Dicembre 1992

Gabriel, 8 anni

Alla mamma piace risolvere i problemi della gente, il che significa che tutti vengono a raccontarglieli. Anche quando siamo al supermercato non riusciamo a superare le banane senza che qualcuno la blocchi per dirle che il campetto di Balham sta per essere chiuso e lei cosa pensa di fare, o che il figlio è disabile e allora nel palazzo c’è da mettere un ascensore, non può per favore pensarci lei?

Spesso sono anche un bel po’ maleducati, ma lei indossa la sua faccia della cortesia e risponde: «Vorrei saperne di più. La prego, fissi un appuntamento per una visita al mio studio».

Io vorrei dire a quella gente di pussare via e darci tregua, e anche: “Per l’amor del cielo, lasciateci scegliere le nostre fragole in santa pace!”, ma secondo la mamma questo sarebbe maleducato.

Un sabato sono andato al suo studio, quello dove fa le visite, e indovinate un po’: non sono mica visite mediche! Non fa il dottore, mia mamma. Il suo lavoro è stare tutta la mattina ad ascoltare la gente che si lamenta e poi segnarsi tutte quelle lagne e portare i fogli al lavoro il lunedì per darli a persone importanti che governano il paese. Il lavoro della mamma si chiama fare il politico. «Ma così diventi tu quella che si lagna» le ho fatto presente.

«Non è lagnarsi, è aiutare le persone.»

Oggi non dovrebbe dare nessun aiuto. La scuola è chiusa, è vacanza. Elena ha il giorno libero e la mamma ha detto di scegliere io cosa voglio fare. So esattamente cosa voglio, e lo saprebbe anche lei, se si scollasse da quel telefono.

Disegno un orologio e un punto di domanda. Quanto ci metti? Lei dà un’occhiatina al foglio, lo spinge via e mi fa segno di smammare. Non mi sono mai annoiato tanto in vita mia.

Passo dalla cucina, sgraffigno un pacchetto di wafer alla vaniglia e salgo di sopra. Non che mi piacciano da impazzire, ma o quelli o niente.

In camera, gioco con Mr. Piddles. Prepariamo un palco sul pavimento e assegno un ruolo a ciascuno dei miei animaletti. Poi cominciamo a ballare. Non roba da femminucce, queste sono le mosse fiche che facciamo io e Tommy. Li faccio dimenare tutti con me sulla colonna sonora di Vita da orsi e sono talmente preso che ci metto un po’ ad accorgermi che la mamma è ferma sulla soglia.

«Ci stiamo allenando per il film.»

«Che film?»

«Vita da orsi. È quello che voglio fare oggi.» Per farglielo capire ancora meglio mi metto a fare il ballo dell’orso sulla canzone del film. Tommy e io l’abbiamo già imparata a memoria.

Mi aspetto come minimo un sorriso, o anche uno scroscio di applausi, perché no?, invece la mamma non fa niente di niente. È come se dalla faccia le avessero cancellato qualunque espressione di felicità o gioia e adesso è tipo vuota. A volte è così, stranissima. L’umore le va e viene come il segnale dell’autoradio quando stiamo andando a casa della nonna, in campagna.

«Mamma?»

Va alla finestra e si mette a fissare l’albero che c’è di fuori. È scheletrico, le foglie sono già cadute tutte, ma si vede che lo trova interessante perché mi lascia lì un secolo a guardarle la schiena.

«Potremmo andare ai gonfiabili, che dici?» se ne esce alla fine.

Eh?! Stai scherzando?

«Mamma, ho otto anni!» I gonfiabili sono per i poppanti, lo sanno tutti.

A volte ho l’impressione che per la mamma sia una sorpresa che io cresca. Come se non riuscisse a stare al passo con gli anni.

«Il museo della scienza?»

«Bar-ba.»

«Lo zoo?»

«I pinguini puzzano, e poi piove.»

Guardo fuori. Il cielo è color fango. «Voglio andare a vedere Vita da orsi

«Non è adatto alla tua età.»

«Si può vedere in compagnia di un genitore!»

«Ho detto di no.»

«Ma avevi detto che potevo scegliere io, l’avevi promesso! C’erano anche Elena e il papà. Ho due testimoni. Non puoi rimangiarti una promessa.»

«Gabriel, mi dispiace ma è no...» Si allunga a sfiorarmi la testa, i riccioli. Quando siamo seduti vicini a guardare la televisione si diverte ad avvolgerseli intorno al dito.

«Non toccarmi!» Le allontano la mano con uno schiaffo. Paf! È il suono della mia rabbia. Dà soddisfazione. «Sei una bugiarda. Bugiarda!»

