Giugno 2001

Gabriel, 16 anni

Insufficienza epatica acuta. ALF, come dicono i dottori ricorrendo all’acronimo in inglese. L’ho visto scritto sulla mia cartella medica e da allora la chiamo così. Avevo bisogno di un trapianto, il che significa che adesso nel mio corpo c’è un pezzo di qualcun altro. Sembrava alquanto maleducato non dargli un nome.

Alf mi ha salvato la vita, il che dovrebbe essere una bella cosa, giusto? Sbagliato. La mamma e il papà hanno continuato a litigare su di lui, finché le cose si sono messe così male che il papà ha levato le tende. Ora vive tre strade più in là, e tutti quanti facciamo finta che non sia cambiato nulla. Guardate, non fatemi dire niente.

Ora alla mamma non piaccio più tanto. Non sono io che sto reagendo in modo eccessivo o sono ipersensibile, ve lo garantisco. È un fatto. Un puro, semplice fatto. Da quando sono uscito dall’ospedale niente è più stato come prima. Cioè, io ero ancora lo stesso di prima. Intendo, ehi, ciao, sono io, Gabriel! Ma lei ha preso a comportarsi come se fossi diverso. Ricordate che mi lamentavo sempre che mi stava troppo addosso? Bene, ora mi guarda a fatica. Da morir dal ridere, eh? È come se avessi fatto qualcosa di sbagliato ma nessuno mi dice cosa. E indovinate un po’? La mamma mi manca. Passo un sacco di tempo in camera mia perché mi sento meno solo che quando sto con lei. Incasinato forte, vero?

La mamma e il papà mi hanno detto che si separavano davanti a un gelato, un pomeriggio dopo la scuola. Era aprile. Sole come a giugno. Mi aspettavano entrambi all’uscita. Avrei dovuto capire che c’era qualcosa che non andava.

Ho ordinato un lampone split con granelle extra, e loro due caffè. Sono secoli che ho smesso di cercare di capire gli adulti.

«Gabriel» è partita la mamma. «Sai che ti vogliamo entrambi molto bene.» Ma non mi dire.

«Questo non cambierà mai» ha aggiunto il papà, ma il suo linguaggio del corpo non era affatto convincente. Per distrarmi, mi sono concentrato sulle strisce di succo di lampone sul gelato alla vaniglia, piccole baie e fiumi di sangue.

«Il fatto è questo, mammina e papino pensano che sia meglio se non vivranno più insieme.»

Non li chiamo “mammina” e “papino” da una vita, il che mi ha fatto sperare che stessero tipo leggendo un copione al pubblico sbagliato.

«Capisci quello che stiamo dicendo, Gabriel?» La mamma parlava con una lentezza esasperante, neanche fossi completamente rimbambito.

«Hanno messo troppo lampone nel gelato. Avevo chiesto solo una spruzzata.»

Il papà mi ha allontanato la coppa. Spazientito. «Non cambierà niente, non per davvero. Puoi venire a stare da me per metà del tempo. Puoi sceglierti il letto e possiamo ancora andare insieme alle partite.»

«Basta col calcio. Te l’avevo detto.» La scorsa stagione siamo andati una volta a Highbury e c’era così tanta gente che Alf è andato giù di testa, si è messo a sbraitarmi contro, e alla fine ho chiesto al papà di riportarmi a casa.

«Okay, niente calcio. Puoi decidere tu. Possiamo fare tutto quello che vuoi.»

«In tal caso, mi piacerebbe che voi due rimaneste a casa insieme.»

«Questo non è possibile.»

«Quindi mi hai mentito?»

«Eh?»

«Hai detto che potevo avere tutto quello che volevo e adesso dici che non è così.»

«Per favore, Gabriel, non renderla più difficile di quanto non sia già.» La mamma si è allungata a prendermi la mano.

Tenersi la mano non migliorerà la situazione.

«C’è qualcosa che vuoi chiederci?»

Ci ho pensato su un attimo.

«Hai un’altra donna?»

«Gabriel!» La mamma ha cacciato un urlo, poi ha compensato mettendosi a sussurrare. «In questa storia non c’è nessun altro.»

