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«Any trink

Smilzo aprì gli occhi.

Il viso del cameriere era a dieci centimetri dal suo naso. Sorrideva e i denti candidi risaltavano sulla pelle scura del ragazzo.

Che è successo, pensò.

Mise a fuoco davanti a sé: una distesa blu di acqua cristallina.

Non era nella foresta, a morire affogato nel fango. Era stato solo un sogno.

Santa Cunegonda, si trovò a pensare sollevato, grazie. Però che paura.

Dove si trovava adesso? Era steso davanti all’oceano sotto il sole di un paradiso tropicale dei Caraibi di cui non ricordava neanche il nome, ammesso che l’avesse mai saputo, ad annoiarsi sotto le palme, senza niente da fare e senza nessuno al mondo che sentisse la sua mancanza.

Nessuno nessuno nessuno, nemmeno il destino.

O meglio. Forse il destino non sentiva la sua mancanza ma la polizia sì.

Di fatto era un ricercato. Un uomo in fuga dal mare di guai che era riuscito a mettere insieme negli scarsi trentasei anni di vita che si portava addosso.

Tutto era cominciato a Roma, quando non si chiamava ancora Smilzo, ma in un altro modo che al momento aveva sepolto sotto il cuore di ghiaccio che costituiva il suo passato. Era un nome importante, il suo, allora, fatto di soldi e coi soldi. E alimentato da un fiuto rapace sempre teso a farne di più, e di più. Era nell’olimpo dei Madoff, degli schemi Ponzi e degli idioti senza rimedio.

Pensò al suo ufficio dietro via Veneto, da cui smistava ordini di acquisto e vendita sulle Borse di tutto il mondo. La frenesia dei telefoni, dei clic al computer, delle schermate fluorescenti delle quotazioni. Compra e vendi, vendi e compra, per te, per i clienti, per il gusto pazzo di andare a vedere se quello su cui scommetti è poi davvero il cavallo vincente.

E intanto il lusso, le spese pazze, il pensiero che tutto si possa comprare, basta averli, i soldi.

E così la posta si era alzata sempre di più ed era troppo tardi quando aveva capito che si stava muovendo su un viadotto di aria fritta, senza piloni.

A un tratto era venuto giù tutto. La bolla era esplosa e dentro non c’era niente. I soldi svaniti. I bond, le azioni, i future, i certificate, i fondi, le obbligazioni, i warrant e tutti gli altri marchingegni finanziari fatti di fuffa si erano polverizzati. Niente, tutto evaporato allo scossone definitivo delle borse mondiali. E quindi il fallimento, le accuse, gli assalti dei clienti rovinati, le cause, le aule dei tribunali, l’esproprio di tutto quello che possedeva per sfamare i creditori ruggenti che l’inseguivano e volevano dargli fuoco e quasi ci riuscivano, se non l’avesse salvato la galera.

Provvidenzialmente infatti era finito in carcere, dove le solide sbarre lo avevano protetto dall’orda dei truffati.

Truffati, poi. Più che truffati, erano una massa di falsi ingenui in malafede, non so se mi spiego, pensava, quelle jene che mi avevano affidato i soldi per farli moltiplicare come i pani e i pesci, neanche fossero i miracolati dell’Antico Testamento. O del Vangelo? Chi può saperlo, si disse, non certo io che ho perso le tracce della retta via dai tempi delle pecorelle smarrite e nere del cui gregge ho fatto sempre parte da cittadino onorario.

Come potevano quegli avidissimi investitori pensare che davvero il denaro creasse denaro. A iosa, ad libitum, all’infinito? Che le banconote e i bonifici venissero su nel campo dei miracoli del gatto e la volpe, bastava seminarli. O che sgorgassero dal nulla come la sorgente di un ruscello che si ingrossa sempre di più e poi scorre tumultuoso fino a diventare un fiume inarrestabile di banconote, lingotti d’oro e d’argento, dividendi, interessi, insomma altra ricchezza? Cosa pensavano, gli stolti in malafede, di poter nuotare nella piscina piena di monete d’oro come zio Paperone?

