Linda
Non riesco a rialzarmi. Non ce la faccio. Non ce la farò. È successo troppo. Troppo è andato smarrito.
Ero qualcuno. Una madre, una politica, il ministro dell’Interno. Avevo potere, influenza.
Guardatemi ora. Ecco quanto sono caduta in basso.
Accasciata sul pavimento, il sangue che sprizza da un taglio, la testa che pulsa per il fallimento.
Sola.
Chi verrà ad aiutarmi ora? Qualcuno si offre volontario?
Proprio no.
Il mio nome, urlato, una volta, due.
«Linda?»
Di nuovo.
«Linda!»
Non è Gabriel. Lui se n’è andato. Mio figlio non tornerà. Questa è una voce femminile. Anna, la mia governante.
Ho la testa impiastricciata di sangue e sudore eppure ho freddo, non caldo. Dita di ghiaccio, corpo in preda ai tremiti. Sono sollevata di sentire un’altra voce, ma l’umiliazione scorre appena sotto la superficie. Cosa le dirò? Non è nata ieri.
«Qui sopra.» Non riesco a gridare, sono troppo debole, le parole escono strozzate. I passi di Anna risuonano sulle scale ed ecco che mi trova. Gioco d’anticipo, voglio ridurre il trauma prima ancora che la colpisca. «Sembra peggio di quel che è.» Abbozzo un sorriso, ma lascio perdere quando il dolore alle tempie mi attanaglia.
«Gesù, Linda, stai bene?»
«Sono solo caduta.» L’istinto di proteggerlo è ancora forte.
«Oddio, a me sembra che tu abbia preso una bella botta. Hai qualcosa di rotto?»
Tutto.
«Non credo.»
«Vieni, allora, non puoi restare seduta lì tutto il giorno.» Mi aiuta ad alzarmi e vacillo verso i gradini. Mi agguanta, mi tira indietro, la sua forza è l’unico baluardo tra me e un ruzzolone giù per le scale.
«Adesso ti diamo una ripulita, e poi mi racconti che cavolo è successo.»
Sprofondo nel letto. L’occhio mi batte come un tamburo, talmente gonfio che in pratica è chiuso. Anna ripulisce la ferita facendo rapporto sulle sue dimensioni, profondità e gravità. Farei volentieri a meno della radiocronaca, ma almeno le impedisce di fare domande. «Forse c’è bisogno di qualche punto.»
«Assolutamente no. Una gita al pronto soccorso mi darebbe il colpo di grazia.»
«Mah, vedi tu. Non è molto profondo, poteva andarti peggio, anche se la moquette non si riprenderà mai. Sembra che ci abbiano sgozzato qualcuno.»
Perdo l’occasione di ridere.
Anna scompare in cucina per poi tornare con il tè, una tazza a testa, biscotti, e un’espressione inquieta. Piazza la poltrona vicino al letto.
«Allora, me lo dici cosa è successo davvero?»
«Una caduta» ripeto. Questa volta non se la beve. Ha visto il tavolino rovesciato in soggiorno, la tazza di caffè sul pavimento insieme al terriccio della pianta. Mi sono fatta fregare dalla mia sciatteria, avrei dovuto pulire quando ne ho avuta l’occasione. Sono lì lì per addossarmi tutta la colpa del casino, posso imputarlo a un capogiro, quando Anna mi dice che sulle scale ci sono un bel po’ di pedate insanguinate.
«Dovrei chiamare la polizia.»
«No, ti prego.»
«Chi è stato?»
Sono con le spalle al muro. Devo darle qualcosa, se voglio uscirne.
«Gabriel. È stato un incidente.»
Altre domande. Non che mi vada di porgerle le risposte su un vassoio d’argento, ma le troverebbe comunque da sola. Se non le fornisco la mia versione, presto sarà la stampa a darle la sua.
Inoltre ho fiducia in Anna, e non è che lo possa dire di molte persone della mia vita. Ho notato subito qualcosa in lei, già il primo giorno, quando si è presentata per il colloquio. Determinazione, uno spirito ferito. Ce ne vuole uno per riconoscerne un altro. Ecco perché le racconto la storia di Gabriel, seppure per sommi capi: il cadavere di Mariela trovato vicino a casa sua, la sua “relazione” con lei, se così la posso definire. Ometto le scenate, lui che mi scrolla, brutta stronza del cazzo. Non gli serve altra pubblicità negativa.
«Capisci? Pensava che stessi chiamando la polizia. Voleva uscire, mi ha superato di corsa e ha finito per urtarmi, tutto qui.»
«Allora come mai non sono ancora arrivati?»
Mi sfrego l’occhio e una fitta mi fa vedere le stelle. «È mio figlio.» Aspetto che la confessione venga recepita. «Stavo chiamando prima un amico. Volevo il suo consiglio, ma quell’idiota ha sempre il telefono spento. Non che abbia intenzione di coprire Gabriel se davvero ha fatto qualcosa di male, ma è che proprio non riesco a crederlo.»
Mi guarda scettica.
«Questo non è lui, non è un mostro» ribadisco indicandomi il viso. «Non li chiamerai, vero? Gli agenti. Non subito, almeno. Non ti sto chiedendo di mentire, è solo...»
«Se è quello che vuoi. Sai dov’è adesso?»
Scuoto la testa. «Voleva la mia auto. L’avevo parcheggiata qui davanti.»
Anna tira indietro la tenda e scruta la strada. «Be’, ora non c’è più. Adesso dovresti riposare un po’» aggiunge. «Deciderai al tuo risveglio cosa fare, ma suppongo che questa per oggi non ti servirà.»
