Phoenix Emrys
Il Vero Amore vive in questo mondo finché ci siete voi. Grazie alla vostra presenza c’è speranza per noi tutti. Dio vi benedica entrambi. Lunga vita e prosperità.
“OMMIODDIO, NON ci credo che ti ha fatto pipì sulla gamba!”
No, veramente? Manco io. Ma tranquilla. Sono solo i Levi’s 511 Dragons che ho indossato esattamente venti minuti prima di venirmi a sedere in questa lurida fossa di depravazione canina. A quanto pare non ho rivali quando si tratta di imitare un urinatoio per cani.
Sapete cosa fa persino più ridere? Più delle macchie di urina sui miei jeans nuovi di pacca?
Che io non ho un cane.
“Giuro che non lo fa maissimo.” La stra-gnocca vestita all’ultimo grido, circa la mia età, in bilico sulle Jimmy Choo – superbe, ma un tantino sconsigliate per un’area attrezzata per cani –, si china per recuperare l’odioso batuffolo piscione intento a violare il mio spazio personale oltre che i miei Levi’s. Sembra non rendersi conto – o forse non gliene importa – che chinarsi le fa allargare ancora di più la scollatura, donandomi una vista praticamente perfetta di un paio di fanciulle davvero notevoli a malapena contenute in un reggiseno fuxia previsto per almeno una o due taglie in meno.
Gemelline perfette. Originali, pure, se non sbaglio. Dovrebbe andarne fiera.
Magari non vado matto per le fanciulle, ma so riconoscere la qualità.
Fa su il cagnolino e alza lo sguardo, lanciandomi un’occhiata ottimistica. Spera, senza dubbio, che abbia apprezzato il panorama. Le rispondo con un sorriso gentile, abbastanza neutro da comunicarle che non me ne importa un fico secco dell’insozzamento del suolo pubblico ma nemmeno intendo accettare la sua offerta. “Sì, beh, a volte scappa.”
Si raddrizza lanciando una risatina, il fagottino rabbioso e iperattivo stretto al petto enorme. Come se avesse il pilota automatico, con la mano libera si dà uno strattone di sicurezza all’orlo della gonna cortissima. “Meno male che gli è scappato solo quello!”
Su questo siamo tutti d’accordo. “Ah-ah.” Mi sforzo di ridere, evitando un tentativo piuttosto determinato di instaurare il contatto visivo. Guarda l’erba, le rocce, le – no, quelle no. Oh, lo so. Il cane.
O forse no. In risposta alla mia innocua occhiata, la minimeraviglia bianca scopre un arsenale di dentini sottili come aghi, ansimando con fare aggressivo. Minacciato da un pon-pon vivente. La giornata continua a migliorare.
Va bene, qui non c’è altro da vedere, è ora di smammare. Muchas gracias per le sentitissime scuse. Convenevoli sbrigati. Battute insulse scambiate. Amo lanciato e snobbato. Fatto, fatto, e fatto. Abbiamo finito? Io voto sì. Questo è il punto in cui tu te ne vai. Lasciando me e i miei jeans pisciati in pace e liberi di riprendere quello che stavamo facendo prima che tu e il tuo batuffolo di cotone con manie di grandezza v’intrometteste nella mia giornata.
Aspettare quella ritardataria cronica della mia migliore amica.
Sìgrazieciao è stato bello conoscervi!
La mia nuova amica dev’essere un po’ dura di comprendonio visto che rimane qui, in attesa, il sorriso che incomincia a vacillare. Non devi andare da qualche parte? Randi, dove diavolo sei?
La mia signora dall’intimo fuxia lancia uno sguardo fugace alle nostre spalle, all’ingarbugliamento di canidi intenti a demolire il parco con le più svariate acrobazie, chiaramente in cerca di un pretesto per portare avanti la conversazione. Sta per porla: la domanda che odio, ma che mi fanno sempre, ogni volta che mi trovo costretto a sedere su questa panchina in attesa di Randi. “Qual è il tuo?”
Rispondere mi conduce inevitabilmente all’imbarazzo del “Beh, allora che cosa ci fai in un’area attrezzata per cani? Cos’è, sei tipo un maniaco?”. Pensereste che ormai ci sia abituato, ma sono un’anima sensibile. Quando mi fissano come se fossi il parente più prossimo del signor Manson mi viene l’orticaria.
Tuttavia, forse stavolta posso usare il lato oscuro a mio vantaggio. M’impegno a emettere la mia miglior voce da serial-killer.
“Io non ho un cane.”
Non sa bene come reagire, anche se le leggo la domanda ovvia negli occhi.
Allora che sei venuto a fare qui?
Me lo chiedo tutte le volte che Randi insiste per vederci in questo parco.
Di sicuro non a farmi pisciare addosso.
Sapevo che giocarsi la carta dello psicopatico era un rischio. Di questi tempi c’è un sacco di gente che coi feticci strani ci va a nozze. E… wow wow wow, ciliegina sulla torta, pare che la miss qui rientri nella categoria. A giudicare dall’improvvisa scintilla nei suoi occhi, deve aver deciso che vivere a Dallas e non possedere un cane mi rende ancora più interessante.
Zuccherino, stai sprecando fiato.
Anf, anf.
Niente di personale, dolcezza, ma se io e te fossimo l’ultimo uomo e l’ultima donna sulla terra, finirebbe lì.
È ora di infrangere i suoi sogni.
“Sto aspettando una persona.” Conciso, educato nonché vero – ma non è come pensi, fanciullina. Randi è il mio tipo tanto quanto lo sei tu.
Non sarebbe male se la ricompensa per lo starmene a rosolare a morte su questa stupida panchina fosse l’arrivo dell’uomo dei miei sogni. Ma no.
Randi è tante cose, ma non quello.
Tanto per cominciare, non è nemmeno un uomo.
Quindi, zuccherino, anche se so che è una magra consolazione, oggi sul fronte amoroso ci va di sfiga a tutti e due.
Capisce. Il breve, spontaneo sguardo di delusione che le attraversa il volto viene subito sapientemente rimpiazzato dal sorriso di una sprezzante donna di mondo. Bella reazione tesoro, sei grande.
Un’altra cosa che abbiamo in comune.
La fanciulla qua se ne intende di rifiuti. Non si fa abbattere. Sposta il peso sull’altra gamba, cambia posizione al cane in braccio. Inclina la testa di lato. Non potrei essere più chiaro sul fatto che non intendo abboccare all’esca, se non scrivendole le lettere N e O con due insegne al neon giganti.
Chi non risica non rosica?
Una perversa parte di me l’ammira per la persistenza.
Ho bisogno di andare in terapia. E di un trapianto di spina dorsale.