Sbagliato.

C’è Alf. È tutta colpa sua.

Li avevo sentiti urlare la settimana prima. «C’è una parte di lui dentro mio figlio, come pensi che mi faccia sentire?»

Prima non lo sapevo come li faceva sentire ma in quel momento, lì in gelateria, sì.

«Posso sbarazzarmene, se può tornare utile.»

«Sbarazzarti di chi?» ha chiesto il papà.

«Del fegato. Alf.»

«Oddio! Gabriel, ti prego.» La mamma si è portata la mano alla bocca. «Ti prego, non dirlo mai. Non è colpa tua.»

Al papà è sempre piaciuto il vino, ma prima non si trattava solo di sbronzarsi. Parlava di uve e vigneti e annate e annoiava a morte tutti gli ospiti con il suo far decantare e annusare. Adesso è soltanto tracanna più in fretta che puoi. Una bottiglia ed è mio padre, solo un po’ più strambo e bestemmiante. Due, e attacca a piangere. Questa sera a due ci siamo arrivati.

Si tratta sempre della mamma. Il papà parla di quanto la ama, dice che la rivuole indietro. Vorrei fargli presente che nessuno, e tanto meno la mamma, lo troverebbe attraente in questo stato. Ha i peli del naso lunghi un metro e l’alito puzzolente. Apre la terza bottiglia e capisco che siamo nella merda fino al collo. Adesso si mette a parlare di sesso. Non ci credo. Esiste qualcosa di peggio di mio padre che mi racconta del sesso con mia madre? Adesso ho in testa quest’immagine di loro due incollati, nudi, lui sopra, che scopano. Vorrei raschiarmela via dal cervello e saltarci sopra finché non va in frantumi ma è indistruttibile. Mia mamma. Mio papà. Mia mamma mio papà mia mamma mio papà.

«La volevano tutti, e io sono stato l’unico...»

«Papà, e che cazzo, piantala!»

Ammutolisce e mi guarda. Si era scordato della mia presenza. Stava parlando con la bottiglia. Se solo potessi trasformarmi in un fiasco di chiaretto, mi vorrebbe più bene. È questo il problema. Sono di troppo. A casa mia, a casa del papà. La mamma lavora fino a tardi, le nostre comunicazioni sono ridotte ai post-it. LASAGNE, TI VOGLIO BENE, BACI. Ha tempo per me quando sono nei casini. Come per l’incendio nel capanno del signor Wallerman qualche settimana fa. Il vecchio stronzo ha chiamato la polizia.

Gli sta bene, così impara a mettere pezzi di vetro nelle aiuole per tenere lontana Pudding. È vecchia adesso, e vederla dal veterinario mentre le metteva i punti alle zampe è stato orribile. Caro il mio signor Wallerman, ti è andata bene che non ti ho ammazzato.

Non che abbia spiegato la logica alla mamma. Non ci arriverebbe. «Devi fare le scelte giuste, Gabriel.» È il suo ritornello costante. Comunque, il risultato del cosiddetto “incidente del capanno” è stato che prima si è spolmonata per un’ora («Razza di stupido, cosa ti dice il cervello?»), e poi ha abbassato i toni per arrivare a una chiacchieratina a cuore aperto all’ora di andare a letto. L’attenzione è più calda delle fiamme di qualunque incendio.

Il papà mi sta ancora fissando come se fossi trasparente e vengo colpito da una sensazione che di recente mi assale spesso e volentieri: quella che potrei anche non esistere, mi sembra di venir risucchiato in un buco nero dove nessuno mi può vedere. Per dare a Cesare quel che è di Cesare, devo dire che il papà cerca di tirarmi fuori dal buco nero afferrandomi il braccio e avvicinandomi a lui. Gli sorrido e penso che stia per dirmi qualcosa di gentile, tipo “Stai bene?”, ma quello che invece gli viene fuori è «Manonerolunicovero? Tuneseilaprova». So cosa significa ma non voglio saperlo. Lo so. Non lo so. Mi libero dalla sua stretta e mi rituffo a corpo morto nel gorgo profondo dove non devo far fronte a quello che mi ha appena detto.

