Per largo e per profondo peregrinate il mondo, cercate tutti gli numerosi regni, significa che non è progresso immediato da una forma contraria a l’altra, né regresso immediato da una forma a la medesima; però bisogna trascorrere, se non tutte le forme che sono nella ruota delle specie naturali,59 certamente molte e molte di quelle. Là s’intendeno illuminati da la vista de l’oggetto, in cui concorre il ternario delle perfezioni, che sono beltà, sapienza e verità, per l’aspersion de l’acqui, che negli sacri libri son dette acqui di sapienza, fiumi d’acqua di vita eterna. Queste non si trovano nel continente del mondo, ma «penitus toto divisim ab orbe», nel seno dell’Oceano, dell’Anfitrite, della divinità, dove è quel fiume che apparve revelato procedente dalla sedia divina, che ave altro flusso che ordinario naturale. Ivi son le Ninfe, cioè le beate e divine intelligenze che assisteno ed amministrano alla prima intelligenza, la quale è come la Diana tra le nimfe de gli deserti.60 Quella sola tra tutte l’altre è per la triplicata virtude potente ad aprir ogni sigillo, a sciôrre ogni nodo, a discuoprir ogni secreto, e disserrar qualsivoglia cosa rinchiusa.61 Quella con la sua sola presenza e gemino splendore del bene e vero, di bontà e bellezza appaga le volontadi e gl’intelletti tutti, aspergendoli con l’acqui salutifere di ripurgazione. Qua è conseguente il canto e suono, dove son nove intelligenze, nove muse, secondo l’ordine de nove sfere; dove prima si contempla l’armonia di ciascuna, che è continuata con l’armonia de l’altra; perché il fine ed ultimo della superiore è principio e capo dell’inferiore, perché non sia mezzo e vacuo tra l’una ed altra: e l’ultimo de l’ultima, per via de circolazione, concorre con il principio della prima. Perché medesimo è più chiaro e più occolto, principio e fine, altissima luce e profondissimo abisso, infinita potenza ed infinito atto, secondo le raggioni e modi esplicati da noi in altri luoghi. Appresso si contempla l’armonia e consonanza de tutte le sfere, intelligenze, muse ed instrumenti insieme; dove il cielo, il moto de’ mondi, l’opre della natura, il discorso de gl’intelletti, la contemplazion della mente, il decreto della divina providenza, tutti d’accordo celebrano l’alta e magnifica vicissitudine che agguaglia l’acqui inferiori alle superiori, cangia la notte col giorno, ed il giorno con la notte, a fin che la divinità sia in tutto, nel modo con cui tutto è capace di tutto, e l’infinita bontà infinitamente si communiche secondo tutta la capacità de le cose.

Questi son que’ discorsi, gli quali a nessuno son parsi più convenevoli ad essere addirizzati e raccomandati, che a voi, Signor eccellente, a fin ch’io non vegna a fare, come penso aver fatto alcuna volta per poca advertenza, e molti altri fanno quasi per ordinario, come colui che presenta la lira ad un sordo ed il specchio ad un cieco. A voi dunque si presentano, perché l’Italiano raggioni con chi l’intende; gli versi sien sotto la censura e protezion d’un poeta; la filosofia si mostre ignuda62 ad un sì terso ingegno come il vostro; le cose eroiche siano addirizzate ad un eroico e generoso animo,63 di qual vi mostrate dotato; gli officii s’offrano ad un suggetto sì grato, e gli ossequi ad un signor talmente degno, qualmente vi siete manifestato per sempre. E nel mio particolare vi scorgo quello che con maggior magnanimità m’avete prevenuto ne gli officii, che alcuni altri con riconoscenza m’abbiano seguitato. «Vale».

 

AVERTIMENTO A’ LETTORI.

Amico lettore, m’occorre al fine da obviare al rigore d’alcuno a cui piacesse che tre de’ sonetti, che si trovano nel primo dialogo della seconda parte de’ Furori eroici, siano in forma simili a gli altri, che sono nel medesimo dialogo; voglio che vi piaccia d’aggiongere a tutti tre gli suoi tornelli. A quello che comincia: Quel ch’il mio cor, giongete in fine:

Onde di me si diche:

Costui or ch’av’affissi gli occhi al sole,

Che fu rivai d’Endimion, si duole.

A quello che comincia: Se da gli eroi, giongete in fine:

Ciel, terra, orco s’opponi;

S’ella mi splend’ e accende ed èmmi a lato,

Farammi illustre, potente e beato.

A quello che comincia: Avida di trovar, giongete al fine:

Lasso, que’ giorni lieti

Troncommi l’efficacia d’un instante,

Che femmi a lungo infortunato amante.

ALCUNI ERRORI DI STAMPA PIÙ URGENTI.

Piacciavi, benigno lettore, prima che leggere, di corregere. Da A insino a Q significano gli quinterni. Il numero seguente quella lettera, significa la carta. F significa la faccia prima o seconda. L significa la linea..

A 1, f 2, 1. 2 correte a’ miei dolori. A 2, f 1, li 12, ritenendolo da cose. F 2, li 30, Homerica poesia. A 4, f 1, li [1]5, illustre mentre canto di morte cipressi et inferni. A 2, f 1, li 4, la gelosia sconsola, li 11, di regione. B 1, f 2, li 7, Potran ben soli con sua diva corte. C 2, f 2, li 2, sappia certo che se quei. lin 4, seguite che parlino. li 23 son divini. C 7, f 2, 1 15, suspicientes in. D 8, f 1, Alti, profondi. f 2, 110, compagni del mio core. E 6, f 1, l 21, intrattiene in quel essere. F 1, f 1, li 16, dice quell’altezza. G 8, f 1, 1 2, che fa volgar. 1 2, f 1, li 17, Per quanto mi si diè. K 5, f 2, li 19, Del gratioso sguardo apri le porte. L 6, f 2, li 21, XII, «Cesa». L 7, f 1, 1.10, da cure moleste. M 4, f 1, li 15, ergo. «Cor». N 5, f. 1, lin penultima Deucalion. O 3, f 1, li 14, Hammi si crudament’ il spirto infetto. O 4, f 2, li 10, Il Nil d’ogn’altro suon. O 5, f 2, li 13, intromettea la luce. O 7, f 1, li 6, Aspra ferit’ empio ardor, li 13, appresso Dite, f 2, li ultima, in quello aspira per certo più. O 8, f 2, lì ultima, alli quali si mostra, non proviene con misura di moto et tempo, come accade nelle. P 6, f 1, li antepenultima, quale chiumque ave ingegno. P. 7, f 1, li 12, Siam nove spirti che molt’anni. Q 1, f 1, li 10, Ch’io possa esprimere. Q 4, f 1, 1 22, De le dimore alterne.

 

ISCUSAZION DEL NOLANO

 

ALLE PIÙ VIRTUOSE E LEGGIADRE DAME.

De l’Inghilterra o vaghe Ninfe e belle,

Non voi ha nostro spirto in schifo, e sdegna,

Né per mettervi giù suo stil s’ingegna,

Se non convien che femine v’appelle.

