PROLOGO

Brandon Witt

 

 

Eric,

Non ci sono parole per ringraziarti a sufficienza del ruolo fondamentale che hai avuto nel realizzare i miei sogni. Sono state la tua gentilezza, la tua dolcezza e il tuo incoraggiamento che mi hanno consentito di iniziare la mia carriera di scrittore. Grazie per la sincerità e per l’altruismo. E… grazie per il contributo enorme che hai dato al nostro mondo della letteratura gay. Non vedo l’ora di leggere il tuo prossimo libro.

 

TJ,

Ti ho adorato sin da quando ho letto Into This River I Drown, ma l’adorazione che provo per te – per la tua umanità, il tuo coraggio, la tua sincerità e il tuo amore – continua a crescere via via che ti osservo da lontano in questo tuo viaggio. Sei il migliore tra noi tutti! Spero di essere all’altezza dell’uomo che hai dimostrato di essere.

Non vedo l’ora di potervi incontrare di persona un giorno. Fino ad allora, avete tutto il mio affetto, il mio rispetto e la mia devozione.

 

 

LE RADICI ruzzolavano l’una sull’altra, rendendo il suolo coperto di muschio molto simile a una distesa di pigre onde. Le vene nodose si contorcevano e si attorcigliavano, per poi tuffarsi nel terreno e riemergere da tutt’altra parte. La terra, così scavata, si estendeva a perdita d’occhio. Innumerevoli alberi si levavano verso il cielo, ciascuno unico e ciascuno con una sua melodia portata dal vento che danzava tra le fronde.

La donna superò con cautela un groviglio di radici e si avvicinò al salice. Non era mai inciampata, mai l’orlo della sua lunga gonna si era impigliato, né aveva urtato uno dei suoi piedi nudi. Faceva parte del paesaggio esattamente come le piante che accudiva – unica creatura che si muoveva o respirava. Sola. Ma mai in solitudine. Allungò la mano rugosa con un movimento fluido e afferrò il baccello, tirandolo verso di sé con la delicatezza necessaria a distendere il peduncolo arricciato, ma senza spezzarlo.

Trattenendo il respiro, iniziò la sua ispezione. E sotto al suo sguardo, una sfumatura porpora cominciò a diffondersi dallo stelo fin sopra alla superficie verde e tesa dell’involucro. La donna si portò il baccello alle labbra e strizzò gli occhi. Un bacio per il coraggio. Il momento era vicino. Era il primo frutto di quell’albero; ancora un po’ di audacia e sarebbe maturato e infine sbocciato. La nascita di un nuovo mondo.

Lasciò andare il prezioso carico e l’osservò risalire finché non fu parzialmente nascosto dalle foglie. Si allontanò di un passo, ma subito tornò a guardarsi alle spalle. Quello era il suo momento preferito. Non si stancava mai di assistere alla nascita del primo frutto di un albero. Nulla sarebbe mai stato paragonabile a quell’attimo, né prima né dopo.

E anche mentre usciva da sotto le fronde avvolgenti del salice, i suoi pensieri continuavano a indugiare sul baccello in via di maturazione. Percepiva il risvegliarsi della coscienza umana. Percepiva le domande che cominciavano a prendere forma, insieme ai dubbi e alle paure, con anche un tocco di trepidazione via via che il viaggio di ricerca si approssimava.

Tuttavia, ce n’erano altri, molti altri, di cui doveva occuparsi.

Con grazia naturale, affondò i piedi nel cuscino di muschio e poi li sollevò per superare altre radici intrecciate, senza mai abbassare lo sguardo per evitare la loro mutevole progressione. Invece, alzò gli occhi al cielo, dove un sole radioso scendeva lentamente e i suoi raggi infuocati bruciavano la scia che la luna e le stelle si lasciavano alle spalle nel loro infinito ruotare.

Lei viveva fuori dal tempo – anche se non lo sapeva. Era vecchia quanto la prima scintilla di conoscenza umana, e sarebbe esistita finché l’ultima non si fosse spenta. Finché le anime e i mondi non fossero svaniti. Lei e i suoi alberi. Lei e il moto costante del sole e della luna nel cielo. Lei e le onde spumeggianti in lontananza. L’unica traccia dello scorrere del tempo nella sua eternità era rappresentata dalla nascita di nuovi alberi e dall’abbondanza dei loro frutti.

