Sabato 15 novembre 2014

Gabriel, 30 anni

Per quante donne mi scopi, non riesco a trovare quello che cerco. Di fatto temo sia vero il contrario, più ne scopo e meno è probabile che lo trovi. Dove “lo” sta per “l’amore”. Via, l’ho detto. Voglio essere amato. Patetico, vero? Un uomo di trent’anni che brama l’affetto che la mamma non gli ha mai dato. Non credereste a quanto ho sborsato per farmi dare questa dritta, e non è cambiato un tubo. Non mi sono avvicinato di un millimetro a trovare il mio Santo Graal.

I giornali mi definiscono “donnaiolo”, “casanova” o “trombatore seriale” (quest’ultima è dello «Star»), ma ciò che non sanno è che all’inizio di ogni mia storia c’è – e sono sincero – la fiammata della speranza, il potrebbe essere lei. E sì, sono consapevole che le probabilità di trovare qualcuno di speciale in un bar di Soho all’una del mattino spaziano da esigue a inesistenti, ma il romantico (o l’etilista) che è in me ignora la legge delle probabilità e si lancia a tutto vapore. La speranza ha sempre vita breve. Di norma dura cinque minuti o giù di lì, a volte anche meno. A volte basta la prima parola di lei ad ammazzarla, ma io tiro dritto, guidato dal mio uccello.

Questa sera lei si chiama Mariela. Siamo in un sushi bar di Hampstead, messo giù come un boudoir. I pochi amici che mi ci hanno accompagnato sono al ventesimo giro in bagno, dove si sniffano il meglio della Colombia dalle tazze del cesso in porcellana. La vedo scegliermi nel mucchio, lo sguardo che mi marchia a fuoco, e quando mi lancia un sorriso sono già una causa persa, un prigioniero, spianato dal desiderio. Lunghi capelli lucenti e un abito rosso scollato sulla schiena. Allungo un braccio come volessi farle correre un dito lungo la spina dorsale.

Ti prego, fa’ che sia quella giusta.

No che non è quella giusta. Lo deduco quando cerca di calarmi i pantaloni per la strada come se fossi talmente figo che non riesce a resistere un secondo di più. Sempre favorevole a venire incensato, per carità, ma nel mio stato attuale, con alle spalle dieci ore filate in studio, è difficile che io sia anche solo guardabile, altro che l’irresistibile maschio trasudasesso che lei sta fingendo che io sia. È tutta una farsa, lo so, ma una volta superata la delusione ci sono delle consolazioni, tipo il fatto che sa accarezzarmi l’uccello in modo davvero esperto.

«Andiamo a casa tua» propone. Di norma preferisco gli alberghi, ma stasera a decidere è il mio arnese. E lui risponde sì, certo, tutto quello che vuoi.

Come previsto Mariela è irruente, tutta unghie e morsi. Vuole il sangue, e sorride quando se lo lecca dalle labbra. Maniere forti. Vuole Gabriel Miller la caricatura sessuale e sono abbastanza fatto da diventarlo. Le do quello che vuole, e poi glielo ridò. A volte mi chiedo come faccio.

Dopo, quando il suo respiro rallenta in un sonno profondo, ricordo perché preferisco ricorrere alle camere d’albergo. Posso levare le tende quando mi gira, il che di solito è nel bel mezzo della notte. Il sonno non mi è molto amico di questi tempi e non c’è niente di peggio che starsene distesi ad ascoltare i sogni di qualcun altro quando non ne hai di tuoi.

Non definirei la fuga una linea di condotta imprescindibile, più un’abitudine. Sappiamo entrambi che si tratta solo di sesso. Non spezzo nessun cuore alzando i tacchi prima dell’alba.

Decido di farmi due passi all’Heath, adoro quel parco. Lasciare che si svegli da sola, che capisca l’antifona. Potrebbe ripulirmi di tutto, ma sinceramente, se vuole prendersi la macchinetta del caffè o la Xbox faccia pure, tanto di guadagnato. Ho bisogno di spazio in testa. Non voglio che mi si ricordi chi sono diventato.

Esco lanciandole un’ultima occhiata. Sembra tranquilla.

Cammino a lungo per battere le droghe che mi inseguono da dentro il mio organismo e mi indirizzano i pensieri nel settore “terrore e catastrofi”. Devo continuare per chilometri. Nel cielo è comparso il primo bagliore dell’alba quando mi dirigo verso casa. Solo che non vado a casa, vado all’orto di Elsie. Nel suo capanno. È tranquillo qui, pacifico. Elsie ha settantun anni e per lei sono semplicemente Gabriel. Non è proprio un’esperta di cultura popolare. Lei mi dà pomodori e fagioli di Spagna. Io le do tempo e chiacchiere. Lei sa che vengo qui quando non riesco a dormire, è l’unico posto in cui posso chiudere gli occhi e trovare pace. E io so che lascia una chiave di riserva nell’angolo dove pianta le zucchine. A lei non importa che io tenga il capanno sempre ben rifornito di vino rosso. E a me non importa che lei ne beva più di me. A pensarci bene, credo che Elsie sia la mia migliore amica.