Né computar, né eccettuar da quelle

Son certo che voi dive mi convegna,

Se l’influsso commun in voi non regna,

E siete in terra quel ch’in ciel le stelle.

De voi, o Dame, la beltà sovrana

Nostro rigor né morder può, né vuole,

Che non fa mira a specie soprumana.

Lungi arsenico tal quindi s’invole,

Dove si scorge l’unica Diana,

Qual’è tra voi quel che tra gli astri il sole.

L’ingegno, le parole

E ’l mio (qualunque sia) vergar di carte

Faranvi ossequios’ il studio e l’arte.

 

NOTE AL FRONTESPIZIO E ALL’ARGOMENTO DEL NOLANO

1 Si tratta di Philip Sidney (1554-1586), poeta, uomo d’arme e personaggio di spicco alla corte di Elisabetta I. La sua raccolta di sonetti Astrophil and Stella, pubblicata postuma nel 1591, esercitò una profonda influenza sulla lirica elisabettiana e gli meritò l’epiteto di «Petrarca inglese». Famosa è anche la sua Apology far poetry, scritta nel 1580 per difendere il primato della poesia.

2 Gli Eroici furori vennero in realtà stampati a Londra, nella tipografia di John Charlewood.

3 A partire dagli ultimi anni del Quattrocento si sviluppa e si impone, sia pur in modo non omogeneo, una linea interpretativa volta ad individuare nel Petrarca il momento-cardine di ogni elaborazione poetica. È un processo che trova la sua espressione teorica più rigorosa nelle riflessioni di Pietro Bembo, che sono destinate ad agire in profondità sulla critica e sulla poetica cinquecentesche. Inserendosi nel dibattito connesso al principio di imitazione — un tema che, in precedenza, era stato al centro del dibattito tra Poliziano e Paolo Cortesi —, il Bembo riprende e sviluppa i motivi portanti della critica cortesiana e sancisce il principio dell’«ottimo modello». Coerentemente con tali premesse, si sostiene la necessità di elaborare un lessico letterario tramato da immagini ed espressioni mutuate dagli autori più rappresentativi. Questi, sintomaticamente, vengono individuati in Cicerone e Virgilio per il latino, in Boccaccio e Petrarca per il volgare toscano. In particolare, come osserva il Bembo nelle Prose della volgar lingua, è stato merito del Petrarca l’aver plasmato un linguaggio altamente stilizzato, al cui interno le contraddizioni del reale sfumano e si risolvono in una armonia di ritmi verbali. Ecco che, in una prospettiva teorica simile, l’esperienza del Petrarca adombra lo sforzo di affrancarsi da un mondo sensibile strutturalmente effimero e transeunte: di conseguenza, si tratta di una poesia aperta a recepire gli stimoli e le suggestioni connessi al recupero e alla diffusione del platonismo. I grandi temi della tradizione platonica, filtrati dalla lettura particolarissima che ne era stata offerta da Ficino, interagiscono così con i moduli del Canzoniere e gli autori cinquecenteschi guardano al Petrarca come al protagonista di una vicenda esemplare, al cui interno spiccano i gradi diversi che scandiscono la dialettica platonica dell’eros e del suo slancio verso l’alto.

Allo stesso tempo, le dinamiche individuate dal Petrarca si prestano ad una lettura in chiave cristiana, dove il travaglio del poeta diventa emblema della lenta sublimazione che, in un’alternanza di inganni e disillusioni, riduce la passione terrena verso l’amore divino. Secondo questa interpretazione, la genesi dell’amore si determina in una condizione di oscurità, nella quale l’uomo è tutto dominato dalle sollecitazioni sensibili. Il travaglio del poeta adombra la crisi che investe l’uomo quando scopre la vanità insita in ogni esperienza terrena. È questo il cosiddetto «taedium vitae» o «taedium corporis», sintomo di una lacerazione interiore che induce l’uomo a desiderare la morte. Termine ultimo di questa crisi è il ricorso a Dio: si recupera così una speranza estrema, che, tuttavia, è posta oltre l’orizzonte sensibile e caduco che circoscrive le vicende umane. È dunque chiaro che proprio la natura straordinariamente duttile della poesia petrarchesca fa si che nel corso del Cinquecento, la lingua del Canzoniere si trasformi nel veicolo privilegiato della comunicazione letteraria. Questo, in ogni modo, non esclude la presenza di autori — quali il Berni — che mirano invece a dissolvere radicalmente l’armonia stilistica teorizzata dal Bembo, sovvertendo le norme del decoro e capovolgendo ironicamente i moduli propri del petrarchismo. In un contesto teorico simile, l’idealizzazione della figura femminile viene respinta come limite artificioso, frutto di un atteggiamento intimamente empio, in quanto si fonda su una concezione blasfema e idolatra dell’amor profano. Di fronte al magistero poetico del Petrarca, l’atteggiamento di Bruno è, in apparenza, duplice e si esplica volta per volta in forme diverse, al punto che si rilevano scarti fortissimi tra le varie opere: il Candelaio, infatti, è tutto percorso da una polemica aspra contro il linguaggio poetico del Petrarca. E, in quest’opera, i moduli artificiosi impiegati dai poeti per esprimere l’esperienza amorosa entrano in tensione con le battute in cui Bruno esalta invece la vitalità naturale: cfr. Giordano Bruno, Candelaio, Torino, 1964, p. 40, dove alle riflessioni di Bonifacio («or, essendo nel mio cor cessata quella fiamma che l’ha temprato in esca, facilmente fui questo aprile da un’altra fiamma acceso») fanno da contrappunto i commenti sarcastici di Bartolomeo («in questo tempo s’innamorò il Petrarca, e gli asini, anch’essi, cominciano a rizzar la coda»).