Allontanando dalla mente il pensiero del baccello prossimo alla maturazione, la donna si fermò davanti a un pino insignificante, i cui aghi verdi avevano assunto una sfumatura giallastra e marroncina. Con la fronte aggrottata, allungò la mano e afferrò il suo baccello rinsecchito, mentre uno schianto secco infrangeva il silenzio circostante. Serrò la bocca in una linea sottile e sollevò la gemma verso di sé per osservarla meglio, facendo passare l’unghia sulla vena del suo involucro per aprirla. Non si accorse della lacrima solitaria che le scendeva lungo la guancia rugosa. Aveva pensato che questa potesse essere la volta buona. Aveva sperato. Altri baccelli erano nati da quell’albero, ma nessuno aveva mai raggiunto quello stadio. Strizzò gli occhi e guardò con più attenzione. Riusciva a distinguere delle sagome all’interno. Qua e là qualcosa che assomigliava a un viso malformato. E mentre guardava, le poche sfumature dorate che erano rimaste sbiadirono verso il grigio.

Quello era l’ultimo. Nessun altro frutto sarebbe nato da quel pino. Benché non avesse il dono della preveggenza, la donna riusciva a leggere i segni. Presto l’albero stesso non avrebbe avuto più sostanza del baccello che ora lei si fece scivolare nella tasca, mandandolo a sbattere contro gli altri mondi morti che conservava lì dentro. Niente sarebbe spuntato da quella pianta. Quali che fossero gli eventi occorsi nella vita dell’anima ad essa collegata, avevano soffocato la storia che doveva essere narrata, le parole in attesa di essere lasciate libere.

L’aveva già visto accadere innumerevoli volte. Aveva assistito agli sforzi di un albero per sopravvivere e svilupparsi. Aveva sofferto nel vedere come i frutti crescevano a fatica, per poi semplicemente morire. Paura? Magari dolore? Forse solo la vita. Cosa poteva mai saperne lei di come fosse l’esistenza di un’anima?

Forse c’era un difetto nel disegno del creatore.

La donna scacciò quel pensiero dalla sua mente prima che si formasse del tutto. Non era compito suo porre delle domande. O dare dei giudizi. Il suo unico scopo era occuparsi dei frutti che nascevano dalle anime umane e nutrirli nel miglior modo possibile.

Sfiorando i gusci duri dei baccelli attraverso le pieghe della sua gonna, puntò gli occhi verso l’orizzonte, dove le montagne illuminate dalla luna toccavano il mare. Come se attirato da una forza invisibile, il suo sguardo volò oltre le cime sporgenti, verso un territorio ostile, là a ovest. Presto avrebbe dovuto recarvisi per consegnare all’oscurità i mondi che non erano riusciti a formarsi. La vecchia non aveva mai conosciuto la paura, ma ogni volta che seppelliva i baccelli morti, sentiva qualcosa di molto simile scorrerle lungo la schiena.

Non si era mai avventurata che pochi passi all’interno di quel luogo oscuro, giusto il tempo necessario ad affidare alla terra le storie non dette, e non avrebbe saputo spiegare la ragione per cui lo faceva, ma solo che doveva farlo. Non stava a lei fare domande o indagare. Lei doveva solo accudire, nutrire e donare.

Con una scossa decisa della testa, che mandò le lunghe ciocche d’argento a sbatterle contro il viso, la guardiana abbandonò le montagne, il mare e il luogo oscuro, tutti e tre, e si voltò verso le sue eterne colline di alberi. Il pino aveva già cominciato a sfaldarsi e marcire, ritornando alla terra, facendo spazio affinché l’albero della prossima anima potesse emergere e arricchire le radici di quelli che gli sarebbero passati accanto.

Già adesso, sotto ai suoi occhi, due barbe ruppero la superficie del terriccio e, dopo essersi intrecciate l’una con l’altra, si tuffarono di nuovo in profondità, scavando nella stessa direzione, ma distanziandosi.