Con la coda dell’occhio sano la vedo spostare la mia valigia in un angolo. Era già pronta. Saremmo dovute andare in Scozia questa sera. Le lacrime si fanno strada fino al taglio, bruciano come acido. Era tutto programmato: il viaggio, la sistemazione, il colloquio per il libro che sto scrivendo. Anna pensa che sia sulle donne in politica nel Ventesimo secolo, e che la persona che devo intervistare sia una storica specializzata nel settore. Mi dispiace doverlo ammettere, ma è tutto falso. Non mi diverto a mentire, lo giuro, ma in questo caso si tratta di un piccolo inganno per proteggere una verità più grande.
«Puoi inviarle un’email. Chiedere di rimandare. Circostanze impreviste. Sono sicura che capirà.»
Io sono sicura di no.
Le passo il recapito della donna e detto un’email in cui spiego che ho avuto un piccolo incidente e sono impossibilitata ad andare. Mi profondo in scuse (è la quarta volta che ripeti «Mi perdoni», Linda), e le chiedo di fissare un altro incontro di lì a qualche settimana.
Ho la testa che scoppia, è pesante, sovraccarica della giornata. «Dovresti proprio riposare» insiste Anna. Non mi oppongo. Mi addormento in due secondi netti.
L’aveva promesso, vero? Eppure ora mi sta scrollando piano e mi dice che ci sono i poliziotti, vogliono parlarmi.
Ho le palpebre incollate dal sonno e quando finalmente riesco ad aprirne una vedo Anna con le mani alzate in segno di resa.
«Non sono stata io. Non li ho chiamati io. Si sono presentati loro.»
Lo stanno cercando.
È tutto vero.
Trovo il sergente Jay Huxtable, in borghese, intento a studiare il macello che ho lasciato in soggiorno.
«Se avessi saputo della vostra visita, avrei fatto ordine.» Battuta legnosa, niente risate.
Mi stringe la mano. «Signora Moscow. Suo figlio è stato qui?»
«Questa mattina. Ma non si è fermato molto.»
«È stato lui?»
Non mi è chiaro se si stia riferendo al tavolino ribaltato o al mio viso e decido di tenermi aperte entrambe le alternative.
«È stato un incidente, calo di pressione. Una gran seccatura. Sono svenuta.»
«Dovrebbe farsi vedere.»
«Mi ha già medicato Anna, grazie, è stata bravissima.»
«Sa dove si trova suo figlio adesso?»
«Temo di no.»
«Dobbiamo interrogarlo in merito al decesso di una giovane donna. Si sarebbe dovuto presentare in centrale a mezzogiorno. Faremo del nostro meglio per trovarlo, ma nel frattempo non è il caso che lei rimanga qui.»
«Non ho paura di mio figlio, se è questo che sta insinuando.»
Ma dell’uomo apparso questa notte? Di quello ho una paura incontrollabile.
Il sergente Huxtable non molla. Me ne scappo in bagno quando la pressione diventa insopportabile. Vuole buttarmi fuori di qui, via da casa mia, dice che non avrà pace finché non saprà che sono al sicuro. Gabriel l’ha resa territorio ostile. Non voglio andarmene. Nonostante tutto, voglio essere qui in caso torni. In caso abbia bisogno di me. Eppure c’è un’altra voce nella mia testa, quella logica, quella dotata di raziocinio, che mi dice che quando è troppo è troppo, mi implora di guardarmi allo specchio e chiedermi per quanto ancora continuerò a proteggerlo.
Mi osservo e vedo la risposta che cercavo. Guancia in fiamme, un occhio ridotto a una fessura. Patetica. Io.
Ecco cosa ha fatto.
Anna mi ferma in corridoio per comunicarmi che la donna che devo intervistare, Naomi Parkes, ha risposto all’email.
«Forza, spara.»
La giornata fa già schifo, peggio di così non può andare, giusto? Sbagliato. Salta fuori che Naomi Parkes, la cui testimonianza è fondamentale per corroborare la tesi del mio libro, sta avendo dei ripensamenti. Inizia a chiedersi se sia saggio mettersi a rivangare il passato. Le dispiace che abbia avuto un incidente, ma le ultime settimane, mentre si preparava psicologicamente per il nostro colloquio, sono state molto pesanti. Non è sicura di voler fissare una nuova data, e i bambini, e il lavoro, e dopo questo fine settimana parte la solita sarabanda di recite e feste di Natale. Ne avrà fin sopra le orecchie. E poi cosa potrebbe dire a suo marito? Questa settimana sarebbe stato via, quindi non avrebbe dovuto spiegargli dove andava, con chi parlava. Non è brava a mentire, e non vuole farlo.
O questa settimana o niente.
«Possiamo andare lo stesso» mi dice Anna. «Se te la senti. Avresti comunque qualche giorno di riposo prima di vederla.» Accenna all’agente che mi aspetta in soggiorno. «Lo faresti felice di sicuro.»
La prospettiva di allontanarmi, di mettere qualche centinaio di chilometri e un bel po’ di asfalto e ore tra me e mio figlio, ovunque si trovi, mi fa sentire leggera, confusa, atterrita.
«Non credo di farcela.»
«Non lasciare che Gabriel rovini tutto. È un secolo che ci lavori.»
Ha ragione. Sono anni che ci provo. Non posso lasciarmi sfuggire tutto per l’ennesima volta.
Altrimenti sarà tutto perduto.