«Smettila subito.»

Non posso. La mia rabbia ora si è liberata, è diventata una persona a sé, come l’incredibile Hulk, si fa tutta verde e mi esplode fuori. Le urla della mamma la alimentano e la rendono più potente. La Rabbia colpisce la mamma. Ancora. E ancora. Ben le sta. Non riesce a fermarsi. Non vuole fermarsi.

Alla fine la mamma trova la forza di sopraffarla. Mi spinge contro il muro e mi cattura le braccia divaricandomele. La Rabbia le sta ancora strillando dietro, non parole, si sono fuse tutte insieme e sono diventate una lunga onda sonora di furia. La mamma piange e così viene da piangere anche a me.

A volte la Rabbia si spinge troppo in là.

Più tardi, la mamma bussa alla mia porta con un panino, un bicchiere di latte e una barretta. La barretta mi risolleva l’umore perché è un KitKat, che vale una scusa. «Mangia, poi usciamo.» Evviva, è servito! Aspetto che esca prima di cominciare a canticchiare la musichetta del film. Non voglio che pensi che voglio sbatterle in faccia la mia vittoria.

Capisco che c’è qualcosa che non va quando superiamo la fermata dell’autobus. «Andiamo a piedi fino al cinema?»

«Ho pensato che possiamo andare al parco.»

Cosa?! Un giro al parco è la cosa meno speciale per un giorno speciale che mi venga in mente. Ingoio le lacrime, ma mi si inchiodano nella pancia tipo proiettili.

«Ma pensavo che saremmo andati al cinema.»

«Ho detto di no, o sbaglio?»

Una volta al parco, la mamma trova una panchina e io vado alle altalene, non perché mi piacciano ma perché sono la cosa più lontana da lei. Spingo le gambe in aria e butto indietro la testa e guardo il cielo proprio nel momento in cui, gonfio come un palloncino, scoppia e rovescia acqua a catinelle.

«Andiamo al bar!» grida la mamma come fosse la cosa più eccitante al mondo e non il posto dove vado ogni settimana da quando ero un lattante.

Mi prende una cioccolata calda con doppia guarnizione di marshmallow e panna, che suppongo sia un’altra offerta di pace, perché di solito non mi lascia prendere nessuna delle due perché dice che contengono troppo zucchero. Non sono dell’umore di fare pace. Scelgo un posto vicino alla finestra. I vetri sono appannati, e con il dito scrivo LA PEGGIORE MAMMA DEL MONDO. Appena si siede, aggiungo una freccia che la indica.

«È questo ciò che pensi?»

«Sì. Ti odio.»

Ora arrivano le lacrime, e non sono neanche le mie. Lei mi volta le spalle, guarda fuori dalla finestra attraverso le parole che ho scritto. Anche le lettere piangono, lacrime di condensa che le cancellano.

È stata lei a spingermi a dire questa bugia. Fa sempre così, mi spinge a comportarmi male, non mi lascia scelta. Non la odio, le voglio bene, ma se non le avessi detto di sì, l’unica altra possibilità era no, e così sarei sembrato un perdente. Non è la mamma peggiore, neanche per sogno. La mamma di Shelley la aspetta fuori da scuola in pigiama. Rosa. E quella di Simon non gli permette di guardare la televisione. Niente di niente. Neanche l’ispettore Gadget.

Il silenzio monta tra noi denso e grumoso come il budino della scuola. Si è scostata da me come se fossi contagioso e si rigira la fede sul dito, da una parte e dall’altra. Vorrei spezzare quel mutismo, dire qualcosa di gentile, trovare le parole che le asciughino le lacrime, ma non mi viene in mente niente di adatto. Alla fine lascio perdere. Volevo solo vedere un film. Qual è il problema? I personaggi sono animali e non c’è neanche mezza parolaccia. Mi allontano da lei più che posso, mi rannicchio contro la parete e restiamo lì seduti e aspettiamo che spiova.

Quando usciamo dal bar mi infilo nella casa sull’albero. Non è una furbata, visto che la pioggia l’ha resa puzzolente come una palude, ma fa parte del mio piano. Voglio che venga qui a cercarmi e poi facciamo pace e chiacchieriamo come faccio a volte con il papà, con lui che tiene le ginocchia in bocca. Il papà è decisamente troppo cresciuto per questa casetta sull’albero, però è carino che si strizzi tutto solo per starmi vicino.

Va a finire che la mamma non si strizza per niente. Dopo un po’ lancia un urlo. «Gabriel, è ora di andare!» Non mi muovo perché sono ancora incavolato marcio e voglio che mi chieda scusa o almeno mi dia un abbraccio sapendo che abbiamo esagerato entrambi e uno dei due deve fare la prima mossa.