Analoghi riferimenti satirici ritornano anche nei dialoghi in volgare: cfr., in particolare, Spaccio de la bestia trionfante, in Giordano Bruno, Dialoghi italiani, nuovamente ristampati con note da G. Gentile, 3 ed. a cura di G. Aquilecchia, Firenze, 1858, pp. 582-583, dove Giove impone a Cupido «che non ardisca oltre di trar dardi se non per il naturale, e l’amor de gli uomini faccia simile a quello de gli animali […] e cossì, come a gli gatti è ordinario il marzo, a gli asini il maggio, a questi sieno accomodati que’ giorni ne’ quali se innamorò il Petrarca di Laura, e Dante di Beatrice». Ma, negli scritti di Bruno, la critica corrosiva contro la poesia dei pedanti si accompagna all’impiego frequente di motivi e immagini tratti dal Canzoniere: già evidente nel Candelaio, questa tendenza si riscontra ancora nei sonetti che aprono il De la causa, e sfocia nel recupero massiccio di temi petrarcheschi operato negli Eroici furori. Per spiegare le ragioni di questa oscillazione, occorre far riferimento a quella che è una costante della riflessione bruniana, ovvero la consapevolezza di un legame profondo, «originario», tra poesia e filosofia. È un tema abbozzato già nel De umbris, in Iordani Bruni Nolani Opera latine conscripta, publicis sumptibus edita, recensebat F. Fiorentino, F. Tocco, H. Vitelli, V. Imbriani, C.M. Taliarigo, Neapoli-Florentiae, 1879-1891, II, 1, pp. 15-16, poi ripreso e sviluppato, due anni più tardi, nella Explicatio triginta sigillorum, dove Bruno definisce, con forza teorica straordinaria, la convergenza che esiste tra praxis poetica e filosofica: cfr. Iordani Bruni Nolani Opera latine conscripta, cit., II, 2, pp. 133-134: «“pictoribus atque poetis quaelibet audendi semper fuit aequa potestas” […] ideoque philosophi sunt quodammodo pictores atque poetae, poetae pictores et philosophi, pictores philosophi et poetae, mutuoque veri poetae, veri pictores et veri philosophi se diligunt et admirantur; non est enim philosophus, nisi qui fìngit et pingit, unde non temere illud “intelligere est phantasmata speculari, et intellectus est ve! phantasia vel non sine ipsa”, non est pictor nisi quodammodo fingat et meditetur; et sine quadam meditatione atque pictura poeta non est». Sul riconoscimento del vincolo strettissimo che esiste tra poesia e «meditano» si fonda dunque l’analisi e la valutazione del linguaggio poetico: al pari dei filosofi, anche i poeti non si esprimono tutti con uguale efficacia; anzi, come nota Bruno, esistono forme di poesia intimamente corrotte. In questa prospettiva, il ragionamento di Bruno individua nel lessico estenuato del Petrarca il sintomo della «vecchiaia» e della crisi: la decadenza universale si riflette infatti in una poesia vuota di significati, al cui interno vengono meno i legami tra res e verba. Recidendo il nesso che congiunge la poesia alla vita, i seguaci del Petrarca distorcono la comunicazione e rendono ancora più grave il dissidio che regna nel «secolo infelice». Allo stesso tempo, Bruno recupera e dà risalto a quella sensibilità profonda che caratterizza il Petrarca, e che spinge il poeta ad indagare nell’intimo di sé. Da questo punto di vista, il lessico poetico del Petrarca si presta dunque ad essere utilizzato come «cifra» di una straordinaria esperienza di sé. E proprio nel recupero della tensione irrisolta connaturata all’esperienza poetica petrarchesca Bruno individua il mezzo per intrecciare di nuovo i legami tra poesia e vita e trasformare, come avviene nei Furori, la lingua della poesia nella lingua originaria del filosofo.

Per quanto concerne la ripresa in chiave ironica di immagini e moduli petrarcheschi, cfr. Candelaio, cit., pp. 32-33: «eccovi avanti agli occhi […] vani pensieri, frivole speranze, scoppiamenti di petto, scoverture di corde, […] alienazion di mente, poetici furori, offuscamento di sensi, turbazion di fantasia, smarrito peregrinaggio d’intelletto […]. Vedrete in un amante suspir, lacrime, sbadacchiamenti, tremori, sogni, rizzamenti, e un cor rostito nel fuoco d’amore; pensamenti, astrazioni, colere, maninconie, invidie, querele». Non diversamente, nello Spaccio, Bruno riprende in chiave ironica i versi del Tasso e vi inserisce, in polemica con ogni interpretazione «angelicata» della figura femminile, le battute ironiche del «talvolta pagando»: cfr. Dialoghi italiani, cit., pp. 620 e 602.

4 Il motivo del mondo come teatro deriva dalle concezioni mnemotecniche e si inserisce all’interno dell’interesse dominante per le allegorie, i simboli e le immagini. Nel XVI secolo, infatti, l’arte della retorica tende ad estendersi, fino a diventare logica e ontologia. In tale modo, concetti appartenenti all’arte della memoria e all’oratoria vengono ad interagire con una serie di tematiche proprie dell’ermetismo, del neoplatonismo e della cabala. L’ars reminescendi diviene una delle vie per accostarsi all’essenza della realtà, ed apre la via ad una serìe di tentativi volti ad attuare una raccolta organica e ordinata di tutte le nozioni e i fenomeni esistenti. D’altra parte, il motivo del «teatro mondano», che costituisce un concetto assai antico, viene ampiamente sviluppato, nella cultura europea alla fine del Cinquecento, come metafora della condizione dell’uomo nell’universo. In quanto tale, si presta ad essere sviluppata su due piani distinti. Da un lato, le immagini del teatro, della commedia e della maschera, ampiamente diffuse anche a livello di stampe popolari, vengono usate come simbolo di una visione disintegrata del mondo, che ha perso la sua consistenza ontologica. Tuttavia l’idea del mondo come teatro viene anche ad essere utilizzata in senso contrario, per esprimere la fiducia in un mondo ontologicamente forte. In questo contesto, l’immagine in esame si connette al concetto, sviluppato anche dalla tradizione cristiana, di una sostanziale bontà del creato. Il volgere delle sorti viene pertanto equiparato ad un gioco, predisposto dal fato per permettere il dispiegarsi di questa commedia universale. La pluralità delle vicende che si verificano nel mondo diviene la condizione indispensabile per il realizzarsi e il manifestarsi del fondamento ontologico e positivo della realtà.

Risulta chiaro che, in questa seconda accezione, l’idea del teatro del mondo assume una particolare rilevanza all’interno del pensiero cristiano. Viene sviluppata, tra gli altri, da Giovanni Crisostomo, che la interpreta in relazione al concetto paolino dell’ambiguo rapporto tra saggezza e follia. Nel primo Cinquecento, questo tema sarà riproposto da Marco Antonio Epicuro.

Il concetto del «teatro» costituisce, inoltre, uno degli elementi ricorrenti nella poetica di Campanella. L’autore se ne serve infatti sia per indicare il carattere precario del reale, sia, allo stesso tempo, per mettere in evidenza la natura fondamentalmente positiva della forza che governa il cosmo (cfr. Tommaso Campanella, sonetto Nel teatro del mondo ammascherate e canzone Al primo senno, in T. Campanella, Opere letterarie, a cura di L. Bolzoni, Torino, UTET, 1977).

5 Dal latino vasellum o vascellum, piccolo vaso.

6 L’impresa è costituita da una figura accompagnata da un motto. Si tratta di un tipo di rappresentazione assai diffuso nel Cinquecento che coincide con il tentativo di raffigurare graficamente e letterariamente i diversi concetti. Il costume di comporre imprese viene introdotto in Italia dalla Francia, insieme ad altri usi cavallereschi, intorno al Quattrocento. Tuttavia, la vastissima letteratura sugli emblemi, tipica del XVI secolo, dipende essenzialmente dagli studi, compiuti dagli umanisti sui geroglifici egiziani. Secondo l’interpretazione umanistica, i caratteri dei geroglifici egiziani si differenziano dalle altre forme di scrittura, in quanto si tratta di simboli pienamente coincidenti con i concetti, o gli oggetti, espressi. Abbiamo pertanto una piena corrispondenza tra res e verba: questa concezione si collega al mito di una antichissima sapienza egiziana, quasi del tutto oscurata dalla cultura greca e cristiana, che deve essere riportata alla luce. In questo senso, lo studio dei geroglifici o, in generale delle immagini simboliche diviene un mezzo per penetrare i segreti divini. L.B. Alberti è uno dei primi ad occuparsi, in modo sistematico, delle varie forme di rappresentazioni simboliche. In seguito, questo tentativo viene portato a pieno compimento da Piero Valeriano, nell’opera Hieroglyphica (1556). Ricordiamo inoltre G. Simeoni, Sentenziose imprese (1560); G. Ruscelli, Le imprese illustri (1560); H. Junius, Emblemata (1565); A. Alciati, Emblemata (1551); C. Camilli, Le imprese illustri (1586).