Mi rivolge un sorriso dolce e leggermente malinconico. “Quindi, immagino che tu non possa…”
Uhm… ti prego, accetta il rifiuto e sgombra. Non ho già sofferto abbastanza per oggi? Intrappolato qui, sotto un sole ardente, il cervello che mi cuoce nel teschio, ad aspettare una donna che fa qualsiasi cosa con l’orologio che le ho regalato a Natale tranne usarlo, e che un giorno o l’altro mi darà completamente buca e non verrà per niente.
Sapete, non me ne importerebbe un fico secco di quello che fa se non fossi qui adesso.
Epperò, come si dice ai tonti, “Ma ci sei!”
Sono sicuro al novantacinque percento che Randi verrà. A essere onesto, non è mai successo che non si presentasse quando avevamo un appuntamento. Prima o poi. Con una qualche scusa sul ritardo già pronta nel caricatore. Ha un curriculum zeppo di fallimenti epici sul fronte della puntualità, tutti attribuiti a roba, a detta sua, totalmente inaspettata. Quando arriva – quando finalmente arriva – sono sicuro che sarà una grande storia. Di solito lo è. Se parliamo di premi di consolazione, preferirei aspettare l’uscita in blu-ray.
Conosco Randi da cinque anni, e mi sembra di averne passati tre nei panni del MAAM. Non ‘Miglior Amico Al Mondo’, ma ‘Miglior Amico che Aspetta Mille anni il tuo arrivo ogni volta’. Dopo l’ultimo lustro, penserete che mi sia abituato ai suoi ritardi da diva, ma essendo uno che se si tratta di organizzare la propria giornata pende più verso il disturbo ossessivo compulsivo che non…
Non tanto.
Non che mi porti a qualcosa, lamentarmi delle manchevolezze dei suoi appuntamenti. Ogni volta che protesto, lei mi promette che alla prossima occasione arriverà puntuale, e io, come un idiota, ci casco. La speranza è un’imbecille credulona, e lo sono pure io. Solo perché una cosa non è mai accaduta non vuol dire che non accadrà mai.
Un minuscolo ruggito del peluche piscione che ha dato il via a tutto questo mi risveglia dalla riflessione su Randi. Oh, cucciolo, tu e la tua umana siete ancora qui?
Essendosi impadronita ancora una volta della mia attenzione, la padrona del peluche animato scopre i denti in un gigantesco sorriso fasullo. Non le sta così male. Anzi, è piuttosto carina. Bassa, pienotta al punto giusto, begli occhi – grandi e castani, che brillano di intelligenza e fascino, e che in qualche modo ammazzano un po’ l’effetto complessivo da tamarra.
Niente tatuaggi visibili? Però, non capita spesso di questi giorni.
Solleva il cane, decisa a fare un ultimo tentativo di avviare la conversazione. “Scusa ancora. Per Precious, dico.”
Amore, dimmi che non hai chiamato ‘Precious’ quell’odioso ammasso di pelo.
A questo punto di disperazione non ho niente da offrirle in risposta, ma l’agonia di questo dialogo mi viene fortunatamente risparmiata dal puntuale arrivo di un mastodontico, incontenibile gigante alano, che a grandi passi giunge a ficcarmi la sua bavosa e insalivata testa in grembo. Denver! Alleluja!
La gigantesca macchina produci-bava è qui; indi la padrona non può essere lontana.
L’intrusione della bestia fa partire Precious in una frenesia di furia e schiuma alla bocca. Nel malato tentativo di sfuggire alla presa della sua ragazza, la stupida palla di pelo si trasforma in uno tsunami formato mignon. Immagino che voglia lanciarsi su Denver. Cosa voglia fare il piscione per eccellenza con una montagna di alano capace di masticarlo e cagarlo senza fare una smorfia, mi piacerebbe tanto saperlo. Fortunatamente per lui, Denver è cresciuto con un chihuahua psicopatico, per cui è abituato a farsi morsicare gli stinchi da moscerini canini con manie di grandezza. Prende tutto con filosofia.
Probabilmente potrei imparare qualcosa da lui.
Nah.
La mamma di Precious ha l’aria di chi preferirebbe farsi crollare addosso una casa piuttosto che gestire l’evidente mancanza di autocontrollo di quel fardellino di gioia. “Pì-pì! Buono! Comportati bene!”
Comincio a capire da quale sorgente sgorghi l’ira di questa povera creatura. In un raro e fugace istante di pietà, avverto una vaga fiammella di umana empatia verso l’orrenda bestia.
Poi mi ricordo dei jeans.
Chiaramente mortificata dalla propria incapacità di tenere a bada un chilo di pelo e denti in preda alle convulsioni, la mia nuova quasi amica se ne va, borbottando minacce al pon-pon isterico che stringe nel vano tentativo di ristabilire la propria autorità.
Le auguro buona fortuna. Ho già abbastanza problemi di mio.
Almeno i tuoi non sbavano.
E a proposito…
Come se l’iniziale affronto di Precious il Piscione alle mie braghe fresche d’acquisto non fosse sufficiente, ora ho anche una testa bavosa di alano sul pacco.
E che cazzo.
Denver! Ma porca puttana! Erano nuovi quei jeans!
Mi scrollo di dosso quel disgraziato di un cane prima di ritrovarmi unto e bisunto dai quintali di saliva filamentosa che continua a secernere con entusiasmo. “Denver! Siediti, accidenti!” Magari dall’altra parte della città.
Il cane emette un gigantesco e riluttante sospiro di protesta prima di obbedire, sistemando il culo ossuto su una chiazza d’erba di fronte a me, gli occhi scuri nella solita espressione di eterna speranza canina che io possa avere in tasca qualcosa per lui.
No, e neanche io sono contento di vederti.
Colonne gemelle di bava appiccicosa scendono languidamente dalle sue immense fauci.
Gh.
Non mi abituerò mai a quanto è grande questo cane. Anche da seduto, questo accidenti riesce quasi a guardarmi negli occhi. E non è propriamente trasparente, ma se mi sporgo per guardare oltre il suo testone, nella direzione da cui è venuto… ah, cos’abbiamo qui?
La mia salvezza dagli assalti di saliva di canide.
Guarda, Denver, ecco la tua mamma.
Finalmente.
Le eleganti orecchie dritte dell’alano incorniciano la sagoma snella e ancora distante di Randi, che attraversa a passo sicuro ed entusiasta l’urinato manto erboso dell’area per cani. Come al solito, porta con sé le offerte del ‘lo so che sono in ritardo, accetta questo e perdonami’. Non ho bisogno di vedere il logo di Starbucks sui bicchieri per sapere dov’è stata e cosa porta.
Dunque, la deviazione pro-caffeina giustifica dieci minuti di ritardo. E gli altri quarantacinque?