Non ricordo di essere arrivato alla porta. Sono a casa di papà e poi non ci sono più. Sono per strada, diretto al Common. Alf è sveglio. Gli piace il melodramma. “Nasconditi” mi dice. “Stanno venendo a prenderti.” Non mi spiega chi starebbe venendo a prendermi, ma gli ubbidisco. Inutile contrariarlo. Non è piacevole averlo contro. Rasento le macchie buie dei cespugli dove la luce dei lampioni non riesce ad arrivare. Alf è con me, mi sbraita le istruzioni. “Tre passi a sinistra. Avanti dritto per dieci passi. Attenzione! Uomo Nero a destra. Ritirata. Scappa!”

È a questo punto che gli finisco dritto addosso.

Un gruppo di ragazze e ragazzi. Più vecchi di me, tutti ammucchiati. Se avessi guardato avanti li avrei visti, ma avevo gli occhi inchiodati a terra, a contare i passi, eseguire gli ordini. Inciampo in una ragazza che si rivelano due persone fuse insieme.

«Ahi!»

«Cazzo fai, amico?»

Il tipo si alza, viene verso di me. Faccio per darmela a gambe. Un altro mi blocca la strada. Fantastico, sono finito dritto davanti all’Uomo Nero.

Colpa di Alf. Lo mando affanculo.

«Cos’hai detto?» Un tipo enorme si alza in piedi, gonfia il petto a mio beneficio.

Alf sta ancora urlando, strilla come un invasato. Sta per esplodermi la testa. «Taci. Taci. Taci, cazzo!»

Il colosso crepa dal ridere. «Ragazzino, tu hai bisogno di una bella lezione.»

È proprio di fianco a me, mi tasta la giacca. È nuova. Quella che mi sono preso con le mance del compleanno. Nike. Un fruscio sul bavero.

«Bella.»

«Grazie.»

«E pure i jeans. Diesel, wow. Perché non ti togli tutto, che dici?»

Non è esattamente una richiesta, visto che comincia lui stesso a sfilarmi il sopra, ma non prima di avermi alleggerito dello zaino e averlo svuotato sull’erba.

«L’orsacchiotto, che tenero.» Lancia Mr. Piddles a un compagno e si mettono a tirarlo in giro. Mr. Piddles vola di qua e di là, mi gira la testa nel tentativo di tenere traccia dei suoi movimenti.

«Via le braghette. Adesso. Altrimenti ti gonfio.»

«Via, via, via.» Si mettono a scandirlo in coro. «Via, via, via.» Mi si fanno intorno, troppo vicini. Sono circondato, ho il loro alito addosso. Mi divoreranno.

«VIA.»

Mi tolgo i pantaloni e poi le mutande.

«Ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah!»

«Ehi, esibizionista! I pantaloni, non i boxer! Quello non vogliamo vederlo.»

«Non che ci sia molto da vedere» grida una ragazza, sventolando il mignolino.

Il sudore mi cola giù per le gambe. Si è aperto un varco nel cerchio e mi ci fiondo. Corri corri corri corri grida Alf. Schizzo fuori dal parco e mi lancio in una traversa. C’è una donna che risale la via, mi nascondo dietro un’auto così che non mi veda nudo. Ancora qualche passo, forza, dai che va... un attimo. No! Sta aprendo la cazzo di macchina, quella dietro cui sono nascosto. Sale. Accende i fari. Devo saltare fuori, altrimenti mi stende. Spero di riuscire a essere abbastanza veloce che non mi veda.

«PORCA... Oddio!»

I fari lampeggiano. Le serrature scattano.

Agito le braccia per aria per farle capire che sto solo andando a casa e non ho cattive intenzioni ma sono un sacco di informazioni da comunicare solo con le mani e a giudicare dalla sua faccia non credo abbia capito. Non aspetto di scoprirlo. Ho freddo e sono solo e so che ci sono balordi da tutte le parti ma non ce la faccio più a correre. L’asfalto mi ha scorticato tutti i piedi e l’aria della sera mi pizzica la pelle. Alla fine non devo camminare tanto perché in fondo alla via c’è un’auto con i lampeggianti e due uomini saltano fuori e mi spingono dentro.