7 Cfr. Proprol. del Candelaio, cit., p. 23-6.

8 Si tratta di allusioni a temi tipici dei petrarchisti e del Petrarca. Per quanto riguarda il Petrarca, cfr. Canzoniere, sonetti Io son già stanco. Io avrò sempre in odio, Quella fenestra; canzoni Perché la vita, Gentil mia donna, In quella parte.

9 Cfr. Berni, «un morbo, un puzzo, un cesso» (Berni, sonetto Un dirmi, ch’io le presti, in Opere burlesche, Milano, 1806, p. 110).

10 Cfr. Berni «un’ombra, un sogno, una febbre quartana» (Berni, sonetto Chi vuol vedere quantunque può natura, ivi, p. 96). In modo analogo il Campanella, nella lettera a C. Flugh (Codice delle lettere edito dall’Amabile, Napoli, 1881, p. 67). osserva: «Dunque tutta la tua virtù, gloria e fama, ed amici, anzi, Dio stesso hai tu sottoposto ad una buca di sporchezze, ad un orinale, ad una sentina di fetore? O caro amico, mira, per dio, il fine, che ne cavi da quel vii pertuglio? Non vedi che natura, per avvilirci e farci far penitenza di nostri peccati ci dona quell’ardor infame di sotterrarci in una puzzolenza?».

Cfr. anche Cesare Caporali, Vita di Mecenate, IX, 9 «Onde ne nasce un fin brutto e pentito».

Il 2 giugno 1592, Bruno, nel secondo costituto veneto, dichiarò di aver detto qualche volta, a proposito del «peccato della carne», che questo «parlando in genere, era il minor peccato delli altri […] che il peccato della semplice fornicazione sia tanto leggiero, che fosse vicino al peccato veniale. […] L’ho però detto per leggerezza, e trovandomi in compagnia e raggionando di cose oziose e mondane […] e se ho alleggerito questo peccato più di quel che dovevo, è stato […] per leggerezza e trastullo della compagnia» (Spampanato, Vita di Giordano Bruno, Messina, 1921, pp. 725-726).

11 Il termine φαυτάσμα viene frequentemente usato dai neoplatonici per indicare il carattere illusorio e ingannevole del mondo sensibile. In seguito, questo motivo viene introdotto nella tradizione cristiana attraverso le opere della patrìstica greca. Nelle opere di Gregorio di Nissa, Basilio e Gregorio di Nazianzo ritornano infatti temi centrali della spiritualità ellenistica: l’anima viene descritta come la Psiche addormentata nel mondo delle apparenze, di cui viene sottolineata l’inconsistenza. La bellezza sensibile viene pertanto definita una φαυτασία o un φαυτάσμα.

Cfr. Gregorio di Nissa, Commento al Cantico dei Cantici, P.G. LXVI: «Il Signore […] raccomanda a quanti si volgono verso la via che conduce verso l’alto di scacciare l’assopimento degli occhi, come se fosse un seduttore di anime e un nemico della verità; mi riferisco a quel torpore e a quel sonno che si produce nello spirito di quanti sono inseriti nell’illusione della vita, a causa di quei sogni menzogneri che sono le grandezze, il fasto, la magia (γoητεΐα) dei piaceri, e tutto quello che è follemente ricercato dagli uomini leggeri, il cui essere è nell’apparenza (èv τω δoκεΐν) […]. È affinché le nostre anime sfuggano a questi fantasmi (φαντάσματα) che il verbo ci ordina di contrastare questo pesante sonno degli occhi dell’anima».

12 In questa espressione possono essere riscontrati due simboli di particolare forza, ampiamente utilizzati per raffigurare i caratteri essenziali del mondo sensibile. L’immagine della maga omerica, che trasforma i compagni di Ulisse in animali, viene assai presto utilizzata dai pitagorici come simbolo della forza della generazione, che continuamente costringe le anime ad incarnarsi nei corpi di diversi esseri viventi. In seguito, le interpretazioni allegoriche dell ’Odissea, elaborate sia dai pitagorici che dai tardi platonici, associano a Circe una serie di concetti tipici delle dottrine relative alla metasomatosi o alla palingenesi. A questo proposito si osserva che il nome stesso di Circe, che contiene la radice della parola Kipico (circolo o anno solare), rimanda al carattere ciclico della trasmigrazione delle anime. La metempsicosi, o palingenesi viene infatti caratterizzata comunemente come una ruota, o un circolo, che imprigiona le anime e le costringe a subire, periodicamente, mutamenti di forma e condizione (cfr. P. de Courcelle, La consolation de philosophie dans la tradition litteraire, Paris, 1967). La bevanda magica che Circe offre ai compagni di Ulisse viene invece interpretata come una allusione alla nascita dell’uomo, che coincide con una mescolanza di mortale e immortale. Il miscuglio della maga rappresenta quindi una immagine assai forte per simboleggiare il carattere «magico» e innaturale dell’unione di anima e corpo. In questo senso, viene frequentemente associato alla fòrmula empedoclea «morte di un corpo, vita di un’anima; morte di un’anima, vita di un corpo» (cfr. Buffier, Mythes d’Homère, ed. Les belles lettres, Paris, 1956, pp. 567-516). Una analoga interpretazione del mito di Circe viene riferita da Plutarco in De vita et poesi Homeri, fr. CCXI. In seguito Proclo, ispirandosi ad una esegesi di tipo porfiriano, secondo cui il filtro di Circe designa l’άφρωσυνη (la follia che acceca le anime e le rende desiderose di nuove incarnazioni) osserva che l’incantesimo di Circe indica «l’errore, l’oblio e l’ignoranza» (Proclo, In primum Alcibiadem, 110 c). Il pensiero cristiano, pur rifiutando con decisione il tema, pitagorico e platonico, della metasomatosi, sviluppa con particolare insistenza il concetto dello stretto rapporto che si instaura tra la schiavitù al vizio e la perdita degli attributi propri dell’uomo. In questo contesto, la tradizionale interpretazione del mito di Circe ritorna frequentemente negli scritti della patristica greca e latina. Ambrogio, nel De excessu fratris, II, 127, I, utilizza l’espressione «Circaeum poculum» per indicare quelle passioni sfrenate che rendono l’uomo simile ad una belva priva di ragione. Gregorio di Nissa, che pure si serve raramente di citazioni esplicite, sottolinea con particolare forza l’analogia esistente tra la disumanizzazione, conseguente al peccato, e il mito delle metamorfosi animali compiute da Circe. In particolare, nella Vita di Mosè, si osserva che «attraverso i sortilegi di Balaam, intendiamo le diverse illusioni della vita presente, attraverso le quali gli uomini, come se fossero stati avvelenati da qualche pozione di Circe, escono dalla loro propria natura per rivestire le forme di animali» (Gregorio di Nissa, Vita di Mosè, XLIV, 428 c). Oltre a ciò, è opportuno osservare che anche il concetto di incantesimo o magia costituisce un’immagine tipica della filosofia ellenistica per indicare il carattere illusorio del cosmo e la condizione miserabile dell’anima, vincolata al mondo delle apparenze. Il tema dei magici legami, che impediscono all’anima di ascendere al principio divino, e la incatenano, mediante il richiamo delle passioni e dei piaceri, al mondo della materia, costituisce un’immagine platonica e plotiniana. Scrive infatti Plotino: «attaccate ai loro corpi le anime vengono incatenate, attraverso dei legami magici (γoητεΐζ δεσμôιζ), e sono del tutto possedute dalle passioni della natura del corpo» (Plotino, Enn., IV, 3, 17). Anche Gregorio di Nissa osserva, a proposito del carattere magico della realtà: «[…] per magia, io intendo l’illusione varia di questa vita, attraverso cui gli uomini, ingannati, come se avessero bevuto una bevanda magica dalla coppa di Circe, perdono la loro propria natura» (Gregorio di Nissa, op. cit. 428 c). La schiavitù alle passioni diventa così una sorta di estasi rovesciata, in quanto l’uomo, ricercando il piacere dei propri sensi, esce dai limiti della propria natura, ma solo per acquistare caratteri animali.

