Charlie
«Cazzo, hai visto che macchina?»
«Impossibile che stia aspettando noi.»
«Be’, di certo non è il fidanzato della signora O’Dowd, ti pare?» L’idea ci fece sbellicare dalle risate.
Avevamo trascorso giorni interi a rivisitare quel che era successo il fine settimana precedente, eccitate come non mai. Era come se il fardello si fosse alleggerito, come se quel legame con il mondo esterno rendesse tollerabile persino la Kelmore, o almeno la portasse entro il limite dell’umana sopportazione. Ballavamo di continuo, a lezione, in refettorio. Ballavamo perfino nel sonno.
«Avete intenzione di tenerlo ad aspettarvi tutto il giorno?» La signora O’Dowd scivolò alle nostre spalle come un fantasma apparso dal nulla. «Andate, su, e ragazze...»
«Sì?»
«Non fatemi vergognare di voi.»
Due lattine d’aranciata ci accolsero sul sedile posteriore. Di fianco, una confezione maxi di caramelle. Ci tuffammo a pesce. Eravamo troppo intente a ingozzarci per notare subito che avevamo superato la deviazione per il centro città e il teatro in cui avevamo provato la settimana precedente.
«Ci stanno rapendo!» urlò Bex d’un tratto. «Aiuto, aiuto!» Incollò le mani al finestrino e vi premette la faccia, nitrendo per le risate.
«Sei matta come un cavallo.»
Tra la musica a manetta e il divisorio di vetro, l’autista non ci sentì quando gli chiedemmo dove ci stava portando. Non che la cosa ci importasse. Se la tua vita è la Kelmore, sogni di venire rapita.
Passammo il tempo ballando, esercitandoci nelle mosse per le braccia sulla melodia di Vogue mentre passava alla radio, gonfiandoci i capelli stile cotonatura quando toccò a Cher con If I Could Turn Back Time, facendo vorticare il busto quando fu il momento di French Kiss di Lil Louis.
Arrivate alle stradine di campagna, cominciavamo ad annoiarci. Tutte quelle caramelle ci erano rimaste sullo stomaco. Bex era sbiancata. «Soffro il mal d’auto.»
«E me lo dici adesso?»
La prima immagine della villa ci mozzò il fiato. Era enorme, svettava tra gli alberi.
«Oooh!»
L’autista aveva abbassato la musica. «È un albergo?» si informò Bex.
«No.»
«Sono l’orfanella Annie che arriva nella cacchio di villa di Daddy Warbucks» mormorai.
«Vorrei che non avessimo mangiato tutte quelle caramelle» biascicò Bex.
«Energia. Le bruceremo tutte.»
Le bruciammo. Ballammo tutto il giorno. C’era Camille, manco l’ombra di un sorriso come suo solito. Ci mise insieme a un gruppo di altre quattro ragazze. Ho detto insieme, ma in realtà avrei dovuto dire che ci lasciò a ronzare lì intorno, mentre quelle bisbigliavano tra di loro e ridacchiavano quando facevamo casino.
«Ignorale» disse Bex.
«Stronze, hanno paura della concorrenza.»
Di quando in quando Greg faceva capolino dalla porta e guardava qualche sequenza, le braccia conserte, gli occhi strizzati per la concentrazione. Ci studiava con grande attenzione, noi e il modo in cui ci muovevamo. Era evidente che si preoccupava per noi, voleva che andassimo bene. Era bello avere qualcuno che pensava a me, per una volta. Tutto quell’interesse mi costrinse a dare il meglio. La musica sollevava il mio corpo e lo spingeva in posizioni che non sapevo fosse in grado di adottare. Anche Bex aveva preso vita. Il problema con Bex era che i suoi occhi spesso sembravano morti, come se avessero visto troppo. In quel momento invece brillavano, sfavillavano. Non c’era limite a ciò che potevamo fare.
«Non mi dite che siete già distrutte?» Greg ci aveva trovate nel corridoio, appoggiate al muro. Ero sfinita. «Questa sera avete uno spettacolo.»
«Uno spettacolo? Non torniamo indietro?»
«No, restate fino a domani. Non lo sapevate?»
No. La signora O’Dowd non ci aveva comunicato i dettagli.
«Di sotto c’è da mangiare. Fate il pieno e poi buttatevi in doccia. Curtis ha ospiti questa sera, finanziatori per il musical, industriali. Dovete fare colpo.»
«Ma abbiamo portato solo i leggings.» Bex sembrava in preda al panico. Il pensiero di doversi esibire la mandava all’altro mondo.
Greg ci sorrise. «Non preoccupatevi. Abbiamo pensato noi a tutto.»
Eravamo abituate a usare solo cosmetici da due soldi, quella robaccia arancione che ti cancella i lineamenti, ma lì eravamo a tutt’altro livello: il trucco ce l’avrebbe fatto una professionista. Si presentò come Anouk, aveva un accento talmente marcato che mi venne mal di testa a cercare di decifrare quel che diceva. Rimasi incantata da come lavorava sul mio viso, incitando gli zigomi a farsi notare, ingrandendomi gli occhi con kajal e ciglia finte, regalandomi labbra rosso ciliegia. Mi raccolse i capelli, facendomi la riga di lato. Se non fosse stato per il mascara, avrei pianto di felicità. Ero un’altra. Volevo che questa nuova me prendesse il sopravvento e rimpiazzasse Charlie per sempre.