Il denaro si sposta, ma è sempre quello. Se hai più soldi, sempre più soldi, è perché qualcuno da qualche altra parte ne ha di meno, sempre di meno. Il suo è diventato tuo, e viceversa.

Lui, Smilzo, era bravo a spostare. E se muovi i soldi rapidamente, di qua, di là, da un fondo all’altro, da un’azione all’altra, da un mercato all’altro, allora il gioco dura di più.

Ma a un certo punto la velocità gli aveva preso la mano e la girandola delle operazioni finanziarie aveva iniziato una rincorsa folle alla quale non si poteva tenere dietro. Neanche a correre come il vento, neanche a dimenarsi come Houdini. E infatti a un certo punto: bum, era finito tutto. Tutto.

Anche lui.

In tribunale aveva perso tutte le cause, risarcito molti, perduto tutto e tutti. Parenti, amici, fidanzate, soci. Tutti spariti. Via col vento.

Si era ritrovato meno che povero, miserabile. E solo. Sparite le automobili rombanti, le fidanzate dei quartieri alti, i fine settimana all’altro capo del mondo, le feste d’alto bordo.

Era diventato un carcerato. Ed erano cominciati i lunghi giorni col sole a scacchi.

Smilzo ricordava la galera come un periodo di pace, in fondo. Una specie di ritiro spirituale, un hare krishna con la palla al piede ma utile. Si era sentito l’uomo di Alcatraz e aveva avuto tempo di riflettere e capire quanti guai aveva combinato. Troppi.

In cella aveva anche conosciuto gente interessante. Di quel tipo spavaldo da cappa e spada carcerario, che prima ti sembra Zorro il vendicatore, poi ti fa gli agguati nelle docce e alla fine ti sequestra il dolce in refettorio. Con gente così, se vuoi tenerti cara la pelle è meglio mimetizzarsi con le pareti. E lui era diventato un camaleonte trasparente.

Poi però, anche l’idilliaca vita carceraria era finita.

Un giorno, senza tanti complimenti, i secondini l’avevano buttato fuori. Neanche un grazie e arrivederci.

Senza più un soldo, senza più un amico, ripudiato da tutti, aveva sentito chiudersi alle spalle il portone della prigione, ultimo luogo che poteva chiamare casa, con un clangore sordo e definitivo.

Per chi suona la campana, aveva pensato.

Era rimasto lì, davanti all’ingresso sbarrato di Regina Coeli a guardarsi intorno, disorientato dalla luce del sole che l’accecava e dall’andirivieni della gente che gli passava accanto senza vederlo.

Aveva camminato per tutto il giorno, provando a fermarsi ora qui ora là, su una panchina, su un muretto, e sempre qualcuno l’aveva cacciato via, compresa una cornacchia che l’aveva preso a beccate sul sedere quando aveva provato a frugare nello stesso cassonetto in cui frugava lei.

A sera era stremato.

Doveva essere da qualche parte dietro Campo de’ Fiori, ma si sentiva così esausto che non riusciva a orientarsi. Era notte e in giro nemmeno un cane.

Si era sistemato contro la serranda di una libreria e si era addormentato subito. Più che un sonno era una morte, piombata giù nel nero del nulla.

L’avevano resuscitato al mattino le due libraie, una delle quali, la più imponente, gli aveva assestato due ceffoni per svegliarlo.

Che è successo, si era detto spaventato, con le guance in fiamme per gli sganassoni. «Dove sono?» aveva balbettato.

«Al capolinea» gli aveva risposto la gigantessa, che si chiamava Anna e lo aveva tirato su di forza come un fuscello.

Poi le due gli avevano comprato un cornetto e un caffè e a pedate lo avevano indirizzato verso la comunità di un prete nei dintorni.