13 Anche il motivo della generazione (γενσιζ), interpretato come la forza che costringe l’anima a permanere nel mondo del sensibile, rappresenta un concetto tipico delle dottrine pitagoriche e platoniche. Secondo Proclo, In Crat. 53, 22, 7, la Circe omerica è simbolo della generazione e, in quanto tale, si colloca al limite estremo del cosmo, in mezzo alle potenze che governano la natura. La genesis, attraverso il richiamo delle passioni, impedisce l’ascesa dell’anima e costringe gli uomini a vivere, sulla terra, una esistenza irrazionale, simile a quella di lupi o di porci. «Non dobbiamo affatto stupirci se le anime, nel mondo della generazione, soffrono e sono prive di intelletto e di conoscenza, perché è questo tipo di anime che richiede la generazione.» (Proclo, In primum Alcibiadem, 110 c) Il concetto della generazione, inoltre, si connette al tema platonico delle due forme di amore, la Venere celeste e la Venere terrena (cfr. Platone, Simposio, 208 b-c). Mentre la Venere celeste permette all’uomo di assimilarsi alla divinità, la Venere terrena ha, come unico fine, la generazione. Ficino, commentando questo passo, osserva che questo secondo tipo di amore si identifica con un «cattivo demone» e con «l’occulto stimolo a generare figlioli» (Ficino, Sopra lo amore, VI, VIII, 149-150). La trattatistica d’amore cinquecentesca svilupperà con particolare insistenza il motivo del rapporto esistente tra l’amore terreno e la necessità della generazione (cfr. a questo proposito, Nelson, Reinassance theory of love, New York, 1958, pp. 75-76).

Ricordiamo, infine, che in un passo di Ficino, viene sottolineata la relazione che esiste tra l’immagine di Circe e il motivo dell’amore carnale, che ha come fine la generazione: «[…] quando si dice che Ulisse ha ricevuto un certo fiore da Mercurio, cioè l’illuminazione da Dio per mezzo di un angelo, egli è sfuggito anche alla coppa avvelenata di Circe; cioè è sfuggito agli allettamenti dell’amore corporeo (illecebras corporalis amoris), che trasformano l’anima umana in bestia» (Ficino, Expositio de triplici vita et fine triplici, in Opera, I, X, P921).

14 Secondo la teoria platonica, introdotta nella cultura europea da Ficino, l’amore è essenzialmente desiderio di Bellezza. Rifacendosi a concetti sviluppati nel Fedro platonico (Platone, Fedro, 232e) Ficino osserva che l’uomo volgare è portato ad accontentarsi semplicemente della bellezza esteriore. Si possono ricongiungere al principio divino, infatti, solo le anime che rifiutano la bellezza apparente, per seguire invece il «divino furore» (cfr. Ficino, In Convivium, VII, XII e XIV; In Phaedrum, IV). A partire da Platone, si tende a sottolineare l’antitesi che esiste tra la mutevole bellezza terrena e la bellezza eterna, che si identifica con Dio. Questa distinzione, riscontrabile anche nelle opere di Plotino, verrà in seguito ripresa dagli autori cristiani. In particolare, i mistici greci collegano il tema del carattere illusorio e mutevole della bellezza terrena a quello riguardante la necessità di «volgere gli occhi» verso Dio. Osserva, a questo proposito Gregorio di Nissa: «Tutto quello che si mostra bello agli occhi della sensibilità, è tale per un errore di giudizio» (P.G. XLIV, 737 B). La bellezza sensibile si rivela pertanto un principio estraneo alla vera natura divina. L’uomo che si lascia ingannare da questa falsa apparenza è costretto a seguire il ciclo di continui mutamenti, che regolano la dimensione corporea, ed è esposto al perpetuo miraggio del desiderio.

15 Il rapporto tra l’immagine del sole e il concetto della generazione viene ampiamente sviluppato all’interno della tradizione pitagorica e platonica. Il sole che sorge e tramonta viene infatti considerato emblema della palingenesi. Anche in questo caso, pitagorici e platonici si rifanno al mito omerico di Circe, osservando che, non a caso, Circe è figlia del sole. Cfr. pseudo-Plutarco, De vita et poesi Homeri, fr. CXXVI. Ricordiamo, infine, che il tema della generazione come mezzo per assicurarsi l’immortalità tramite i propri successori viene analizzato da Platone, Fedone, 71 a-71 b e Simposio 208 b-c.

16 Cfr. Ovidio, Metam., VIII, 797-798 «Devenit in Scythiam rigidique cacumine montis / Caucason appellant».

17 Cfr. Seneca, Hippolytus, I, 7-8; Claudiano, De raptu Proserpianae, III, 321-322; Virgilio, Georg., I, 240; III, 382; IV, 518.

18 Attraverso i due opposti termini «Dio» e «Cesare», Bruno ripropone un concetto di origine platonica (Simposio, 208 b-c), in seguito analizzato da Ficino (Comm. in Conv., II, VII, 39). Si tratta di un tema caro alla trattatistica d’amore rinascimentale, che sottolinea l’antitesi esistente tra le due Veneri, la celeste e la terrena. Cfr. Ficino, Comm. in Fileb., XI, dove si osserva che esistono due Veneri, due piaceri e anche due procreazioni nell’uomo: da un lato, questi riguardano la sua dimensione divina, dall’altro, la semplice forma corporale. (Ricordiamo che un tema analogo può essere riscontralo in Bernardo. Sermones super Cant. Cant., I, I.) Cfr., inoltre, G. Betussi, Il Raverta, p. 30.