Mi profusi in mille ringraziamenti ad Anouk, ma lei mi scansò e passò alla ragazza successiva.
Bex era già in camera quando tornai. Neppure lei sembrava più Bex. «Ma ciaooo!» mi accolse.
Camille ci aveva lasciato dei vestiti sul letto. Anni Venti, in seta, uno rosso, uno nero.
Entrambe facemmo chiudere gli occhi all’altra perché fosse una sorpresa.
«Uno. Due. Tre. Aprire!»
«Ommioddio!» esclamò Bex. «Chi l’avrebbe detto che eravamo tanto splendide?»
È questo ciò che ricordo di quella prima sera: l’essere vista; la sensazione elettrizzante di quegli occhi addosso. La Kelmore ci aveva insegnato a farci piccole, aveva addestrato i nostri corpi a scusarsi per la loro presenza a suon di spalle basse, teste chine, sguardi a terra. Avevamo imparato a occupare meno spazio possibile. Nessuno voleva sentirci o vederci, altrimenti perché ci avrebbero nascoste in un fatiscente edificio vittoriano a chilometri e chilometri da ogni forma di vita?
Ora le nostre mani si protendevano all’insù e si allargavano all’infuori e si meravigliavano di tutto lo spazio che c’era. Le schiene si raddrizzarono, sorprese che potessimo essere tanto alte. Eravamo al livello delle persone riunite davanti a noi, ci inebriammo dei loro sorrisi. Eravamo state invitate. Ci volevano. Gradivano ciò che vedevano. E la danza, quando arrivò il nostro turno, prese forma quasi senza bisogno di pensare o di istruzioni.
Fu naturale. Noi eravamo quello. Ogni molecola d’aria che sfioravamo ci eccitava, ogni passo che muovevamo a tempo rendeva più aperti i nostri sorrisi. In quei dieci minuti sul palcoscenico sentimmo il futuro sbocciare, il passato allontanarsi.
Gli applausi. Ricordo anche quelli. Mi riverberarono dentro, accesero ogni terminazione nervosa. Gli occhi di Bex incontrarono i miei, più luminosi della luce. Il mondo aveva cambiato colore.
Qualcuno mi cacciò in mano la mia prima flûte di champagne. E un’altra. E un’altra. Le svuotai in fretta, come fossero gazzosa, mentre venivo presentata in giro da un uomo di cui non ricordo il nome ma che era tutto una lode al mio ballo. «Questa è Charlie» diceva, e poi una persona nuova mi baciava la mano o la guancia. Che gentiluomini, ricordo di avere pensato. L’odore adulto di dopobarba, legno di cannella, sigarette, champagne ne addolciva gli aliti.
A un certo punto, la stanza cominciò a vorticarmi intorno. Le luci si abbassarono. I miei occhi cercarono Bex ma non riuscivo a mettere a fuoco, e quando li chiusi nastri gialli e aranciati e rosa mi danzarono sotto le palpebre.
«Sei stata fantastica» disse una voce maschile alle mie spalle. Non la riconobbi, ma le sue braccia sulla vita mi fecero pensare che mi conoscesse. I suoi occhi mi accarezzarono ogni curva. «Ma guardati.» Cercai di seguire il suggerimento e abbassai lo sguardo su me stessa, ma il gesto mi fece perdere l’equilibrio. Gli crollai addosso.
«Scusa!»
«Non c’è bisogno di scusarti.»
Mi guardava in un modo che mi confondeva. E poi ricordai che quella sera ero una persona diversa. Charlie Pedlingham dalla Kelmore era ancora in camera a nascondersi sotto una felpa con cappuccio e un paio di leggings. Io ero una donna, truccata, elegante. Al limite della magnificenza. Una star in erba. Il pensiero mi fece sentire leggera. Leggera e libera.
«Sono Curtis» si presentò lui. Allora lo riconobbi, dal teatro, e mi domandai perché tra tutte le persone che c’erano in quella sala avesse scelto di parlare con me.
«Tu hai quel certo non so che» mi sussurrò.
A quella lode presi vento, mi sentii sollevare sulle ali della musica.
«Mi piacerebbe rivederti.»
Come rispondere? Mi sfuggì una risatina nervosa e cercai di mettere insieme qualche parola alla bell’e meglio per dare vita a una frase sensata.
Lui intercettò un uomo che ci stava passando accanto. «Henry, amico mio, vieni qui. Non pensi anche tu che Charlie sia magnifica?»
Henry mi si fermò di fronte. Aveva l’aria del tipo d’uomo che per mettersi sportivo si toglie solamente la cravatta. Il viso era arrossato dal caldo. Mi baciò su entrambe le guance.
«Non potrei essere più d’accordo. Curtis ha gusti ineccepibili. Stagli incollata e andrai lontano.»
Fuori dal bagno, si materializzò Greg. «Sei stata magnifica, prima.»
