Werner Richter guardò lo schermo del telefono. Era caduta la linea. Bene, nessun problema, tutto sotto controllo. Quell’idiota che aveva ingaggiato lo avrebbe richiamato al più presto.
Il grande orologio rintoccò le ore. Non le contò, sapeva solo che erano poche, era notte fonda, tutto come previsto.
Se ne stava seduto in poltrona, nel silenzio della grande casa, e sapeva che il suo piano si stava realizzando. Anna finalmente si era addormentata, lui sapeva come fare.
Gli ostacoli cadevano come birilli.
Come da bambino vinceva sempre sugli altri compagni di scuola e di gioco, così faceva ora.
Ripensò a quella scuola miserabile di un paese lontano e ancora più miserabile, lì dove era nato e da cui era fuggito giurando a se stesso di non tornare mai più. E così era stato. Gli ostacoli non esistono, pensava. O si abbattono o si aggirano. A ogni costo. Gli altri perdevano tempo a seguire le regole, lui andava avanti.
Era esaltato dalla propria capacità di conquista. Come un generale sul campo di battaglia, abbrancava la vita giorno per giorno. Si nasce per combattere. Chi non lo comprende resta indietro. Chi non lo fa sparisce e muore. Semplicemente smette di esistere. Non era la vittoria a contare in definitiva, ma la battaglia senza fine.
Appena aveva conosciuto Anna Buonconsiglio pochi mesi prima, nello studio legale in cui era riuscito a scalare la gerarchia fino a diventare associato, aveva deciso che lei sarebbe stata la sua più importante vittoria. Bella, ricca, fragile, spaventata. Una donna pronta per essere condotta come una pecorella dal suo pastore. E ricca. Ricchissima.
Questo particolare naturalmente aveva giocato un ruolo predominante nella scelta. Si allenava da anni a valutare ai raggi X della propria sagacia le donne che incontrava. La scuola della strada lo aveva istruito attentamente in proposito. La donna da sposare è facoltosa, sottomessa, riproduttiva. Così tutto sarebbe rimasto in famiglia. Perché alla fine la famiglia era tutto.
Il fatto che forse Anna fosse incinta lo esaltava. Era il tassello finale, il compimento del suo addestramento.
Lo avevano scoperto solo pochi giorni prima e non era nemmeno una certezza assoluta, aveva detto Anna, solo un piccolo ritardo, ma lui aveva sentito una scossa elettrica alla notizia. Lei invece era rimasta indifferente, prima, e poi anche inquieta. Non se lo aspettava, e aveva espresso la sua angoscia a doverlo comunicare alla figlia.
Quel fagotto mal riuscito lei lo chiamava figlia. Una palla di sfacciataggine, scemenza e odio, ricambiato, verso di lui.
Certe volte aveva la sensazione che la bambina gli leggesse nella mente. Per fortuna era pressoché muta. A quasi quattro anni non riusciva a dire niente, se non una parolaccia smangiucchiata e balbettante. Era ritardata di certo. Un peso morto. Un ostacolo. E, ancora peggio, un incentivo ai dubbi di Anna che stravedeva per lei e non avrebbe mai sopportato l’idea di ferirla.
La piccola demente doveva sparire e così stava avvenendo.
Poi la strada spianata per un matrimonio da favola e l’ingresso dalla porta principale nel mondo che conta. E una famiglia perfetta tutta sua.
Il telefono vibrò. Il display mostrava un numero mai visto prima. Chi poteva essere a quell’ora? Decise di non rispondere. Forse era qualcuno che aveva sbagliato numero.
Ma la vibrazione non cessava.
Quel pezzente del rapper, forse.
Magari quella capra si era procurato una scheda telefonica diversa, da distruggere a cose fatte. Niente tracce, niente inconvenienti. La sua considerazione per quel tipo illuso crebbe, era meglio di quanto volesse far credere. Solo che poteva anche avvertirlo. Decise di rispondere.
«Sì?» sussurrò per non farsi sentire, c’era il rischio di svegliare Anna.
«C’è un contrattempo, capo.»
La voce dell’uomo era incerta. L’idiota aveva combinato qualcosa.
«Mi sente?»
«Ti sento sì, deficiente. Che hai fatto?»
«La bambina è sparita.»