19 Si tratta di una specie di aconito.

20 Priapo. Per il mito di Pomona e Vertunno. cfr. Ov., Met., XIV, 654.

21 Cfr. Bruno, De la causa, p. 295.

22 Precisa il Gentile: «derivato dal napolet. “avèrzeto”, “d’avèrzeto”: che ha preso lo spunto, acido, inacidito».

23 Il termine «furor» possiede, in latino, un significato assai ampio, e serve per indicare tutti gli stati di alterazione in cui l’individuo sembra oltrepassare le proprie capacità razionali. Può pertanto indicare furore amoroso, furore guerriero, delirio e frenesia. Apuleio spiega il «furor divinus», tipico dei poeti e dei veggenti come il frutto di esalazioni prodotte dalla terra, ma inviate dalla divinità (Apuleio, De mundo, XVII). Nel suo commento a Platone, Ficino utilizza il termine in due accezioni del tutto diverse. «Furor» serve a caratterizzare sia la condizione dell’anima immersa in una oscurità ferina, sia l’esaltazione dell’animo di fronte alla luce assoluta di Dio (M. Ficino, In convivium, VII, XII-XIII, XIV; In Phaedrum, IV). Al livello più alto, troviamo invece il «furor divinus», che Ficino definisce «una certa illuminazione dell’anima razionale, attraverso cui Dio richiama alle cose superiori l’anima che, dalle cose superiori, era precipitata a quelle inferiori» (M. Ficino, In convivium, VII, XIV).

24 Cfr. Orazio, Epistula ad Pisonem, 30 «Delphinum silvis appingit fluctibus aprum». Cfr. anche Bruno. Spaccio, II, p. 246.

25 Il Cantico dei Cantici, già nella tradizione ebraica, viene interpretato in modo allegorico. Le vicende narrate vengono, pertanto, poste in relazione con le vicende di Israele, la nazione che diventa la sposa del suo Dio. L’esegesi cristiana, in seguito, riprende una analoga linea interpretativa, cosicché il Cantico viene a diventare metafora dell’itinerario compiuto dall’anima. Origene, nel suo Commento al Cantico dei Cantici, sviluppa una esegesi allegorica e morale, profondamente influenzata da concetti e tematiche proprie del neoplatonismo. In effetti Origene considera quest’opera come un trattato sull’amore divino, in cui possono essere riscontrati numerosi punti di contatto con le dottrine platoniche dell’eros. Origene sostiene infatti che ci troviamo in presenza di un libro ispirato, che introduce e sviluppa, nella parte centrale della Bibbia, una immagine fondamentale. Si tratta della metafora secondo cui l’umanità, attraverso l’amore, diventa la sposa di Dio. L’autore individua pertanto, all’interno della narrazione biblica, un concetto di amore affine a quello presentato da Platone nel Simposio (208 b-c).

L’amore per Dio si configura infatti come un principio fondamentale per il superamento del mondo del sensibile e delle apparenze.

Interpretazioni analoghe vengono elaborate dalla patristica greca, che considera il Cantico come la descrizione simbolica dell’iniziazione dell’anima ai misteri divini. Si riscontrano qui alcuni temi tipici della spiritualità greca ed ellenistica: l’anima è la Psyche, immersa nell’oscurità delle apparenze, che l’eros risveglia ad una vita divina. All’inizio del suo Commento al Cantico dei Cantici, Gregorio di Nissa scrive che il racconto biblico ha per oggetto l’unione dell’anima con la divinità (Greg., Comm. al Cantico, P.G. XLIV, 772 A). Ancora una volta, l’eros viene interpretato come una forza sovrarazionale che permette l’identificazione con il principio divino. «La natura umana — scrive Gregorio — non può esprimere questo di più [l’amore divino]. Ha dunque preso come simbolo, per farci comprendere il suo insegnamento, quanto c’è di più violento tra le passioni che si esercitano in noi, cioè la passione d’amore, in modo che noi apprendiamo, attraverso essa, che l’anima che ha gli occhi fissi sulla bellezza inacessibile della natura divina, è presa da essa, sebbene il corpo abbia appetiti per quello che è a lui connaturale […] e arde d’amore per la sola fiamma dello Spirito.» (op. cit., P.G. XLIV, 773 C-D).

26 Con «discorso naturale», si intende una esposizione che non si rifà ad alcuna rivelazione, ma si articola in relazione alle capacità intellettive. Una simile opposizione di «naturale» e «consacrato» può essere individuata frequentemente nelle opere di Bruno. Nella Cena delle Ceneri, Bruno usa il concetto di «naturale» in opposizione a quello di «matematico». Parlando di Copernico, osserva infatti che il suo discorso è «più matematico che naturale» (Bruno, Cena delle Ceneri, p. 22). Nella stessa opera il termine «naturale», nel senso di fìsico e razionale, viene riferito, in senso positivo, al libro di Giobbe: «uno de’ singolarissimi che si possan leggere, pieno d’ogni buona teologia, naturalità e moralità, […] contemplativo, naturale e divino» (Bruno, ivi, p. 94).

27 Cantico dei Cantici, IV, 1-7.

28 Cfr. Ovidio, Remedia amoris, 763-764: «Carmina quis potuit tuto legisse Tibulli- vel tua cuius opus Cinthia sola fuit?», Sid. Apoll., Epist., II, 10: «Reminescere quod saepe versum Corinna quod suo Nasone copmplevit, Lesbia cum Catullo, […] Cynthia cura Propertio». Cfr. anche Properzio, Eleg., VI, 25.

29 Cfr. Platone, Fedro, 246 d-248 c, dove si sottolinea il valore escatologico delle anime: «È proprio della natura delle ali essere adatte a condurre verso l’alto ciò che è pesante, elevandolo là dove dimora la stirpe degli dei».