Adoro anch’io le bibite alla caffeina troppo costose, ma a questo punto, fra la puntualità e un caffelatte gratis, non avrei dubbi.
Quando Randi finalmente arriva, è possibile che il mio saluto celi una punta di scontrosità. “Perché ci hai messo tanto? Sono seduto qui tipo da un’ora, a sudare come un porco e a farmi pisciare addosso da qualsiasi quadrupede dotato di pene, e tu te ne vai in giro per bar? Ho un’idea. Perché la prossima volta non ci incontriamo direttamente da Starbucks e lasciamo perdere il parco?”
Randi m’ignora, sedendo sul lato della panchina non occupato dal mio stravaccato e indignato corpo, e si sistema con superiorità prima di passarmi il caffè. Sorseggia il suo, lanciandomi un ghigno dolce e ammiccante che significa che non le importa della mia cattiveria. “Ma prego. Lo sai benissimo che il mercoledì ho solo quest’ora per portare a spasso Denver, quindi mollala di fare l’offeso. E poi, sei tu che volevi parlare con me, ricordi? Il che significa che decido io dove e quando. Non tu. Vuoi parlare, parliamo. Al parco attrezzato per cani. Io e Denver stiamo qui finché non devo riportarlo a casa e mettermi al lavoro.” Abbassa lo sguardo sul polso destro. Dove si trova l’orologio. Ma guarda un po’? Lo porta sul serio. Potrei morire per lo shock. “Cioè fra meno di trenta minuti. Se non ti sta bene, lì c’è l’uscita. Occhio a non inciamparti quando vai.” Beve un altro sorso. “La scelta è questa, fragolina. Quindi piantala di lamentarti e attacca a parlare. Tic tac.”
Randi è una che va dritta al dunque. Uno dei motivi per cui mi piace tanto.
È anche una che non si fa problemi a sbugiardarti quando provi a rifilarle delle frottole.
Questo mi piace un po’ meno.
Così come non vado matto per questa capacità che ha di segarmi le gambe quando ho torto. Ma fa bene. Ha le giornate piene d’impegni che ha dovuto riorganizzare per incontrarmi. Anche se mi addolora dal profondo dell’anima ammetterlo, mi rendo conto che il mondo non esiste solo per saltare nel personale cerchio di Peter Walker quando glielo ordino.
E neanche lei.
Mi sto comportando da stronzo. Me la prendo con lei per niente.
Il che è quello che succede ogni volta che lui mi chiama.
Dopo una meravigliosa slurpata, sento un gran sospiro dalla veggente accanto a me. “Non dirmelo, Peter, fammi indovinare. Ti ha di nuovo chiamato Wade.”
Questo fatto che mi conosce così bene dovrebbe farmi paura, se non fosse che ci fa risparmiare un sacco di tempo. “Come l’hai capito?”
Sbuffo ironico da Miss Simpatia. “Scherzi? Ogni volta che rientri in contatto con lo stronzo che è in te, di solito è perché lui ci ha infilato lo zampino.”
Non è zozzo quanto sembra.
Non più. Penso che se mi stesse bene così, non mi comporterei come dice lei adesso.
Non che intenda mai ammetterlo. Specialmente con lei. “Che vuoi dire?”
Alza gli occhi al cielo. “Peter, a volte sei proprio un coglione. Vuoi davvero parlarne? Se vuoi, per me non c’è problema, ma non pensi che sfrutteresti meglio il mio limitato tempo se la piantassi con le stronzate e mi dicessi subito cos’ha detto o fatto per sconvolgerti così? Hai accettato di fare qualche imbecillata da cui adesso devo dissuaderti? Scegli tu. A me va bene in entrambi i casi, ma spicciati a decidere. È la tua ora, Daisy Mae, ma non ho tutto il giorno libero, e nemmeno tu.” Si dà un colpetto all’orologio. “Tic tac.”
Quella cosa che ho detto prima, riguardo al fatto che adoro che mi conosca così bene?
Me la rimangio.
“Perché pensi che sia un’imbecillata?”
“Ti prego, dimmi che non tornate insieme!” Ha l’espressione orripilata quanto il tono di voce. “Non di nuovo! Non dopo l’ultima volta!” L’immensa, straziante preoccupazione che mostra per me in quei luminosi occhi castani quando si sporge e mi afferra un braccio – forte – mi riscalda il cuore.
La amo quando mi vuole talmente bene da farmi uscire il sangue.
Naturalmente, quando dico che la amo, non intendo che la amo. Randi sarà anche una persona importante della mia vita, ma ho un grosso buco nel cuore che lei non potrà mai colmare. Non è colpa sua; è un dato di fatto.
Il che è un peccato, perché è più brava lei con me di molti dei miei ragazzi.
Specialmente di Wade.
È una lezione di vita. E forse l’ho finalmente imparata.
Con qualche difficoltà e una notevole dose di smorfie, le stacco le dita dal mio bicipite e le racchiudo la mano fra le mie. In parte per rassicurarla, ma più che altro per impedirle di scavarmi dei solchi. “No, no, certo che no. Non sono così stupido.”
Se continuo a ripeterlo, forse prima o poi ci crederò.
Lei non se la beve. Mi lancia uno sguardo dagli occhi a fessura immascarati, come un procione diffidente. Zuccherino, io e te dobbiamo parlare del tuo rapporto con la Maybelline. Della serie, a volte abbondare è peggio che deficere. “Peter, cosa ti ha convinto a fare?”
Moi? Sbatto gli occhioni.
“Niente. Davvero.”
Le fessure si restringono ancora di più. “Non ti credo.”
Sarei ferito a morte da questa sua mancanza di fiducia in me, se non conoscessi a menadito i miei precedenti. Dopo tutte le volte che Peter ha gridato al lupo al lupo, le perdono la capacità di smascherarmi.
E va bene, basta ciance. Dovrei smetterla di girarci intorno e arrivare al motivo per cui ho organizzato la rimpatriata. La goccia che fa traboccare il vaso è l’idea di avere quel putrefatto cimelio responsabile del peggior caso di cuore infranto di cui abbia mai sofferto nella mia seppur giovine vita amorosa accanto a me sulla panchina, a scavare un buco nella borsa di nylon. È ora di far uscire quel malefico frammento della mia storia personale che pensavo morto e sepolto insieme all’uomo che me l’aveva presentato.
È tornaatooo! Pare che non gli bastasse rovinarmi la vita; no, doveva risaltare fuori, proprio quando pensavo di aver finalmente capito come superare Wade. Per tutto il tempo pensavo che il mio spazio vitale fosse purificato dalla sua mefitica influenza, e invece lui se ne stava là in agguato nell’armadio, tipo bomba emotiva ticchettante, in attesa dell’occasione di abbattermi.