Con passo rapido, la donna giunse subito lì e s’inginocchiò accanto al punto dove le radici si attorcigliavano. Appoggiò le mani sopra al groviglio e vi sentì scorrere la vita. Un gemito di piacere le uscì dalle labbra, incurvate in un sorriso. Non aveva avuto bisogno di seguire a ritroso il loro percorso per vedere da dove provenissero quelle radici, le era bastato toccarle. I suoi occhi trovarono subito la fonte. Prima una vecchia ed enorme quercia, che aveva offerto un gran numero di mondi dalla sua prima fioritura tanto tempo prima. Alcuni tra i suoi frutti erano stati oscuri e avevano custodito qualcosa di maligno, ma aveva trasmesso anche molta speranza e gentilezza. Erano quelli gli alberi che lei amava di più. Quelle le anime che più di tutte necessitavano del suo amore. Piegando il collo per guardare oltre il grosso fusto, riuscì a distinguere la linea sottile di un giovane pioppo. E mentre li fissava, i due alberi crebbero, più vitali e rigogliosi che mai. Anche da lontano riusciva a scorgere i loro frutti splendere lussureggianti e accesi. I mondi creati da entrambi avrebbero racchiuso parole appassionate, grazie a quel legame.

Seppur riluttante, tirò via la mano e si alzò. Proseguì, come sempre aveva e sempre avrebbe fatto. Vagando tra gli alberi. Accarezzando i rami e le foglie che tendevano verso di lei. Cantilenando dolci assurdità alle radici. Fermandosi di quando in quando a sussurrare parole di incoraggiamento ai baccelli in via di maturazione.

Camminava e camminava. Cogliendo di tanto in tanto un ulteriore frutto secco. Un altro mondo distrutto. Un’altra occhiata verso l’oscurità.

Lavorava e lavorava. Amando le anime da cui si originavano gli alberi. Ispirando le parole che da essi sgorgavano. Sfrondando le foglie in modo che i frutti potessero ricevere il sole.

Tornò al salice. Il momento era giunto. Aveva sentito il suo richiamo da lontano. Prima di entrare nel rifugio delle sue foglie penzolanti, si tolse dalla tasca le gemme morte e le appoggiò delicatamente su una montagnola ricoperta di muschio. Meglio non correre rischi. Non con il primo frutto di un albero.

Quando tirò il ramo verso di sé per avvicinare la bacca, una risata argentina risuonò nell’aria. Era veramente il momento. Il baccello non recava più alcuna traccia di verde; la buccia era di un viola intenso e uno sfavillante cremisi colorava le sue venature.

Senza incontrare resistenza la sua unghia fece forza sul sigillo e scivolò all’interno. Sotto a quell’invito, il baccello si schiuse e i petali color dell’ambra del mondo che vi fioriva all’interno si aprirono con umido appagamento, rivelando le sagome dorate che lo affollavano. Come immaginava, alcune avevano una sfumatura più scura. La maggior parte, però, erano incontaminate e scintillanti. I frutti migliori erano così. Sapeva di aver amato quel salice un po’ più del normale.

Nonostante riuscisse a distinguere le caratteristiche di ogni forma, due volti spiccavano tra gli altri. Due uomini. Si avvicinò, giusto per accertarsi del tipo di storia. Il suo sorriso si fece più luminoso. Sotto alle migliaia di forme dorate, riusciva a percepire l’anima che aveva creato quel frutto. Sì, ne era certa. Quel mondo sarebbe stato costellato d’amore.

Sussurrando qualcosa sia all’anima che alla gemma, la donna lasciò la presa sul ramo. Dal suo posto sull’albero, il fiore riluceva mentre il sole si rifletteva sulle sue sagome dorate.

Dopo essere uscita dal rifugio del salice, la vecchia si chinò e, dopo aver raccolto da terra i baccelli che aveva abbandonato, se li rimise in tasca. Canticchiando a bocca chiusa, discese la collina e passando sopra alle radici mutevoli, posò lo sguardo su una catalpa in lontananza. Aveva del lavoro da svolgere.