Voglio la mamma. La mamma non viene. È chiaro che il suo primo pensiero nel sentire che sono finito alla stazione di polizia non è “Ci dev’essere stato un terribile errore”, ma “Che effetto farà?”. Ecco perché manda la sua emissaria Camilla anziché venire lei. Camilla era la sua consulente speciale quando la mamma era al gabinetto (sì, lo so che in questo caso ha un significato diverso, ma sul serio, era troppo complicato inventarsi un altro termine?). Se ne occupa lei perché la sua specialità è trasformare una crisi in un trionfo, è una vera arma letale. Inutile dire che in questo caso il bersaglio non lo vede manco col cannocchiale perché sì, okay, è brava, ma non così brava. Sempre crisi resta, anche se viene declassata a mero “incidente”, e io vengo spazzato fuori dall’uscita posteriore e cacciato dentro un’auto in attesa, con addosso vestiti che non sono miei.

La mamma mi sta aspettando quando arrivo a casa, il disappunto fatto donna. Ho bisogno che spalanchi le braccia così da potermici tuffare, invece le tiene ben chiuse e inchiodate sul petto.

«Non sono stato io» esordisco, e lei mi lancia un’occhiata diffidente come a dire “I tuoi vestiti hanno preso su e se ne sono andati da soli?”.

«Hanno frainteso.»

Cerco di spiegarle di papà che era ubriaco perso e del buco nero e della gang nel parco e di Alf che mi inveiva contro e che poi mi sono nascosto dietro l’auto di quella donna proprio per non farmi vedere nudo ma esce tutto insieme, un macello.

«Siediti» ordina la mamma.

Camilla ci porta il tè e aspetto che se ne vada finché poi non noto che le tazze sono tre e si è seduta anche lei, con tanto di bloc-notes e penna. A quanto pare dobbiamo sviscerare per benino la vicenda, tirarne fuori una storia più adatta in caso arrivi alle orecchie della stampa. Questo minimo storico personale non è più solo mio. È un imbarazzo politico, che deve essere gestito.

La maggior parte della chiacchierata mi entra da un orecchio ed esce dall’altro, ma due punti mi arrivano forte e chiaro.

1. Mamma che dice: «Cristo, Camilla, che impressione farà?». Prima di chiedermi come sto. Prima di chiedermi se ho bisogno di qualcosa o abbracciarmi o anche solo guardarmi negli occhi. (Per la cronaca, Camilla risponde: «Non ti preoccupare, affosserò tutto», come se io fossi un parassita che va sterminato e sepolto bene in basso.)

2. Mamma è convinta che lo abbia fatto davvero. E sì, so di non averla raccontata proprio benissimo, essenzialmente perché la sequenza della serata è uscita tutta fuori sincrono, ma il punto principale è che dà per scontato che io sia capace di un gesto del genere. Mia. Madre.

Il che porta alla domanda: chi cazzo pensa che io sia?

Qualche settimana dopo l’“incidente”, mamma mi blocca in camera mia. Ho ricevuto una diffida dalla polizia. La donna davanti cui mi sono “esibito” minaccia di rivolgersi alla stampa, anche se a me mamma non l’ha detto. Ho sentito Camilla che lo diceva a lei. Ho il sospetto che la chiacchierata che vuole fare adesso verterà su variazioni del tema: “D’ora in poi devi rigare dritto, Gabriel”.

«Gabriel, dobbiamo parlare» attacca.

Eccome.

Sospira come se la stessi sfiancando. «Ancora non mi hai spiegato perché te ne andavi in giro nudo.»

«Mi hanno preso i vestiti!»

«Chi?»

«Quelli nel parco.»

Sono consapevole che la mia descrizione della gang non è proprio all’altezza degli standard di CSI Scena del crimine, ma scusatemi se in quella situazione non sono riuscito a memorizzare tutti i loro segni particolari. Erano giovani, forse un po’ più grandi di me, ed erano tanti. E mi hanno preso per il culo (le parolacce, Gabriel!).