«Lì forse ti fanno anche dormire» gli aveva detto la libraia bionda che si chiamava Alessandra e sembrava più gentile. «Emarginato in più emarginato in meno» aveva tagliato corto la tipa grossa, che suonava anche il tamburo. «E quindi a suonare un poco di buono come te, se non te ne vai subito, non ci metto niente» aveva concluso, a muso duro.

Smilzo si era perso nei vicoli a cercare la comunità per senzatetto di questo don Pietro suggerito dalle libraie. Via dei Cappellari, il Governo Vecchio, i Banchi Nuovi, Lungotevere.

In questo girovagare senza senso, Roma gli appariva sorprendente. Angoli che rapivano il cuore e sacche di abbandono e degrado.

Alla fine l’aveva trovata, la comunità. Niente di che, un portoncino minuscolo, senza indicazioni.

Gli aveva aperto un barbone, sedicente conte russo dalle toppe al sedere chiamato Dimitri, più vecchio della piramide Cestia. Costui l’aveva introdotto, innegabilmente con un certo stile, alla presenza del responsabile della comunità.

Don Pietro era segaligno e tosto. L’aveva guardato attentamente.

«Come ti chiami?» gli aveva chiesto.

«Smilzo» aveva risposto lui dopo un attimo di esitazione.

Il prete aveva scosso appena la testa. «Sei sicuro?» aveva insistito.

«Al cento per cento.»

E così era rimasto Smilzo.

Ci aveva dormito una notte sola, là dentro, ma gli era bastata. Non ricordava di aver mai sentito una tale puzza di piedi, tristezza, solitudine e borotalco stantio in tutta la sua vita.

Lui non aveva niente contro i barboni che russavano nella camerata, anzi gli stavano pure simpatici. Ma quel tipo di puzza ci può mettere anche due o tre secoli a smaltirsi e nel frattempo ti può portare alla morte vegetativa in men che non si dica, e Smilzo era disperato sì, ma non fino al coma irreversibile.

Così la mattina dopo si era congedato tra mille ringraziamenti.

Il prete gli aveva detto «torna» e Smilzo aveva risposto «come no, ci vediamo stasera». Ed era sparito.

Non si era più fatto vivo per un mese almeno. Lui alla vita ci teneva.

Camminando camminando, coi piedi che gli facevano male, aveva trovato rifugio sotto Ponte Sant’Angelo. Niente di speciale, un posticino cartonato, un po’ umido e ventoso, ma riparato e suo. O meglio, non proprio suo, piuttosto una specie di usucapione, o usufrutto, o comodato d’uso, vai a vedere, con una controparte ignara.

Probabilmente quel posto era del Sindaco, o del Comune, ma quell’angolino vista Castel Sant’Angelo e scorcio San Pietro non lo reclamava nessuno.

L’aveva anche arredato, raspando come una gallina padovana tra i rifiuti trasportati dal Tevere che si arenavano in secca sulla banchina. Una sedia rotta, due cassetti, una coperta, qualche posata e persino uno scrignetto da gioielli, in legno e vuoto, ma con la scritta incisa sotto il coperchio: «per te mio amore». Se non era un segno del destino quello.

Poi la fame l’aveva vinto e si era ripresentato al refettorio. Don Pietro lo aveva saziato con una notevole pasta e fagioli e poi gli aveva commissionato qualche lavoretto. E lo aveva anche pagato.

Quei pochi euro in tasca lo facevano sentire un re. I milioni che aveva maneggiato nella sua vita precedente mai e poi mai gli avevano dato neanche un briciolo di quella sensazione di appagamento e solidità.

Aveva cominciato anche a spenderli, quei quattro soldi. Ci faceva la spesa, per esempio. E proprio durante un pomeriggio al supermarket del quartiere la sua vita si era ribaltata di nuovo, sottosopra.

Non era bastato il fallimento, non era bastata la galera e nemmeno il ripudio generale. Niente, ci voleva pure la rapina. E un omicidio.