Avrei giurato di aver buttato quella scelleratezza nel tritarifiuti dopo l’ultima volta che Wade aveva chiamato per riavere qualcosa che diceva di aver dimenticato da me. Successivamente all’increscioso episodio, avevo passato l’intero appartamento al setaccio con la massima meticolosità, per svolgere quella che credevo essere l’ultima epurazione di quel che restava dei suoi avanzi.
Di cui uno ero io.
Grazie, Carly Simon.
Ripescato l’orrore della borsa, me lo lascio cadere in grembo dove giace, abbandonato sulle mie cosce come un drappo inerme, il lato diaframma del dischetto che mi deride come una specie di Ciclope. “Lo rivuole.”
Randi lo osserva con la fronte aggrottata prima di sollevare un sopracciglio scettico verso di me.
“È uno stetoscopio.”
“Accidenti, non ti sfugge niente.”
Arriccia il labbro superiore. “Uno stetoscopio. Stai scherzando, vero? Uno stetoscopio? Che accidenti se ne fa Wade di uno stetoscopio? Sappiamo entrambi che non gli piace travestirsi. E non è nemmeno più uno studente di medicina.”
In realtà, non lo è mai stato – diceva a tutti di esserlo perché pensava lo facesse sembrare figo. Una delle svariate bandierine rosse che aveva piantate addosso come un galeone armato la sera in cui ci eravamo incontrati, e che avrebbero dovuto suggerirmi che pessima idea fosse lasciarmi incantare da quel corpo di mille balene.
Non cominciare. La giornata internazionale ‘Parla come un pirata’ era due settimane fa.
Ma Randi non deve sapere tutto. Non ho intenzione di illuminarla sul Dottor Pirillo e il Paziente Ribelle. Sono sicuro che vivrà la sua vita molto più felice senza questo dettaglio su me e Wade.
Pure io vivrei più felice.
Una volta qualcuno ha detto che aggiungere un po’ di verità a una bugia aiuta la medicina a scendere più facilmente. O qualcosa del genere. Mary Poppins? Forse no. “Non so perché lo rivoglia, ma è così. Io non sapevo nemmeno che fosse ancora in casa.”
Ohhh, questa è la faccia incazzata. “Non dirmelo, fammi indovinare. Ti ha detto lui dove lo avresti trovato.”
“Visto che sai tutto tu, forse dovrei tacere e lasciar parlare te.”
“Per piacere, non fare il bambino. Allora, dov’è che era?”
“Nell’armadio dell’ingresso. Giuro che mi ha sconvolto, se mi avessero colpito con un abbassalingua sarei caduto secco per terra. Non avevo idea che fosse lì.”
Né di quanto ci fosse rimasto. Non sapevo se credere a questa storia della dimenticanza per smarrimento. Fra me e Wade funziona così. Le nostre versioni non combaciano mai. La sua cambia a seconda di cosa ha bisogno. Sfortunatamente, non ricordo l’ultima volta che ho guardato in quell’armadio, quindi non posso affermare con certezza se l’arnese è davvero stato lì per diciotto mesi o se ci è stato messo da Wade l’ultima volta che s’è subdolamente fatto strada in casa mia, apposta perché lo trovassi.
A giudicare dall’espressione sempre più incarognita della mia amica, direi che la pensa come me.
Randi annuisce con l’aria di chi la sa lunga. “Nell’armadio, eh? E sarebbe stato lì da quando se n’è andato. Dimenticato nella fretta di scaricarti. E adesso, per qualche bizzarra ragione, dopo un anno e mezzo lo rivuole? Col cazzo!” Sbuffa indignata.
Appunto. E adesso parte la ramanzina.
La mia amica Randi. Il dono dal cielo che mi tratta a pesci in faccia.
“Ommioddio, Peter, sei un ragazzo intelligente, ma ogni volta che appare quel sociopatico col sorriso a trentadue denti, ti trasformi in questo…” Alza le mani e ringhia, frustrata. “Zuccone! Perché continui a berti le sue scempiaggini? Almeno fosse la prima volta che lo fa! Non cambia mai strategia. Non ne ha bisogno! Tu sai che sta mentendo. Non ha dimenticato un bel niente. Probabilmente l’ha lasciato là mentre non guardavi l’ultima volta che hai commesso l’errore di lasciarlo entrare. A garanzia per la prossima volta in cui si fosse trovato fra una vittima e l’altra e gli fosse tornata voglia di farsi un giro nei tuoi pantaloni prima di rimettertelo in quel posto. Di nuovo.”
Non mi sta dicendo niente che non abbia già faticosamente ammesso da solo. Anche se io probabilmente non sarei stato così schietto.
Le rivolgo la mia miglior espressione scocciata. “Lo sai, una volta, tanto per cambiare, potresti addolcire un po’ il martello prima di sbattermelo sulla testa.”
La risposta che ottengo è un’espressione sconvolta. Adoro questa donna. Riesce a essere completamente priva di cuore quando più ne ho bisogno. “Scherzi, vero? Cioè, veramente mi stai dicendo che farti notare che razza di imbecille, stupido, scellerato…”
“Ho capito, va’ avanti.”
“… Cretino tu sia ti ferisce più di quanto abbia fatto quella faccia da culo? Ma per favore! Quella specie di buco nero di merda non se n’è mai sbattuto un fico secco di calpestare i tuoi sentimenti, salvo poi uscirsene con una frase della serie ‘oh, ma dai, è il tuo cuore quello che ho appena fatto a fettine? Scusa tanto’. Tutte le dannate volte! E ci riprova ancora – quanto sarà, ormai? Cinque volte? Torna da te quando gli fa comodo, ti calpesta, e poi – oh guarda, se ne va – appena ha ottenuto quello che voleva. E ogni volta che bussa tu continui a farlo entrare e a rinnovargli la tessera al ‘ridiciamo in polpette Peter’ fan club. Non so chi è peggio, lui che lo fa o tu che glielo lasci fare.”
Ahi. Randi. Non trattenerti. Dimmi pure tutto.
La verità fa male, eh, citrullo? Pure un intervento a cuore aperto con un coltello arrugginito.
Chiedetemi come faccio a saperlo.
Le domande sconvolte e spassionate di Randi non sono retoriche. Non stavolta. Vuole davvero una risposta. Vorrei averne una. Vorrei sapere con precisione quale triste, autodeprecante impulso mi spinge ogni volta a riaprire la porta a Wade e a lasciargli ballare il Gangnam Style su quel che rimane del mio cuore. Ancora peggio, c’è questa piccola cosa che non le ho mai detto perché mi assassinerebbe a morte e direbbe che l’ha fatto per porre fine alle mie sofferenze.
E la farebbe franca perché avrebbe ragione al cento e uno percento.
Questa piccola cosa che non le ho mai detto? Il mio triste, peccaminoso segreto?