30 Bruno allude qui alla concezione dell’estasi» propria di Filone Alessandrino, che nel Quis rerum divinarum heres sit, procede a classificare le diverse accezioni di questo termine. Come il latino «furor», anche il corrispondente termine greco «estasi» serve a designare ogni sorta di alienazione dello spirito (cfr. Aristotele, Categ., VIII, 17). Nella Bibbia il vocabolo viene utilizzato ripetutamente, anche se con delle accezioni diverse, in quanto designa sia il «sonno profondo» in cui Dio immerge Adamo per creare Eva, sia l’ammirazione di Abramo di fronte al fuoco divino. Dopo aver rilevato l’ambiguità al termine, Filone osserva che «estasi significa in primo luogo una malattia dello spirito, che provoca l’insanità mentale, a causa della vecchiaia e della malinconia o di qualche altra cosa; inoltre può significare lo stupore di fronte a degli eventi che si verificano in modo imprevisto e inaspettato, oppure la tranquillità dello spirito quando è in condizione di riposo; infine, al livello più alto, indica un trasporto che deriva da una possessione divina» (Filone. Quis rer., 249). La teoria dell’estasi, elaborata da Filone, pone l’accento sul rapporto esistente tra l’estasi e il sonno. In entrambi i casi, infatti, ci troviamo in presenza di una fuga dello spirito umano. Scrive Filone che l’estasi divina coincide con uno stato di entusiasmo, in cui il principio divino scaccia le facoltà umane e si insedia al loro posto (Filone, Quis rer., 2S9). Si tratta di una concezione che si ricollega ad una tradizione antichissima, che si ritrova nei culti dionisiaci e nell’lone platonico. L’estasi coincide qui con una sortadi divina follia. In questo senso, Plutarco definisce «estasi» la contemplazione del bello e del bene, cui giungono gli iniziati nel corso dei misteri isiaci. L’estasi viene definita come «la contemplazione dell’intelligibile purissimo e semplice, come lampo che trapassa l’anima, fa, allo stesso tempo, vedere e toccare» (Plutarco, De Iside et Osiride, 382 d).

31 Bruno critica il petrarchismo in quanto, nelle sue manifestazioni meno elevate, coincide con un atteggiamento di pedanteria intellettuale, che mira a contenere il furor poetico all’interno di un sistema di regole ben precise. Tuttavia, negli Eroici furori, si serve di moduli petrarcheschi a causa della loro estrema raffinatezza e della loro capacità di recepire sollecitazioni platoniche.

32 Cfr. Virgilio, Georg., IV, 485 ss., Ovidio, Metam, X, 11, ss.

33 La poesia italiana del XVI secolo offre numerosi esempi di elogi burleschi. Cfr. Berni, In lode della peste, In lode dell’orinale; Mauro, In lode della fava, In lode della carestia, In lode del caldo del letto, In lode delle menzogne. Sono raccolti nel testo Rime del Berni, Casa, Mauro, Varchi, Dolce et altri autori.

34 Si allude ai poeti latini, a Petrarca e ai petrarchisti e ai poeti burleschi.

35 Cfr. Virgilio, Bucoliche, I, 66; «et penitus toto divisos orbe Britannos».

36 Si allude qui a Elisabetta d’Inghilterra. Cfr. Bruno, Cena delle Ceneri, pp. 67-68; De la causa pp. 222-223.

37 Cfr. Betussi, Il Raverta, cit., pp. 29-30: «Quali sono queste due Veneri? Per la celeste si intende quel desiderio e quello amore intellettuale che può rendere l’anima, astratta da tutte le altre cose, alla contemplazione spirituale. Per l’altra si intende quel libidinoso e biasimevole appetito, che ad altro non tende, eccetto che a godere di quella ombra di bellezza vana; e ben si dice Venere e Amor volgare, perciocché è quello che segue il volgo, il quale, sì come meno intendente e più rozzo investigatore delle perfette bellezze, più difficilmente le apprende e meno le conosce».

38 Cantico dei Cantici, II, 9.

39 ivi, 1, 6.

40 Cfr. Bruno. De la causa, V, 318-319.

41 Cantico dei Cantici, II, 11-12.

42 Proverbi, XXV, 27.

43 Cfr. Spampanato, Vita di Giordano Bruno, cit., pp. 189-280.

44 Il termine «ente» viene qui usato nel senso del greco τo öv.

45 Il motivo della assoluta trascendenza dell’essere rispetto al pensiero umano, che è incapace di afferrare e esprimere razionalmente l’unità assoluta del principio supremo, viene a costituire la base della teologia negativa. Plotino è il primo ad introdurre nel pensiero occidentale le problematiche connesse all’ineffabilità divina: cfr. Enn., V, 3(49), 12, 48 ss; V, 5, 11; VI, 7, 17 e 32-33. Ricordiamo che, in questi testi, Plotino si richiama a motivi platonici, espressi nel Parmenide, 28 B 9 e nella VII Epistola, 341 b.

46 I nove ciechi sono, di volta in volta, simboli dell’universo o dell’uomo. Cfr. l’introduzione di Michel a G. Bruno, Les fureurs heroiques, Paris, 1954, pp. 11-14.

47 La divinità rappresenta la ragione semplice, il numero, mentre, invece, la totalità delle cose create viene prodotta dalla riflessione in sé (quadratura) della divinità.

48 Cfr. Cioffari, Fortune and Fate from Democritus to St. Thomas Aquinas, N.Y., 1935, c. III Eimarmene, pp. 33-34; Pauly-Wissowa, Realencyclopädie der classischen Altertumwissenschaft, Stuttgart, 1893, articolo Eimarmene, pp. 2624 ss.

Per quanto riguarda il concetto, pitagorico e platonico, del perpetuo ciclo delle cose, cfr. Diogene Laerzio, Vita Pythagorae, VIII, 14; Proclo, In Remp., II, 339, 1, ed. Kroll; In Tim., ed. Diehl, t. III, p. 296,7; Simplic., De caelo, in C.A.G., t. VII, p. 377, 14; Sidon. Apoll., Epist. ad Lupum, VIII, II, 4. Proclo, in De malorum substinentia, XVIII, 23 parla di una rinascita ciclica delle anime: «velut circulo adnascentia animabus». Priscilliano, Traci., I, 31, C.S.E.L., t. XVIII, p. 26, 21 allude in modo analogo, ad una «rotam geniturae». In senso inverso, i mani che sostengono che la ruota delle anime, o ruota dello zodiaco, permetta la risalita delle anime: «Filius Dei […] machinam quondam concinnatane ad salutem animarum, id est rotam, statuit, habentem duodecim urceos; quae per hanc sphaeram animas hauriens morientium vertitur» (cit. da F. Cumont, La roue à puiser les Âmes, in «RHR», t. LXXII, 1915, p. 384). Gli autori cristiani rifiutano fermamente il tema di una rinascita ciclica delle anime; Agostino, nel De civitate Dei, X, 30, C.C. t. XLVII, p. 308, 53, osserva che «Falso igitur a quibusdam et platonicis creditur quasi necessarius orbis ille ab eisdem abeundi et ad eadem revertendi (l’autore si riferisce qui a Platone, Fedone, 70 c). Porphyrii profecto est praeferenda sententia his, qui animarum circulos alternante semper beatitate et miseria suspicati sunt» (Agostino, De civitate Dei, X, 30).

49 Virgilio, Eneide, VI, 748, 749, 751. Il verso 750 è stato omesso mentre il 751 è stato leggermente alterato. Nel testo originario, infatti, si legge: «Has omnes, ubi mille rotam volvere per annos, / Lethaeum ad fluvium deus evocat agmine magno, / Scilicet immemores supera ut convexa revisas / Rursus et incipiant in corpora velle reverti». Commentando questi versi, Gerolamo osserva: «Audi quid apud Graecos Pythagoras primus invenerit: immortales esse animas et de aliis corporibus transire in alia. Quod quidem et Virgilius in sexto Aeneadis volumine sequens loquitur; Pythagoras ait se primum fuisse Euphorbum, secundum Callidem (Arthalidem), tertium Hermotimum, ad extremum Pythagoras: et post certos temporum circulos ea quae fuerunt rursus fieri, nihilque in mundo videri novum» (Gerolamo, Adversus Rufinum, III. 39, P.L. t. XXIII, 486 B). Il passo virgiliano, citato qui da Bruno, viene frequentemente citato e commentato dagli autori platonici, che se ne servono per confermare le teorie relative alla trasmigrazione e all’immortalità delle anime. Cfr., a questo riguardo, P. de Courcelle, La consolation de philosophie dans la tradition literaraire, Paris, 1967, pp. 127 ss.