Smilzo ricordava di essersi messo in fila alla cassa, più per osservare gli altri e sentirsi parte dell’umanità, che per fare davvero spese. Doveva pagare due mele e uno yogurt, quando un matto in passamontagna era entrato e si era messo a sparare a destra e sinistra urlando fermi tutti!

Sembrava la scena di un film fatto male.

Tutto era durato una manciata di secondi, abbastanza per svuotare una cassa, far stendere al suolo tutti i clienti terrorizzati, e scoprire che una donna era morta.

Ma soprattutto quei pochi istanti erano bastati per ritrovarsi con una bambina incollata alle gambe. Piccolissima, spaventata, e soprattutto sola.

Chi era quella nana ammutolita che lo guardava fisso da sotto in su e gli chiedeva aiuto senza parlare?

Smilzo aveva provato a liberarsi della piccola piovra spingendola verso i poliziotti che gremivano la scena del crimine. E ci era quasi riuscito. I poliziotti sanno come si fa con i bambini. E li riportano a casa, quando sono sperduti.

In testa aveva solo l’idea fissa di sparire senza farsi coinvolgere da nessuno. I suoi precedenti penali avevano lasciato ancora qualche strascico, e non era il caso di presentarsi con i polsi, già belli incrociati e pronti per le manette, a quel commissario buffo che guidava le indagini.

In poche parole, se l’era data a gambe, o almeno ci aveva provato.

Ma quando il Destino si fissa e punta il dito proprio su di te c’è poco da darsela a gambe. A un certo punto nel cielo delle possibilità ferali si era acceso un faro potente che aveva cominciato a sciabolare intorno, fendendo la folla degli umani, per poi puntare dritto su di lui, Smilzo. Neanche avesse la peste gli si era fatto il vuoto intorno. Era proprio lui il prescelto dalle Moire filanti.

Il destino in questo caso si era palesato sotto le spoglie di un energumeno che non solo era terrificantemente brutto e minaccioso, non solo aveva stampata in fronte la parola «criminale», ma aveva anche provato a rapire la bambina e portarsela via.

Giocoforza Smilzo, dal basso della sua fedifraga natura, si era visto costretto a intervenire, tramortire il cattivo con quello straccio di astuzia che gli restava e portare in salvo la piccola.

Ma dove, se nella vita non aveva più niente né nessuno.

L’unico luogo dove poteva proteggerla dal freddo e dalla solitudine era quel rifugio fatto di stracci, pezzi di legno marcio e avanzi di altre vite che lo aspettava paziente sulle sponde del fiume.

E lì, sotto il millenario Ponte Sant’Angelo, all’ombra dei cartoni, aveva portato la bambina, stretta al petto come un tesoro che si tenta di sottrarre al saccheggio dei barbari e dell’odio.

«Come ti chiami?» le aveva chiesto.

Niente, nessuna risposta.

Mentre le preparava qualcosa da mangiare, intimidito dal silenzio della piccola che non smetteva di fissarlo, Smilzo aveva sentito addosso tutto il peso dei propri fallimenti. Non si finisce mai di sbagliare, gli diceva lo sciabordio del fiume, lì accanto.

Speriamo che domani arrivi presto, aveva pensato, quel domani in cui affidare il piccolo essere a persone più degne di lui. A gente capace di proteggere.

Ma le ore della notte, là sotto quelle volte scure, passavano lente.

Smilzo aveva provato a ingannare il tempo cercando di comunicare con la bambina. Le aveva raccontato tutta la sua vita, per filo e per segno, si era aperto come non aveva mai fatto nemmeno col suo psicanalista che pure costava come un’idrovora di petrolio. Ben presto aveva scoperto che lei non solo non parlava ma, se le capitava di emettere suono, questo era una specie di parolaccia, per quanto cincischiata.