Ogni volta che lui torna, spero che rimanga. Non succede mai.
Non succederà mai.
Sapete una cosa? Forse per la prima volta da quando l’ho incontrato, mi rendo conto che è un bene.
Ci ho messo solo un anno e mezzo a svegliarmi e capire come sarebbe andata a finire, ma grazie a questa sua ultima mossa azzardata di rimettere in gioco l’attrezzo principale del Dottor Pirillo, quel banfone arrogante di Wade potrebbe finalmente aver sbagliato i suoi conti.
Ora non ne dubito più. Lo so che ce l’ha messo lui ’sto coso nel mio armadio. So il perché, e so anche perché lo stetoscopio.
Cos’è che ha acceso la fiamma dell’indignazione nelle cave del mio cuore vuoto, trasformandole in un inferno d’ira? Quanto sia tutto calcolato. Quanto Wade pensi di conoscermi, e quanto poco gliene importi di me, se pensa che ritrovare questo splendido souvenir del nostro apparentemente sopito amor mi renda così nostalgico, sentimentale e credulone da cadere nelle sue braccia e supplicarlo di fermarsi a dormire.
Di nuovo.
Odio quest’oggetto e tutto quello che rappresenta. Odio ancora di più che mi si ricordi la serie di eventi che ha portato alla Wadificazione della mia vita. Non dovevo nemmeno esserci, a quella stupida festa di Halloween. Ma c’ero e bevevo come una spugna. Convinto da Tray a buttar giù un Margarita di troppo. O erano cinque? Mi sa che non ha più importanza. Comunque, per quando era entrato in scena Wade, ero già così lubrificato che il mio esibizionista interiore è sfuggito al guinzaglio ed è sceso in pista. Colpito dal mio stile ubriacone e dalla gioia di vivere, ‘Il Dottore’ mi ha invitato a unirmi alla sua ultima opera d’arte improvvisata – alias proviamo a fare cose oscene con uno stetoscopio.
Questo stetoscopio. Il resto della serata rimane avvolto nella nebbia, da cui emerge più che altro il viso di Wade. Poi era mattina, e lui era nel mio letto. Meno di una settimana dopo, aveva trasferito lo stetoscopio e tutto il resto a casa mia. Dove aveva proceduto a installarsi abusivamente per l’anno e mezzo successivo, portando devastazione nella mia vita e nel mio cuore.
Vedete, il problema con Wade è che sa essere l’uomo più affascinante del mondo – quando vuole. Ma si annoia facilmente. E quando accade, se ne va.
Per quanto sia duro accettarlo, non sarebbe così tremendo se ne andasse e basta.
Ma non il nostro Wade. A lui piace tornare a giocare coi vecchi giocattoli.
Sempre che questi siano abbastanza stupidi da permetterglielo.
Ora lo capisco. Davvero.
E sapete un’altra cosa?
Mi merito di meglio. Di molto, molto meglio.
Davvero.
Adesso odio questo arnese con tutto il mio cuore. Se potessi esprimere un qualsiasi desiderio, chiederei di trovarmi in cima a un precipizio scosceso e profondissimo. Tipo un chilometro basterebbe. Sì, lo so che soffro di vertigini, ma se in cambio ottenessi la soddisfazione di lanciare questo coso nel vuoto e guardarlo precipitare senza speranza sulla terra, fino a sfracellarsi sulle rocce qualche trilione di metri più giù? Cazzo, scalerei l’Everest per una cosa del genere.
In pigiama.
Mwah-ah-ah-ah!
Randi mi dà un colpetto al braccio. “Ti prego, dimmi che non accetterai di rivederlo.”
Guardate quella faccia. Le voglio così bene. Penso che abbia scambiato la mia occhiata gelida all’oggetto della mia ira con la vergogna ad ammettere che mi bevo ancora le stronzate di Wade. Quando in realtà, quello che sto davvero pensando – se quest’affare avesse un collo, lo strangolerei a morte.
Stringerei così forte che questi occhietti neri gli schizzerebbero via dalla testa come tappi di champagne.
Mi piace l’idea.
Rientro sulla terra dopo il mio piccolo felice viaggio e mi sento più leggero per il sollievo e lo sfogo. Tutta quella rabbia ardente mi ha purificato, incenerendo l’ammasso di merda Wadosa a cui mi aggrappavo, perché anche la sua merda era meglio di niente.
Almeno, così pensavo.
Non ora. Non più.
Da quando mi ha mollato e sputato via, il mio cuore non è stato altro che un ammasso di schegge sospese in un triste budino di speranza che Wade tornasse da me. Ora che capisco che razza d’idiota sono stato, non lo rivorrei indietro nemmeno se comparisse sulla porta con indosso solo lo stetoscopio.
Potrei ricominciare da capo. Potrei? Posso? Lo faccio?
“Peter!” Randi mi dà un pugno sulla spalla. “Mi ascolti?”
Ricambio la botta. “Sì, razza di stronza senza cuore. Picchiami di nuovo e ti manometto la macchina.”
“Allora, cos’hai deciso?”
Faccio ciondolare lo stetoscopio da uno degli auricolari. “Per cominciare, butto ’sto coso nell’immondizia.”
Preferirei una fornace ardente, ma non ne vedo molte nei dintorni.
Randi lancia un gridolino felice, battendo le mani eccitata. “Così si fa! Finalmente quello che volevo sentire. Era ora!” Si sporge, facendo per prendere l’attrezzo. “Aspetta, non buttarlo – dallo a me.”
Per ragioni che non mi va di approfondire – e che hanno soprattutto a che fare col dove è stato messo e per cosa è stato usato – l’idea che Randi tocchi quest’affare mi suscita sentimenti di disgusto profondo.
Lo sottraggo alla sua presa. “No! A che ti serve?”
“Tranquillo!” Mi rimprovera. “Non m’interessano i dettagli torbidi dei vostri incontri.”
L’ho già detto che mi conosce troppo bene? Comincio ad avere paura.
“Voglio riportarlo a Wade. Di persona. Così posso dirgli in faccia di andare a fare in culo.”
Lo farebbe pure. Ammetto che l’idea non mi dispiace. Ma dovrei farlo io, non lei.
Sto per farglielo presente, quando il fattore canino rialza la testa bavosa.
“Ah, cazzo! Denver sta facendo la cacca. Aspetta qui, torno subito!”
Randi non aspetta risposta. Schizza dalla panchina diretta verso di lui, trotterellando e frugando nel marsupio in cerca dei sacchetti di plastica.
Maledetto cane. Conversatius interruptus. Proprio quando le cose si facevano interessanti.
Denver è a metà del parco, accucciato per depositare. Randi non arriverà mai prima che abbia finito. Trovare le feci nell’erba alta sarà un lavoraccio. Non la invidio.