Passa a un tono gentile, della serie “sono pronta a crederti”. «Gabriel. Puoi dirmi la verità. Mentire non ti aiuterà.»

Sento un piccolo sibilo. È aria. Esce da me. Il dubbio di mamma è un ago appuntito, mi ha bucato la pelle.

Non so perché il suo sguardo fa scattare la rivelazione. Gliel’ho già visto prima. Ma questa sera i miei recettori sensoriali sono più svegli del solito, colgono il significato e me lo inviano a tutta velocità nel cervello. Non sono io. È lei. Per la prima volta, vedo l’intero quadro in technicolor. Nel profondo c’è qualcosa che ha bloccato il suo amore, la sua fiducia, la sua fede in me. Cerca il peggio perché non riesce a scuotersi di dosso la sensazione che ci sia qualcosa in agguato sotto la mia pelle, nascosto nel mio nucleo. Un’oscurità. Mi ha sempre tenuto d’occhio quando ero piccolo, pronta a saltarmi addosso se facevo qualcosa di sbagliato.

Ma ecco cosa non ha capito. Se cerchi qualcosa con abbastanza accanimento, è probabile che lo troverai.

La scuola inizia a essere un problema. Il rumore è eccessivo per Alf, e con lui che mi urla nella testa io non riesco a concentrarmi sulle lezioni. La mamma non capisce. Mi fa saltare giù dal letto, mi dice di vestirmi. Entra in camera mia con una faccia che è tipo: “Hai fatto almeno una doccia in tutta la settimana?”. La risposta è no. Non voglio farla, perché non voglio togliermi i vestiti. Sono un piccolo pervertito, spaventato da quello che potrei fare.

Non appena esce per andare al lavoro, me ne torno a letto. Oppure vado in cucina a farmi un tramezzino con il ketchup ma non ci sto molto. Non posso attardarmi troppo fuori dalla camera perché ad Alf non piace. Comincia a emettere questo verso strano, tipo le volpi che si accoppiano di notte, mezzo bambino, mezzo animale. Se sto fuori due minuti, allora è okay. Ma qualunque prolungamento, diciamo due minuti e un secondo, e via, parte. Poi devo parlargli per ore per calmarlo. Gli piace quando facciamo musica e io canto, e fin qui va bene perché cantare mi piace. Non che condivida sempre le sue scelte, però. È un fan di Freddie Mercury. Mi fa stare secoli a cantare Don’t Stop Me Now, roba da restarci secchi, ma di tanto in tanto, quando è tranquillo, riesco a infilarci qualcosa che mi piace.

Un giorno mi sto godendo un momento di pace – Alf è addormentato – quando di sotto suona il campanello.

È una ragazza. Una giovane donna. Timida.

«C’è nessuno in casa?»

«Ci sono io.» Non è intelligente come sembra, quindi.

«Gabriel?»

«Sono io.» La conversazione sta diventando un po’ ripetitiva. «Sei dell’ufficio della mamma?»

«Ti dispiace se entro?»

Sto per dirle che sì, mi dispiace, ma lei è già in corridoio.

«Niente scuola?»

«Non stavo bene, mi hanno mandato a casa.» Non vorrei che riferisse alla mamma che ho marinato la scuola. «Posso offrirti qualcosa?» Grazie al cielo dice di no.

«Quest’anno hai gli esami?»

«Già.»

«In tal caso non vorrai perderti troppe lezioni.»

«E infatti dovrei tornare su. A fare un po’ di compiti» aggiungo per mettere avanti le mani. «Ascolta, la mamma non tornerà ancora per un bel pezzo.»

«Conosci una donna che si chiama Rose Waterford?»

«Macché.»

«Eppure l’hai incontrata.»

«Davvero?»

«Qualche settimana fa, una sera, stava...»

So dove sta andando a parare. Non so chi sia questa ragazza, ma so chi non è. Sento il resto della frase prima che la pronunci. SALENDO. IN. AUTO.

«E tu eri...»

NUDO.

«Hai detto che lavoravi per mia madre.»

«No che non l’ho detto.»

«Chi cavolo sei?»