La nanetta senza nome, infatti, a corredo delle sue lunghe confessioni, sapeva dire solo una cosa, un sonoro faf-f-f...ngulo. In compenso lo diceva bene, scandendo le sillabe con attenzione e sputazzando energicamente.

Questo f-f-faff-ngulo, non era proprio un improperio, né un’offesa, ma piuttosto una sorta di dichiarazione di indipendenza e di esistenza in vita.

Smilzo l’aveva capito e si era adeguato, anche perché la convivenza non sarebbe durata più di qualche ora, aveva ingenuamente ripetuto a se stesso.

Ma il Fato di nuovo si era messo di traverso e, per comunicarglielo, aveva mandato potenti anche se oscuri segnali. Tali dispacci, sotto forma di pallottole fischianti a un centimetro dalle sue orecchie, erano stati consegnati da misteriosi messaggeri, il primo dei quali, e il più spietato, era un brutto cowboy metropolitano da città sporche, grondanti sangue e potere, odio e avidità, pagato da misteriosi mandanti per rapire e sequestrare la piccola.

E così anche la sua povera capanna di cartoni sotto i ponti era diventata un bersaglio.

Ai primi colpi di pistola che si erano schiantati sul travertino della banchina accanto a loro, non era rimasto che scappare e scappare.

Si era messo a correre come un pazzo, con la bambina in braccio, senza nemmeno sapere dove andare, attraverso i meandri di una Roma indecifrabile. A volte matrigna e altre accogliente, misteriosa e indifferente, pronta a proteggere come a ferire. Una fuga senza meta, con un solo pensiero fisso in testa, la salvezza.

Ma la salvezza non ha una casa, soprattutto se non sai nemmeno perché stai scappando, né da cosa.

Il buio della notte però l’aveva protetto e, non si sa come, era riuscito a seminare gli inseguitori.

Distrutto dalla corsa all’impazzata, intimorito dal silenzio della bambina, aveva provato a rimettersi in contatto con qualche persona del suo passato. Aveva chiamato l’ex fidanzata, un amico, un collega. Niente. Appena apriva bocca, al telefono, dall’altra parte buttavano giù.

«Neanche la Peste Nera fa questo effetto» si era giustificato con la bambina, che lo fissava seria.

Alla fine si era presentato a casa del suo vecchio professore di Fisica, perso di vista da decenni. Il povero anziano, sull’orlo dell’Alzheimer, l’aveva accolto di buon grado e rifocillato, salvo trovarsi invischiato poi anche lui nella fuga, in compagnia del suo inseparabile cane, un microscopico chihuahua dai pensieri parlanti.

Tutti insieme si erano rifugiati presso la comunità per senzatetto di don Pietro. Smilzo aveva pensato di avercela fatta, finalmente.

Se non sistema tutto un prete chi mai può farlo, si era detto.

Ma quello che c’era dietro la breve vita di quella bambina senza nome era un’oscura foresta di orrore, dai rami così intricati e spinosi, che laceravano ogni tentativo di comprendere. E soprattutto si allungavano intorno senza fine.

C’era voluta la testardaggine del commissario buffo, quello che la verità la cercava a costo della sua propria carriera, per cominciare a capirci qualcosa. Tano Curreri e il suo vice, l’agente Micci, avevano scoperto che la piccola, erede dell’immenso patrimonio della famiglia Buonconsiglio, era stata concepita come portatrice di organi. Non era nata dall’amore, ma dal sopruso e dalla violenza di chi aveva bisogno del suo cuore per sopravvivere.

Costui aveva un nome, era l’amministratore unico dei beni dei Buonconsiglio, l’illustre avvocato Charles Brandt.

Nella stessa clinica dove era tenuta prigioniera e costantemente sedata la madre della bambina, si doveva consumare il rito macabro di un trapianto senza speranza. Quello tra il cuore troppo piccolo di una bambina di tre anni verso il corpo sfibrato dalla malattia e dagli eccessi di un uomo senza scrupoli. Brandt, appunto.