Possedere un cane non è per niente figo come sembra. Randi giura e spergiura che preferisce raccattare la sua cacca piuttosto che cambiare un pannolino, ma io non sono convinto.
La mia esperienza è limitata in entrambi i settori. Wade odiava i cani. E pure i bambini.
Ma sapete una cosa? Non me ne frega un tubo di cosa odiasse o amasse Wade.
Non me ne frega un tubo di Wade.
Un tubo.
Proprio un tubo. Vorrei ridacchiare, saltellare e fare le boccacce. Non. Mi. Frega. Un. Tubo. Uaaah.
Libero. Sono libero. Dovrei fare qualcosa. Far volare un aquilone, scrivere il mio nome sulla neve. Solo che è giugno.
Che posso fare? Eh?
“’Cusa, siggnore?”
Il suono inaspettato di una voce infantile lievemente difettata mi fa quasi morire d’infarto. Mi volto sopprimendo a fatica un grido, e sulla panca dove prima sedeva Randi ora c’è questa bambina. Una ragazzina coi riccioli ramati, grandi occhi verdi, e un’adorabile spruzzata di lentiggini sulle guanciotte piene. Cinque anni. Forse. Potrebbe essere più piccola, o più grande, non lo so; sto tirando a indovinare.
Come ho detto – folklore infantile, non esattamente la mia area di specializzazione.
Piccolo adorabile scricciolo, da dove sei venuto, e perché siedi sulla mia panchina? Dov’è la tua mamma?
Acc, non so proprio cosa fare!
La pulce mi guarda con innocenza, chiaramente ignara dello scompiglio che sta portando nella mia realtà. “Siggnore, tu sei un dottore?”
Sono un… “Cosa?”
Perché lo chiede a me?
Gli occhi verdi sbattono le palpebre, la fronticina s’increspa, il bocciuolo di rosa della boccuccia si stringe nel broncio più carino del mondo. Sospirone. “Sei un dottore?” chiede di nuovo, gli occhi fissi e severi – è una domanda seria. “Me lo dice? To ceccando un dottore pe’ papà. Ha detto a ’la nonna che ha il cuore ’pezzato. Tu lo puoi aggiuttare?”
Ommioddio, quant’è carina questa cosa?
“Tina! Tina, quante volte ti ho detto di non sparire così?! Mi scusi, la sta importunando?”
Una voce maschile calda come il caramello liquido mi solletica i timpani. Non credo di aver mai udito niente di più melodioso. Sposto la mia attenzione dalla mia inquirente mignon alla sorgente del suono, sperando irrazionalmente che quello che vedrò sarà bello quanto quello che ho sentito.
Per una volta nella vita, non sono deluso.
Cavolo, no!
Quei toni dorati sono arrivati proprio da questo viso. Oh, yes. Ho capito da dove Scricciolina ha preso quegli splendidi capelli. E quei bellissimi occhi limpidi. Quelli di papà sono blu, ma non c’è dubbio che sia la pianta da cui è spuntato il germoglietto.
E poi sorride.
Lo svolazzare che sentite è il mio cuore che ha messo le ali e sta volando via.
Non essere idiota – ha una figlia, il che vuol dire che al massimo, se non è sposato, è sicuramente etero. Ma probabilmente sposato. Sposato ed etero. Guardati! Fatti furbo! Non ti sei liberato di Wade da neanche cinque minuti, e ti stai innamorando del primo eterosessuale figo che ti passa di fronte al naso.
Manco tu puoi essere così patetico, e nel caso che nessuno te l’avesse ancora detto, quando si tratta di Sfigolandia, sei tipo il sovrano assoluto.
Ma lui è così bello, e quegli occhi! Quegli occhi blu scuri e profondi che non ti hanno mai mollato da quando ci siamo incrociati la prima volta. Occhi che non hanno smesso di squadrarti neanche quando ha preso in braccio la bambina, senza degnarla di uno sguardo perché non smetteva di guardare te.
Ohi, e questo che è?
Curioso atteggiamento per un ipotetico eterosessuale. Vogliamo sperare?
La bambina nell’incavo del braccio, le gambine che ciondolano e scalciano pigramente l’aria, il nuovo proprietario del mio cuore mi travolge con un grande sorriso, rughette agli angoli degli occhi e fossetta nella guancia destra. “Le chiedo scusa. La stava importunando?”
Urk. Quel colpo che avete appena sentito? È il mio cuore che si è arrestato.
Adesso lo raggiunge anche il cervello.
No, sul serio, come faccio a comporre un pensiero coerente dopo quel sorriso? Scuoto la testa, sperando che quando aprirò la bocca ne uscirà qualcosa.
A parte la saliva. “No. No. Si figuri. Affatto.”
Gah…
“Meno male.” Il dio dai capelli ramati finalmente mi libera dal suo sguardo elettrico, spostando la sua attenzione sulla sua erede. Una pernacchia sulla guancia somministrata con entusiasmo strappa alla pulce un’esplosione di risatine. “Avevamo un patto, signorina! Ricordi? Non si va a zonzo da soli!”
La piccola si dimena e continua a ridere. “Ma ti vedevo! Non ’ono andata lontana. Volevo pallare col dottore.”
Questo fa chiaramente colpo. Il tipo spalanca gli occhi, che luccicano con interesse. Un altro sorriso. Dio abbia pietà. “Oh, è un medico?”
Ma come se la sono inventata ’sta cosa del dottore? Aspetta. Oh, no. Doh! Lo stetoscopio! Sul serio? Ma cos’è ’sto affare? In questo momento penso che una bambola voodoo maledetta e posseduta mi causerebbe meno guai. Avrei dovuto buttarlo nel cestino finché potevo.
Sul serio, vile stetoscopio? Non ti sei vendicato abbastanza? “Oh, no, non…” Sollevo l’arnese e faccio spallucce. “Mi spiace, ma no. Questo non è mio. Non sono un medico.”
Lo usavo solo per giocarci una o due volte alla settimana. Quando toccava a lui fare il paziente.
Trovandosi il viso della bimba appiccicato a quello del padre, non posso non notare l’effetto che ha su di lei il diniego della mia presunta professione medica.
Tragedia massima suprema, sufficiente a portare alle lacrime un serial killer. Se le avessi detto che il coniglietto pasquale, la fatina dei denti e babbo natale non esistono avrei sconvolto il suo piccolo mondo maggiormente, ma non di molto.
Mi sciocca quanto il suo dolore faccia male anche a me. La conosco a malapena, e già la sua felicità significa per me quanto la vita stessa.
Il che è tutto dire per un amante del dramma come me.
La meraviglia di padre della principessina ferita sembra ignaro dei crucci della piccola. La fa sobbalzare un paio di volte. “A che ti serve un dottore, tesoro?”