Come sempre, mi avvolgo nella coperta che tiene nel capanno, bevo un po’ di vino e mi assopisco. La mattina sta ormai cancellando il buio quando lascio l’orto e torno a casa. È vuota, Mariela è andata. Cambio le lenzuola, faccio la doccia e mi infilo a letto. Dormo a singhiozzo.

Mi sveglia la luce intensa che filtra dagli avvolgibili. Mi metto qualcosa addosso e decido di dare un occhio all’orto, assicurarmi di non avere lasciato in giro bottiglie vuote o cicche.

Vedo Elsie in lontananza, ma non posso avvicinarmi. È circondata da poliziotti, c’è anche un’ambulanza. È avvolta in una coperta, sembra un sudario. Sarà caduta? No, non Elsie. C’è qualcos’altro.

Hanno tirato su una tenda in un angolo dell’orto. Bianca, non del tipo che si usa per costringere le fragole a crescere fuori stagione. Tizi in tuta bianca si muovono qua e là con passo felpato.

«Un cadavere» commenta qualcuno nel capannello che si è formato.

Tutto quello cui riesco a pensare sono i pomodori di Elsie, la polpa rossa, succosa. Povera donna. Magari i cavoli sono meglio.

Mi viene un conato, lo soffoco.

Bussano alla mia porta. Due agenti in divisa. Routine, dicono. «Ha visto o sentito niente la notte scorsa?»

«No.»

«Era solo?»

«Sì.» Non è del tutto una bugia. Sono stato solo per parte della notte.

«Usa mai gli orti?»

«Conosco Elsie.»

«Ah, sì?»

«Sì, l’ho appena detto. È un’amica. A volte le do una mano.»

«Lei è Gabriel Miller, giusto?»

«Esatto.»

«E dà una mano a un’anziana con l’orto?»

Perché è tanto difficile da credere?

«Cos’è successo?»

«Questa mattina, la sua amica Elsie ha trovato il cadavere di una giovane donna nell’orto.»

«Capisco.»

«Capisce?»

«Voglio dire, è orribile. Povera Elsie.»

«Non è andata tanto bene neanche alla vittima.»

Guardo il notiziario. Vorrei non averlo fatto.

C’è una fotografia. È diversa, ma non così diversa da impedirmi di riconoscerla. Mariela. Castell. Ai cognomi non eravamo arrivati. La mente mi si incrina, si spalanca e tutti i miei pensieri si riducono in frantumi tanto minuscoli che niente ha senso.

Sono stato io?

Abbasso gli avvolgibili, prendo carta e penna e scrivo tutto ciò che è successo.

L’ho portata qui.

Abbiamo scopato.

Sono andato via.

Ho camminato per l’Heath.

Sono andato al capanno di Elsie.

Ripercorro ogni mio passo in cerca di qualcosa che potrebbe essere sfuggito al mio io cosciente, un brandello di violenza, la sua ombra che mi segue. Avanti e indietro, avanti e indietro. Niente. Ma perfino in questo stato, con i pensieri a pezzi che vagano per la stanza, uno continua a ripresentarsi tutto intero. Te la sei scopata e adesso è morta. Defunta nell’orto dove ieri notte sei stato per ore.

Pomeriggio. Apro una bottiglia di vino per darmi una calmata. E un’altra. È sempre stata un’impresa.

A un certo punto squilla il telefono, una voce femminile. «Signor Miller? Qui è il sergente Marek.» Non sta a girarci intorno. «Dovrebbe venire alla stazione di polizia di Camden per qualche domanda, domani a mezzogiorno.»

È solo questione di tempo. Le cicche delle mie sigarette saranno nel capanno, la bottiglia di vino. Il mio sperma dentro lei.

Le ore volano. Il sonno è una prospettiva troppo lontana per stare a contemplarla. Se dormo, sono vulnerabile. Ma non posso restare in casa. Chiamo un taxi. D’istinto, dico all’autista di portarmi a Clapham Common, dove cammino spedito per le strade, senza meta, o così penso. Mi fermo davanti a una casa.

È casa sua.

Era questa la meta.

Certo che lo era.

E tutto ciò che conta è che mia madre mi creda.

Se non ho questo, cos’altro mi resta?