La bambina doveva morire per salvare la vita a chi le era padre non per amore ma solo per sopravvivere e gestire il potere sulle ricchezze.

Smilzo non si ricordava più bene come era arrivato anche lui alla clinica degli orrori, in compagnia di don Pietro, fatto sta che si erano ritrovati tutti lì, pronti a strappare la piccola dalle grinfie del suo padre aguzzino.

Ma le cose erano andate diversamente, in quella strana storia.

Brandt era morto, senza il suo cuore nuovo. Semplicemente non aveva fatto in tempo, perché la bambina era sparita, e insieme a lei Anna, sua madre.

Il commissario Curreri aveva detto che le due si erano rifugiate altrove, lontano, in cerca di una vita nuova, tutta da ricominciare in un luogo protetto. Erano al sicuro, insomma, finalmente. Da qualche parte.

Chissà dove.

Chissà dove quella nanetta imbronciata e silenziosa, che lo aveva mandato tante volte a quel paese con tanta tenerezza, stava imparando che la vita può essere anche bella, anche gentile.

Lui intanto, Smilzo, aveva dovuto lasciare Roma, e i suoi unici amici: don Pietro e il professore, perché le sue vicissitudini legali avevano incuriosito il commissario Curreri. E alcune grane non erano ancora cadute in prescrizione.

E così Smilzo era volato via, lì su quell’isola tropicale, fortunatamente ancora ben inserita nella black list dei paesi non collaborativi col fisco di tutti gli altri, a contare i suoi giorni pigramente solitari, sostenuti da quel provvidenziale conto cifrato che era sopravvissuto al suo tracollo finanziario.

Smilzo sospirò. Tutto passa, ma i sogni non cadono mai in prescrizione. E quella piccoletta, quanto gli mancava.

«Trink?» ripeté il cameriere, riportandolo alla realtà, all’oggi, alle palme sulla spiaggia e ai suoi giorni solitari da contumace ricco.

Perché dice trink quest’uomo, si chiese Smilzo, non è tedesco e nemmeno austriaco, sembra pakistano, anche malese, non so, una specie di Sandokan.

«Where are you from?» gli domandò.

«Berlin» rispose il cameriere, «Germany.»

Ecco. Non si può essere più sicuri di niente. Che ci fa un cameriere tedesco con la faccia da pakistano in questo angolo del pianeta per ricchi sfondati, dove il massimo del patema d’animo è quando ti scotti il naso se ti dimentichi la protezione solare? e soprattutto cosa ci faceva lui lì?

Fece no con la testa. «No trink, thanks.»

Il cameriere si ritrasse e si allontanò, insieme al suo sorriso smagliante.

Smilzo guardò la cartolina vivente che aveva davanti agli occhi. Mare limpido, cielo azzurro, palme, sabbia bianca, pochi fortunati sulla spiaggia, tutti a dovuta distanza da lui.

Il fruscio lieve della brezza.

Quanto era distante tutto, in quei momenti.

Niente musica a palla da villaggio turistico per anime in pena, niente animatori dei loro stivali, niente balli di gruppo, né megafoni in cerca di soggetti smarriti tra la folla. Niente di niente. La quiete assoluta, il silenzio della ricchezza. Quella stasi totale che si colloca tra un attimo prima della pace eterna e il sacello definitivo.

Arrivato al sacello, Smilzo si vergognò di se stesso. Perché non si godeva quel ben di Dio, invece di rimuginarci sopra? Chi sta meglio di me? pensò. Nessuno, si rispose. E chi è più solo di me? Sempre nessuno.

Ecco qual era la verità. Potevi avere tutto dalla vita, montagne di soldi, tutto quello che il denaro può comprare steso ai tuoi piedi, ma se non avevi uno straccio di qualcuno a cui interessare davvero non avevi niente. Un bel niente di niente. Eri un niente molto ricco sì, ma sempre un niente.

Ripensò alla bambina. Chissà che cosa stava facendo adesso.