I bambini sotto i dieci anni devono essere telepatici. È l’unica spiegazione per il fatto che improvvisamente capisco che se la copro adesso, saremo amici per sempre.
Don’t worry, piccola. “Lo stetoscopio.” Tocco il dischetto con l’indice. “Voleva vederlo da vicino.”
Il tipo solleva il sopracciglio destro e increspa le labbra, come se stesse soffocando un sorriso. “Ah, sì? Interessante.”
Uhm… non è la reazione che mi aspettavo. Mi sono perso qualcosa. “Come ho detto, non sono un dottore. Ma capisco che l’abbia pensato, visto che avevo…”
“Lo stetoscopio.” Annuisce lui con saggezza. “Insolito aggeggio, per un parco attrezzato per cani.”
Non riesco a scrollarmi la sensazione che sia una battuta. Vorrei che me la spiegasse.
“Sì, lo so. Non è che me lo porti sempre dietro. È solo stavolta. Stavo per restituirlo al fetente – cioè, al mittente.”
Alla faccia del lapsus freudiano!
Tina si è fatta tranquilla fra le braccia del padre. I suoi occhi mi studiano in silenzio, grandi e verdi sul viso rotondo e lentigginato. Anche suo padre mi sta facendo una bella ispezione visiva. “Qualcosa mi dice che c’è una storia dietro. Non che siano affari miei.”
Vorresti che lo fossero?
Ommioddio, ommioddio, Peter, Peter, Peter, rallenta! Sei uscito di quel poco senno che t’era rimasto? Che ti viene in mente? Non sono passati manco cinque minuti da quando hai preso armi e bagagli emotivi per lasciare Wadelandia, e adesso ti metti a sbavare sul primo bel visino che incontri.
Però dio, è proprio un bel visino!
Adesso basta! Sei fuori di testa! Eppure…
È la follia più pura a farmi soccombere a un’attrazione istantanea appena cinque minuti dopo aver dichiarato la mia indipendenza amorosa, oppure è solo un fatto di ripicca, questa combo di cuore a mille, bocca asciutta e vertigini, che provo quando questo bellissimo sconosciuto mi guarda – e io guardo lui?
Magari ho la febbre.
E poi c’è da considerare il commento criptico di Tina. Cioè che non sarei l’unico ad avere problemi cardiaci. Se ci si può fidare di una cinquenne.
Anche lui ha problemi di cuore. Non so bene come funzioni. Se siamo entrambi rotti, chi dei due fa le riparazioni?
Sembra un lavoro da specialista di cuore. Vorrei conoscerne uno.
Non so cosa fare. Sapete, questa è una di quelle volte in cui farebbe molto comodo se i cieli si spalancassero e scendesse un grosso dito divino con un cartello al neon luminoso sì è lui quello giusto puntato verso il soggetto in questione.
Chiedo troppo?
“Littmann Lightweight II SE.”
“Che cosa?”
Ride. “Lo stetoscopio. È un Littmann. Un modello di fascia medio-bassa. Svolge il suo dovere, ma non ha molte funzioni.”
Fascia media-bassa. Una bella sintesi di Wade.
Devo controllare. Ma guarda. Ha ragione. “Come facevi a saperlo?”
Mi sa che sta per spiegarmi la battuta. “Ne ho visti diversi, ai miei tempi. E anche la signorina qui. Sono un rappresentante di apparecchi farmaceutici.”
Wow. Quante probabilità c’erano? Questo spiega perché non si è bevuto le mie panzane poco fa. Mi sa che la signorina – cioè, Tina – ed io siamo fregati.
Curiosamente, non sembra importargli che le prime parole che gli ho detto fossero una piccola bugia innocente. Suppongo che tutto dipenda dal contesto. Per non parlare delle intenzioni dietro.
“Questo mittente. Che non s’intende di stetoscopi. È una persona cara?”
Mittente? Oh, oh, si riferisce a… “Una volta. Ora non più.”
Non mi sto immaginando le cose. La mia risposta l’ha reso felice. Ancora non riesco a credere alla follia di tutto questo.
Ed è folle davvero. Ma più mi ci immergo, meno me ne importa.
Un piccolo segnale che non ho perso il senno. Ti prego ti supplico ti scongiuro?
Il papà di Tina lancia un’occhiata a Randi, che è ancora dall’altro lato del parco con Denver. “Sei con lei?”
Scrollo la testa così vigorosamente che mi sorprendo che non parta e si metta a rotolare per il parco. “No. Cioè, sì, è mia amica e sono venuto qui con lei, ma non è quella dello stetoscopio. Lui non penso che lo rivedrò. Lei invece è Randi, ma non è – non siamo…”
Non serve che finisca la frase. Ho visto i suoi occhi quando gli ho lanciato la granata del pronome maschile.
Un uccellino che canta, una farfalla che gli si posa sulla spalla – qualunque cosa, va bene qualunque cosa. Chiedo solo un piccolo, piccolissimo…
“Valentine.”
“Cosa?”
Allunga la mano, invitandomi a prenderlo. Prenderla. La mano. “Mi chiamo Mark Valentine.”
Grazie, Dio.
Mark si avvicina, ruotando appena il polso. Il palmo all’insù, come un invito a toccare.
Lo colgo.
Quando le mani entrano in contatto, è una sensazione quasi elettrica. Le sue dita si avvolgono alle mie e le stringono con forza, decisione, tutto troppo rapido, perché poi mi lascia andare.
Non riesco a parlare subito, ma non sembra gli dispiaccia aspettare.
“Peter. Io mi chiamo Peter. Peter Walker.”
È giusto, no?
Dio, lo spero tanto.
“È un piacere conoscerti, Peter. Non sai quanto.”
Ancora una volta i nostri occhi s’inchiodano l’uno all’altro; sento il calore da qui. Insieme a ogni cellula cerebrale che possiedo, che all’improvviso si scioglie e mi cola dalle orecchie.
“Papà, guadda!” strilla Tina la Terribile con pura gioia infantile. “Bailey ha fatto pipì su Peter! Cattivo Bailey!”
Sono consapevole di una pressione decisa sulle caviglie e abbasso lo sguardo, incontrando quello limpido di un adorabile beagle col culo parcheggiato sulle mie Converse. Gli occhi castani, innocenti e appassionati, sembrano proprio dire: “Chi, io?”
Aaaaaaaargh! The cucciol mi ha pisciato su una scarpa! Quant’è carino?
Quasi altrettanto adorabile è il terrore abietto sul viso di Mark. “Oh mio dio, non ci credo che l’ha fatto. Mi dispiace tanto. È ancora piccolo. Gli sto insegnando come comportarsi, ma quando si agita perde il controllo e la fa dappertutto.”