«Una reporter del “Sunday Herald”. Sarebbe bello poter sentire anche la tua campana.»

Sento Alf che si agita, brutta cosa quando si sveglia. Finisce sempre male. Provo a sussurrargli di stare calmo, lo imploro di non peggiorare la situazione, ma non è un grande ascoltatore.

BUUU! La rincorre, le grida in faccia. BUUU! BUUU! BUUU!

La ragazza che non lavora per mia mamma non è più tanto compiaciuta, ora. Tutt’a un tratto, la mia campana non è più così interessante. Se la dà a gambe.

Vorrei spiegarle che è stato un errore. Sono stato aggredito, derubato. Sono io la vittima. Ma è troppo tardi. Alf l’ha terrorizzata.

«Sei fuori di testa!» mi urla andandosene.

Eh, già.

Non voglio stare sui giornali. Non voglio stare in questa casa, non voglio stare nella mia vita. Mi precipito di sopra, mi nascondo nel piumino ma sono ancora qui. Non va bene.

Alf mi chiama alla finestra, vuole che lo segua di fuori, sul tetto a terrazza. Siamo all’ultimo piano, il terzo. Da qui la vita è persone e autobus e automobili giocattolo che si muovono lungo i binari della città. Nessuno arriva mai da nessuna parte, continuano soltanto a saettare avanti e indietro, i pullman che li risucchiano e poi li rivomitano così che possano andare a casa con quelle loro terree facce da impiegati e rifare esattamente la stessa cosa il giorno successivo. Ecco la vita.

È questo che vuoi?

Il tempo si scinde. Lì sotto, sui binari, è un continuum. Noi lo abbandoniamo ed entriamo in un altro tempo, più sicuro, un tempo in cui nessuno ci può toccare. Lì sotto è una trappola. Lì sotto sono domande e insulti e gente che mi fissa e mi mette le mani addosso e mi dice cosa sono, chi sono. Cattivo. Marcio. Fuori di testa.

Il colore gocciola dal cielo. I lampioni sparano acide luci stroboscopiche. Dentro mi monta il fuoco. Ogni singolo poro diventa una specie di sensore. La mia testa assorbe tutti i rumori che salgono da sotto e me li pompa dentro. Raggiungo il bordo. Il vento mi alza le braccia verso il cielo come se mi stesse mostrando cosa fare. È del tutto naturale. Da un secondo all’altro il vento mi porterà via da tutto questo. Mi farà volare.

Ecco, ci siamo.

Alt. Qualcuno mi sta strattonando. È ora di andare. Ma mi tirano dalla parte sbagliata, via dal cielo, via, via, via.

«Non ci riesco. Non riesco.» Non so cos’è che non riesco più a fare. Le mie parole hanno senso solo per se stesse.

«Gabriel.» Il mio nome è morbido. Ci affondo come in una coperta calda. «Gabriel.» Qualcuno mi stringe a sé. Questo profumo. È la mamma. Non mi lascerà andare. Non voglio che mi lasci andare.

«Non ci riesco.»

La mia testa perde pensieri che vanno a sfarfallare per la stanza e la mamma mi tiene forte perché non perda pezzi anch’io.

«Aiutami.» Sto piangendo perché non capisco cos’è che le sto chiedendo di fare ma va bene Gabriel, va tutto bene. La mamma lo sa. Non hai bisogno di dire altro.

«Non preoccuparti. Ti aiuterò.»

La storia non esce. Non sul «Sunday Herald». Né da nessun’altra parte. Nessuno nomina più Rose Waterford. «Cos’hai fatto?» chiedo alla mamma.

«Niente.» Sta mentendo. La mamma non è una mamma qualsiasi, lei è stata il cazzo di ministro dell’Interno (prima che perdessero le elezioni). Lei può far succedere le cose.

Ma ecco il punto. Sono felice che abbia sistemato tutto. Però vorrei che non l’avesse fatto per evitare lo scandalo e la vergogna e le ripercussioni. Vorrei che l’avesse fatto perché sapeva che non era vero.

Peccato.

La mamma è una donna potente. Può fare ogni genere di cose, ma proprio non ce la fa a credermi.