50 Si tratta di una immagine tratta dalla Bibbia; cfr. Apocalisse, XX, 2-7.

51 È questa una concezione sostenuta da diversi autori cristiani. Cfr. Hario, In Matheum, XVIII, 6, P.L. t. IX, 1001; Agostino, Ench., XXIX, P.L. t. XL, 246; De civitate Dei, XXII, I, P.L. t. XLI, 751.

52 Cfr. Plotino, Enn.. IV, 8. Per quanto riguarda il concetto della discesa delle anime nei corpi. Bruno si ispira al commento di Ficino: «Praeterea nec oportet omnem animam omnes induere species, nec quamlibet animam pariter ascendere vel descendere» (M. Ficino, In Plotinum, IV, 8, 2).

53 Una concezione analoga può essere individuata anche nel De principiis, dove Origene scrive: «Dal momento che l’anima è immortale. […] noi pensiamo che, attraverso gli spazi immensi e i secoli senza fine, sarà sempre possibile discendere dall’alto della virtù agli abissi del vizio e ritornare dagli estremi mali fino ai sommi limiti del bene» (Origene, De principiis, III, 1, 21, P.G. t. XI, 17). Tuttavia è opportuno ricordare che Origene non crede affatto che tali vicissitudini si perpetuino in eterno, in quanto è convinto che, nel corso dei vari cicli si compia un progresso. In tal modo, i vari enti tendono a ritornare, lentamente, a quella condizione di perfetta unità con Dio, che era stata la condizione propria del creato prima che il peccato portasse ad una affermazione autonoma, e di conseguenza ad un distacco, degli esseri che vivevano in Dio. Per quanto lontano, esiste pertanto un termine al ciclo di ascesa e discesa. Questo termine finale è costituito dall’apocatastasi, che coincide con la consumazione delle cose e con la definitiva eliminazione del peccato.

54 Cfr. Cena delle Ceneri, p. 29: «[…] coloro che hanno la possessione di questa verità, non denno ad ogni sorta di persona comunicarla.»

55 Anche in questo caso, siamo di fronte ad una concezione elaborata da Origene. Secondo Origene, infatti, in conformità con la sua dottrina dell’apocatastasi, le pene riservate ai dannati hanno un carattere temporaneo. La credenza in una pena eterna ha soltanto un valore strumentale, in quanto serve a spaventare le folle (cfr. Origene, Contra Celsum, VI, 26; III, 79; In Ierem. Hom.. XIX, 4).

56 Cfr. Proclo, In prinntm Alcibiadem, 256-258: «Per le anime, l’esistenza in un corpo non è affatto naturale, non più della vita legata alla generazione; al contrario è la vita separata, immateriale e incorporale che meglio si adatta ad esse. E, quando le anime sono nel mondo della generazione, esse assomigliano a coloro che si trovano, secondo l’espressione di Platone, nella prateria. […] non c’è nulla di stupefacente se, nel mondo della generazione, le anime malvagie e dominate dalle passioni sono le più numerose […] perché oblio, errore e ignoranza assomigliano effettivamente a un qualche veleno, che attira le anime verso la regione della dissimilitudine. Perché ti meravigli, se molte, nella loro vita, sono dei lupi, molte sono dei lupi, molte altre manifestano l’apparenza di qualche altra bestia, dal momento che il mondo terrestre è l’antro di Circe e che molte delle anime si lasciano prendere dal suo filtro, a causa del loro insaziabile desiderio?».

57 Cfr. Buffìer, Les mythes d’Homère, Paris, 1956, pp. 507, 516 ss. Scrive Porfirio: «Omero chiama Circe questo corso ciclico e rivoluzione, Circe figlia del sole, colui che realizza e lega senza posa tutta la distruzione ad una nascita, e la nascita, a sua volta, ad una distruzione. […] Il destino e la natura che presiedono a questo cambiamento sono chiamati da Empedocle un demone che investe a avviluppa le anime. (Porf., Stob. Ecl., I, 41-60).

58 L’acqua, presso tutti i popoli, è simbolo della materia prima e rappresenta la totalità delle possibilità e delle manifestazioni. Come tutti i simboli, può associarsi ad una doppia serie di immagini, positive (vita, creazione, illuminazione) o negative (morte, distruzione, tenebra). La distinzione tra «acque superiori» e «acque inferiori», contenuta in Gen., I, 6-7, è stata a lungo interpretata, dagli autori cristiani, sulla base di questo duplice simbolismo acquatico. Cfr. Origene, Hom. in Gen., I, 2. Questa interpretazione viene però combattuta da Gerolamo, Epist. 51, 5 e da Basilio, Hom, in Exaemer., 3. In ogni caso, secondo l’interpretazione comunemente accettata, la distinzione biblica tra acque superiori e acque inferiori rimanda all’eterogeneità esistente tra le ragioni eterne e increate e gli enti che, invece, sono stati prodotti attraverso l’efficacia onnipotente di Dio. Le cose create sono caratterizzate pertanto da mutevolezza e fluidità e non possono quindi dare luogo ad una conoscenza eterna e certa. Le acque superiori, al contrario, coincidono con principi incorruttibili ed immutabili e costituiscono il mezzo per raggiungere la vera sapienza. Scrive Agostino: «esistono, io credo, altre acque sopra questo firmamento, acque immortali e separate da questa terra» (Agostino, Conf., XVII, 18). Cfr. anche Agostino, Conf., XIII, 7 (8); En. Psalm., 123, 9, C.C. 40, p. 1831; En. Psalm., 64, 9, C.C. 39 p. 832. La simbologia acquatica costituisce, inoltre, un tema comune ai mistici medioevali; cfr. Ugo di S. Vittore, De arca Noe morali, IV, vi, P.L. 176, 672 e Eckhart, Exp, in Gen., I, ed. L.W. I., p. 63: «et fortasse istae sunt aque superiores et inferiores, inter quas dividitur firmament quia superiores sunt firmas et stabiles, in quo dividuntur, id est distinguntur, ab inferioribus.»

59 Cfr. Giov., IV, 14, citato da Origene, op. cit., I ,2.

60 Cfr. l’ultima stanza della canzone Di que’ Madonne.

61 Cfr. Eroici furori, parte II, dialogo V.

62 Bruno, nel De immenso, VIII, I pp. 86-87, celebra la «filosofia nuda», il cui corpo è fonte di luce.

63 Cfr. De la causa, V, pp. 263-264.