Mark si morde il labbro inferiore. Muoio dalla voglia di coprire lo spazio fra noi e dargli qualcos’altro da masticare.
Il sorriso che si diffonde lentamente sul suo volto illumina il mio mondo. “Mi sa che gli piaci un sacco.”
Breve pausa. Sta succedendo qualcosa. Qualcosa di molto bello.
Inspira a fondo. Poi la cosa succede. “E non è l’unico.”
Se la mia felicità aumenta ancora, mi metterò anch’io a farla dappertutto.
Nessuno arrossisce meglio di chi ha i capelli ramati. Mark ha un incendio di prima categoria che gli sboccia su tutto il viso. “Spero non ti dispiaccia se te l’ho detto.”
“No! No, non mi dispiace affatto. Anzi, lo speravo.”
“Davvero? Lo speravo anch’io.”
Wow, non ho mai visto nessuno guardarmi così – come se fossi la risposta a una preghiera. Potrei abituarmici. “Anche tu?”
“Anch’io.”
Sono abbastanza sicuro che di solito nei romanzi d’amore i dialoghi siano più profondi – per non dire coerenti – ma per come la vedo io, non c’è bisogno di chiacchiere.
Una risatina squillante interrompe il nostro intenso guardarci negli occhi. “Papà! Mi fai toppo ridere!” Tina tamburella i piedi contro il suo addome. “Ho fame! Possiamo andare a casa a mangiare?”
Mark se la mette sotto il mento. “Ma certo, cucciola. Andiamo fra un momento.”
Gli occhi verdi fin troppo saggi per la sua giovane età scintillano con malizia. “Peter può venire a casa con noi?”
Mark le risponde guardando me. “Non lo so, tesoro. Dipende da lui. Tu che ne dici, Peter? Vuoi venire a casa con noi? Per pranzo?”
“Certo. Almeno per questo non occorrono licenze.”
Non è il mio massimo in quanto a battute. È difficile resistere all’impulso di prendermi a calci, mentre stacco il sedere dalla panchina.
Non devo preoccuparmi. Mark mi trova divertente. Oppure è super-gentile. Comunque sia, accetto il sorriso. E l’uomo intero. “Un passo alla volta. Ma se si tratta di licenze, sono sempre interessato.”
Il mio turno di arrossire.
Mark abbassa la figlia per terra e si sfila il guinzaglio dal fianco. Lo guardo accucciarsi e allacciare l’altro capo al collare di Bailey. “E tu, il guinzaglio?” mi chiede dopo essersi rialzato. “Anzi, il cane?”
“Non ce l’ho.” Indico Randi, che ci spia segretamente da lontano, e mi fa il segno del pollice all’insù nel momento in cui si accorge che la sto guardando. Ci aggiorniamo poi, fanciulla. Ti racconto tutto. Roba buona, per una volta. Spero. “Ma ho un’amica che ce l’ha.”
“Capisco.” Mark prende la mano della figlia. “Adesso ne hai due.”
Oh, lo spero.
“Spero che ti piacciano i cani.”
Sto sorridendo come un cretino. Spero di non sembrarlo troppo. “Li adoro. Cani e bambini. Non mi bastano mai.”
Sa che è un’altra mezza verità, ma ancora una volta non sembra intenzionato a covarmi rancore.
Potrei imparare ad amare quest’uomo.
Forse è già così.
La vita è strana, eh? Quando mi sono alzato stamattina, ero convinto che non mi aspettasse altro che un’altra giornata vuota. Forse è cominciata così, ma se mi aveste detto che prima della fine si sarebbe rivelato il giorno migliore di sempre, non ci avrei mai creduto.
Forse ho parlato troppo presto. Senza preavviso c’è un cambiamento in Mark. Il suo sorriso, finora costantemente luminoso, si attenua. C’è un’ombra nei suoi occhi, una melanconia triste che prima non c’era. Sbatte le palpebre, inspira a fondo, e qualsiasi cosa stesse ferendo la sua anima è sparita. Sorride, e il mio mondo riprende a girare.
“Sono davvero felice di averti incontrato, Peter. Non sai quanto.”
C’è così tanta sofferenza compressa in quelle poche semplici parole. Dietro dev’esserci una lunga storia. Un giorno, ne sono certo, me la racconterà.
Proprio come anch’io, quando sarò pronto, gli racconterò di Wade.
Mark si accuccia e chiama la figlia. “Dai, scimmietta, salta su.”
Con un grido e un risolino lei si arrampica sulla sua schiena, i piccoli arti avviluppati a lui, aggrappata come un riccio rosso.
Figlia a bordo, cane guinzagliato al fianco, Mark fa un passo in avanti. Si ferma, si volta verso di me e mi porge la mano. “Vieni?”
Oh, sì. Appena sbrigo un’ultima faccenda.
Mark e il suo entourage di poppanti aspettano pazientemente mentre mi reco in breve pellegrinaggio al più vicino bidone dell’immondizia. Ci lancio dentro lo stetoscopio senza cerimonie né pietà, voltando la schiena e andandomene privo del minimo rimorso o ripensamento.
Bye bye immondizia. E ’fanculo pure tu, Wade, ovunque tu sia.
Lasciato il passato alle spalle, torno da lui.
Da loro.
D’ora in poi, guarderò al futuro tramite occhiali a lenti ramate.
Potrei persino adottare un cane. Finché ci penso, prenderò in prestito il suo.
Adeguo subito il mio ritmo ai lunghi passi di Mark, le nostre camminate perfettamente sincronizzate, come se l’avessimo fatto una vita intera. Bailey fa le capriole fra noi, la lunga lingua che gli penzola da un lato della bocca. La mano di Mark nella mia, le risate della scricciola che riempiono l’aria, il cucciolo che saltella dalla gioia di essere vivo, io avverto una sensazione che non sento da così tanto tempo che sulle prime quasi non la riconosco.
Felice.
Sono felice.
Sono felice e so di esserlo.
Quello che non so è dove sto andando. Ma non ho paura di andarci.
Non con lui.
“Quindi, Peter, sei sicuro di non essere un dottore? Perché io mi sento già meglio.”
“No. Mai studiato medicina.”
“Okay. E questo tuo amico? Quello che non vedrai più? Lui è un dottore?”
“No, ma gli piace giocare a farlo. Quando non gioca a scombussolarti il cervello.”
“So di cosa parli. E tu?”
“Nah, io ho chiuso con la medicina in generale. E pure coi giochi di cervello. Pirati. Con quelli sì che si ragiona. Ho sempre voluto essere un pirata.”
“Veramente? Mi spiace che nel repertorio degli Halloween passati mi manchi l’attrezzatura da pirata, ma ho un costume da Batman che ti farà sbellicare dalle risate…”