«Gabriel! Gabriel!»

Urla ancora un po’, poi tace. Sbircio fuori, tra i rami. Si sta guardando intorno.

«Gabriel!» Ci riprova, ma questa volta con un tono più basso, la voce che esce al rallentatore, come se le si stessero scaricando le batterie. Poi esce dal campetto. È il trucco più antico dei genitori, figuriamoci se ci casco! La guardo diventare un puntino e poi svanire nel nulla. Aspetto, so che tornerà. Figuriamoci se mi lascia qui da solo.

Conto i secondi e i minuti sull’orologio. Due minuti poi tre poi cinque poi dieci. Dieci mi preoccupano. Due cifre rendono tutto più serio. Di certo sapeva che ero qui, mi ha visto arrampicarmi su per la scaletta.

Dovrei scendere? Uscire dal parco, cercare di ritrovarla? Ci medito un po’, ma poi penso che in quel modo rischiamo di non ritrovarci mai più. Resto dove sono, soffoco le lacrime. La luce ora è annebbiata. Sono rimaste solo una persona e mezza in tutto il parco a parte me, un papà annoiato che spinge il figlio sull’altalena. Quando se ne vanno anche loro, mi costringo a scendere. Il buio si prende gioco di me. Ha rivestito il parco per la sera, l’ha trasformato in uno sconosciuto. Gli alberi ridono e le ombre cercano di mangiarmi e i cani sono diventati lupi che mi ringhiano contro con fauci bavose e zanne aguzze.

Non riuscirò a trattenere a lungo le lacrime.

Scappo, prendo velocità mentre il rumore del traffico si avvicina sempre più. Corro e corro e corro finché sbuco su una rotatoria gigantesca. Non so come attraversarla perciò aspetto, ma le macchine continuano a passare una dopo l’altra, non si fermano mai, non ci sono pause. Alla fine sono costretto a contare UNO DUE TRE e mi butto. Un clacson mi strombazza, stridore di freni. Un uomo agita il braccio e urla. Torno indietro. Sono bloccato nel parco, isolato da un mare di auto e camion e furgoni.

Di nuovo al parco, la notte è talmente buia e densa che mi sa che il mattino non ce la farà a tornare. Non mi importa più del film. Mi dispiace perfino di avere chiesto di andarci. Mi dispiace di essere stato tremendo. Voglio solo tornare a casa con la mamma e il papà e Mr. Piddles e Pudding il gatto. Ma non penso che succederà perché di sicuro qualcuno mi rapirà e non avrà nemmeno bisogno di offrirmi caramelle o promettermi una vagonata di cuccioli per attirarmi lontano dalla sicurezza, perché sono già tutto solo soletto.

Passeggio un po’ e inciampo su qualcosa, cado, mi graffio il mento, ma è l’ultima delle mie preoccupazioni. Guardo in basso e vedo un bastone, grosso abbastanza perché possa usarlo come arma ma abbastanza piccolo perché riesca a reggerlo. Trovo una panchina e mi siedo in attesa che succeda qualcosa, senza mai mai mai mollare il bastone.

Non ricordo di essermi addormentato, la notte e il freddo devono avermi portato via in braccio. Eppure si vede che ho dormito, perché qualcuno sta cercando di svegliarmi, mi tira i capelli e vuole prendermi il bastone.

«Lasciami stare!» Cerco di gridare ma esce un urletto strozzato.

«Gabriel.»

Sa come mi chiamo.

«Grazie a Dio, grazie a Dio.»

È il papà.

Odora di fuochi d’artificio e mi stritola in un abbraccio fortissimo.

Sono salvo.

«Papà...»

«Sì, piccolo?» mi mormora contro la spalla.

«Mi stai soffocando.»

Appena il papà apre la porta di casa, la mamma mi si precipita incontro come fossi una palla da rugby da intercettare. Ha gli occhi iniettati di sangue per tutto il piangere. C’è un momento di silenzio, poi attacca. «Scusa, scusa. Scusa.» Non fa che ripetermelo, finché comincio a temere che qualcuno le abbia rubato tutte le altre parole. Forse non potrà mai più dire nient’altro. Si vede che il papà pensa la stessa cosa, perché al ventesimo «Scusa» la spinge leggermente di lato e dice che io ho bisogno di qualcosa di caldo da bere e un biscotto e un pigiama che a me sembra un modo educato per dirle di rendersi utile.

