Questo non è un ospedale, è l’Inferno di Dante con l’aggiunta del labirinto di Dedalo, pensò don Pietro alla centesima porta sbagliata che apriva.
I corridoi erano pieni di gente che vagolava senza meta. Non aveva mai visto tante vestaglie in vita sua. E tutte brutte. Anche i pigiami non scherzavano. Per non parlare delle fette di addomi flaccidi e polpacci pelosi che traboccavano da indumenti troppo corti e anime in pena troppo stanche.
Tra le vestaglie, le pantofole e qualche trabiccolo con le fleboclisi attaccate, di tanto in tanto un camice bianco o verde spuntava come un vietcong nella boscaglia mentre cercava di svicolare via senza attirare l’attenzione dei pazienti.
Finalmente arrivò nella stanza giusta.
C’erano tre letti, due occupati dal professore e dal vecchio Dimitri, il terzo vuoto. I due anziani erano bendati e se ne stavano muti, con le facce contrite.
«Ah, eccovi» disse don Pietro.
I due non reagirono.
«Complimenti. Proprio complimenti. Bravissimi. Geni. Uno vi lascia un incarico solo nella vita: state fermi e non prendete iniziative. E voi finite all’ospedale.»
I due continuavano a tacere.
«Sembrate due mummie egizie.»
Niente. I due rimasero immobili a fissare il soffitto.
«Io vi ci lascerei tutta la vita qua dentro, lo sapete? Con quell’altro deficiente, degno compare dell’inclita brigata.»
In quel momento, a interrompere l’ira di don Pietro, arrivò un frastuono di ferraglie dal corridoio.
«Largooo!» urlò una voce.
Quindi la porta si spalancò e un infermiere che spingeva una barella entrò a razzo nella stanza. «Chi è il prete?» chiese.
Don Pietro lo guardò, piegando la testa di lato come a valutarlo, poi scosse la testa rassegnato. «Indovina?»
L’infermiere consultò un foglio. «Questo tipo in barella è tutto suo. Siamo riusciti a trovargli un letto insieme a questi altri due. Contento lei. Firmi.»
«Che cosa?» chiese don Pietro.
«Che lei è responsabile di questi tre.»
«Come il responsabile? Sarà il medico, l’ospedale a essere responsabile, o no?»
«Ma certo» fece l’infermiere accondiscendente. «Responsabile vuol dire semplicemente accompagnatore. Lei li accompagna, capito? E comunque non faccia tanto il pignolo perché allora mi ci metto pure io a farlo. Nell’armadietto di quello lì» indicò il professore, «c’è roba che qui non si può tenere. Io chiudo un occhio, ma in campana, padre, che qui le mosche saltano al naso con una facilità da medaglia d’oro olimpica. Non so se ha capito la metafora.»
Poi l’infermiere scaricò il paziente esanime dalla barella al letto fino a quel momento libero.
«E questo qui come si chiama?» chiese poi al prete, «devo fare la cartella.»
«Non lo so.»
«Ma se l’ha portato lei, qui al pronto soccorso.»
«E io infatti l’ho soccorso. Mai visto prima.»
L’infermiere si grattò il mento, poi si strinse nelle spalle. «Va bene, più tardi quando viene il dottore chiarite con lui. Comunque, adesso gli abbiamo dato un sedativo e ha solo bisogno di riposo. Quando si sveglia vediamo che ci dice.»
Poi riafferrò la barella vuota e si lanciò fuori della stanza, sparendo a razzo, nello stesso modo in cui si era presentato.
Don Pietro sospirò, rassegnato. «Ma che ho fatto di male?»
Il professore e Dimitri lo guardavano abbattuti. Non avevano ancora detto una parola.
«Come state?» chiese il prete.
Dimitri, con un filo di voce: «Bene».
«Che cosa avete nascosto nell’armadietto?»
«Niente» disse il professore.
Don Pietro andò all’armadietto, lo aprì e subito spuntò la testa di Picchio.
«Ma si può essere più assurdi? Vi siete portati il cane all’ospedale.»
«E dove lo lasciavamo?»
Don Pietro sospirò. «E va bene, me lo porto via io.»
Picchio ringhiò mostrando i denti. Col prete non ci vado.
«Che ha questo cane?» chiese don Pietro, allarmato.
«Con lei non ci vuole venire» disse il professore.
«E perché?»
«Perché lei è un po’ tirchio.»
Don Pietro era stupefatto. «Cioè io vi sfamo, vi alloggio, vi sopporto, e sono pure tirchio.»
I croccantini schifi disse Picchio al professore. Diglielo.
«Gli deve dare i croccantini buoni, non quella schifezza del discount» riferì il professore.
«Certo, anzi, avevo pensato anche al sushi. Di caviale però eh?»
«Grazie.»
«Ma la volete finire?» urlò don Pietro.
Il professore tacque.
Poi il vecchio Dimitri indicò il nuovo paziente addormentato e chiese timidamente. «Chi è quello?»
«Indovinate. È il terzo deficiente cosmico.»
«Smilzo» esclamarono in coro i due vecchi.
«Esatto» confermò il prete.
«Che gli è successo?»
«Quando ha saputo che la bambina era stata rapita gli è preso una specie di coccolone, un colpo apoplettico ed è svenuto. È venuto giù come un sacco di cemento. Sembrava morto.»
«Oh, cielo. Morto...» mormorò il professore, affranto.
«Morto... No!» fece eco il vecchio Dimitri.
«E infatti no. Purtroppo. Era ancora vivo, quel portaguai.»
Don Pietro era proprio arrabbiato, e così i due vecchi preferirono non commentare.
«Per fortuna che aveva preso quella macchina a noleggio» continuò il sacerdote, «almeno una cosa utile l’ha fatta. Così, visto che dovevo venire qui per voi, ho preso due piccioni, anzi tre, con una fava. L’ho messo in macchina, tramortito come si trovava, e l’ho scaricato al pronto soccorso. E adesso eccolo qui.»
«Povero Smilzo» disse il professore.
«E adesso?» chiese Dimitri.
Don Pietro si guardò intorno, osservandoli con un’espressione rassegnata. «E adesso vi hanno sistemato tutti insieme.»
«Perché siamo una squadra» affermò il professore.
«No. Perché siete dei casi psichiatrici.»