Più tardi, mentre mi rimbocca le coperte gli racconto della litigata per il film e delle alternative noiose della mamma, i gonfiabili e lo zoo. Io e il papà condividiamo lo schifo per la puzza dei pinguini e sono contento di vedergli arricciare il naso appena li nomino.

«Aveva detto che potevo scegliere io» faccio presente. E poi, in caso pensi che mi sia nascosto di proposito: «Non volevo scappare. Pensavo sapesse dove mi trovavo». A quel punto, abbasso la voce più che riesco. «Credo che mi abbia lasciato là perché non le piaccio più.»

Le mie parole scatenano un altro abbraccio stritolante e ci incastriamo come due tessere del puzzle. «Ti vuole tantissimo bene» mi dice, ma da come gli trema la voce credo che non sia poi tanto sicuro neanche lui.

«Dormi vicino a me questa notte?» gli chiedo.

«Fatti in là.»

Il papà è quasi uno e novanta, e per riuscire a infilarsi nel mio letto deve arrotolarsi tutto come un serpente ma non fa neanche un lamento, continua solo ad accarezzarmi la fronte finché non mi addormento.

La mattina successiva, il papà non mi sveglia per la scuola. Appena lo trovo, in cucina, gli faccio presente che mi beccherò una nota sul registro per il ritardo.

«Non ci vai, a scuola. Andiamo al cinema. Se qualcuno te lo chiede, di’ che eri malato.»

Il film è addirittura meglio di quanto mi aspettassi, e dal momento che sono tutti a scuola la sala è vuota, perciò posso cantare tutta la colonna sonora senza che nessuno abbia da ridire.

«Non ho sentito neanche una parolaccia» faccio presente al papà quando finisce. «Perché la mamma pensava che non era adatto?»

Fa spallucce come se neanche lui riuscisse a capirlo. «E chi lo sa?»

Solo quando vado a letto chiedo a che ora tornerà la mamma.

«Ha bisogno di un po’ di tempo, Gabriel.»

«È oberata di lavoro?»

«Non quel tipo di tempo. Ha bisogno di tempo per se stessa.»

Mi mordo un labbro. Avevo ragione, non mi vuole tra i piedi.

«Domani torna?»

Lui scuote la testa. «Non domani.»

«Allora quando?»

«Qualche settimana.»

Settimane.

«Se torna faccio il bravo, promesso.»

«Oh, Gabe. Non è andata via per colpa tua. Non devi mai pensare una cosa del genere.»

Be’, e cos’altro dovrei pensare? Non mi ha neanche salutato.

Segno ogni giorno che sta via facendo una croce sul diario. Ci vogliono quattro settimane e tre giorni. Sto giocando a calcio in camera quando la vedo in piedi sulla soglia.

«Ciao, tesoro.» Così, come se fosse solo andata a fare la spesa. Vorrei correre da lei, sprofondare nel suo cappotto, piangere e dirle che mi è mancata ogni santo giorno, ma lo strano è che non faccio proprio niente. Riesco appena a guardarla, perché ho il terrore che se faccio qualcosa di sbagliato scomparirà di nuovo.

Quella sera ceniamo tutti insieme e sono sicuro che mi racconterà dove è stata o tirerà fuori un regalo dalla borsa, tattaratà!, come fa quando va via per lavoro. Invece cincischia il pasticcio di carne spostandolo di qua e di là sul piatto e spiaccica i piselli con la forchetta e dice che il capanno per gli attrezzi ha bisogno di una mano di vernice e il papà dice no e a quel punto lei sospira e mi chiede se ho dei compiti (no) e se ho dato da mangiare a Pudding (sì) e se voglio altri cavolini (ma ti pare?).

«No, grazie» rispondo e mi stampo un sorriso sulla faccia proprio come quello che si è stampata lei. A quel punto tutti smettono di cercare di parlare e l’unico rumore che si sente è quello dei coltelli e delle forchette che raschiano sui piatti. È come se le nostre forme fossero cambiate e ora non ci incastrassimo più, solo che me ne sono accorto soltanto io.

Quando è ora di andare a dormire, la mamma mi dà i baci della buonanotte. Baci sbagliati, sono come sassi che schizzano via velocissimi, sfiorando appena la superficie. La mamma è proprio qui di fianco a me ma credo che si tratti di un trucco di magia, perché è vicinissima e allo stesso tempo superlontana.

Esce e intanto mi dice «Ti voglio bene, ci vediamo domani mattina», e allora mi viene da girarmi e affondare la faccia nel fresco del cuscino. Come può essersene scordata? Noi non lo diciamo così! Noi diciamo tivogliobenecivediamodomattina tutto superveloce così esce come un’unica gigantesca parola felice che è tutta nostra e solo nostra.