Lasciai che il muro mi sostenesse. «Non sono abituata a bere.»
Rise, mi passò un dito sulla guancia. «È stata una lunga giornata.» Tirò fuori il portafogli e pensai che volesse darmi il denaro per il taxi, per tornare alla Kelmore. «Tieni. Per tirarti un po’ su. Non fare quella faccia preoccupata. Ti schiarirà le idee.»
Fissai la pillola che mi rotolava nel palmo. Sembrava semplice paracetamolo. «Sicuro?»
Ne alzò un’altra davanti ai miei occhi e se la posò sulla lingua. «Promettimi solo di non dirlo alla signora O’Dowd.» La sua risata mi convinse e fece ridere anche me, quasi avessi appena sentito la barzelletta più divertente della mia vita.
Una mano mi sospingeva avanti lungo il corridoio. Non era di Greg. Dov’era Greg? Aveva qualche importanza? Quella mano apparteneva a qualcun altro. Il mio corpo era fluido, fendeva la folla scorrendo come acqua. Piccoli bagliori di luce squarciavano l’oscurità. Brusii si accendevano e smorzavano chissà dove in quel dedalo di porte e stanze. Cosa mi aveva dato Greg? Non paracetamolo, come quello che ci dava l’infermiera quando avevamo i crampi per il ciclo. In infermeria non mi era mai capitato di sentirmi in quel modo. Era diverso anche dall’effetto dello champagne, quello mi aveva fatto sentire la testa pesante, mi aveva impastato le parole. Questo. Questo era leggerezza, mi aveva tolto ogni peso dal corpo, ero diventata un palloncino legato a un filo. Mi librai. Il calore mi si irradiò nelle ossa, mi zampillò nella mente, intere ondate che sciabordavano avanti e indietro. Mi ritrovai a sorridere. Niente aveva importanza tranne quel momento. Niente di niente.
Una porta si aprì e la mano mi guidò all’interno. La temperatura calò di un grado o due. L’aria più pulita, nessun altro che la respirava, solo io, la mano e il suo proprietario. Una luce umorale merlettava la stanza. Essere lì aveva un significato ben preciso. Me lo sentivo, ma quando frugai tra i pensieri in cerca di una risposta non trovai niente. Lo sforzo di riflettere era eccessivo. Chiusi gli occhi, mi abbandonai all’indietro e atterrai su qualcosa di fresco e morbido. La mano mi lambì, mi inviò un fremito lungo la gola, una scossa di piacere. E la risposta mi balenò davanti. Significava crescere. Stavo entrando in un mondo adulto, dove i contorni erano sfumati e c’erano regole tutte nuove.
Qualcosa mi nuotava nelle vene. Mi fluiva dentro. Il mio corpo era morbido, potevo allungarlo a piacimento. Mi portai la mano alla testa, non ci arrivavo, la fermai davanti agli occhi. Le mie dita tracciavano schegge di luce nel buio. Mi voltai e mi vidi riflessa in uno specchio. Non Charlie, ma la sua nuova versione.
Guardami, come sono cresciuta.
Volevo lasciarmi andare alla deriva, abbandonarmi al sonno. Mi stavano mettendo a letto? Era bello che qualcuno si occupasse di me. Le mani (due, ora) mi tolsero il vestito, levarono la biancheria. Non è necessario, avrei voluto dire. Posso dormire con l’intimo, e la signora O’Dowd ci ha raccomandato di fare le brave, di non farla vergognare, ma non riuscii a spiccicare parola. Troppo stordita.
Le mani mi sorpresero. Più rudi, presero a dispormi in una posizione che non volevo assumere. Gambe divaricate, braccia sopra la testa. Mi dimenai, cercai di spiegare che ero scomoda, per favore, mi sento parecchio strana. Solo che non riuscivo a parlare, perché sulla mia bocca c’erano delle labbra, e dentro una lingua. «Sstt» mi disse l’uomo non appena sfilò la lingua. «Rilassati.»
Rilassati. Come un’adulta. Ma certo non è normale che faccia così male. Il peso sul mio corpo mi fece affondare ancora più nel letto.
«Va tutto bene» garantì.
Davvero? Lui conosce le regole e io no.
Sta’ al gioco, impara le regole nuove.
Ci provai, ma quelle nuove regole mi ferivano la pelle, mi bruciavano dentro.
«No.» Non lo dissi abbastanza forte. Mi scostai.
Mi spinse di nuovo giù. «Su, su, adesso. Non fare la civetta, che prima provoca e poi si nega.»
Una civetta? È questo che sono?
Voglio solo dormire.
Ma non posso.
Mi sono spacciata per una versione diversa di me. Più adulta. Cresciuta. Lui vuole quella.
Troppo tardi per cambiare idea.
«Troppo tardi» mi disse. «Sono dentro.»
Durante il viaggio di ritorno non ci furono caramelle. In ogni caso, non penso che saremmo riuscite a mangiarne. Bex e io tenemmo gli occhi inchiodati fuori del finestrino mentre le stradine di campagna si trasformavano in strade a scorrimento veloce e ci riportavano da dove eravamo venute. Sapevamo che era cambiato qualcosa, lo sentivamo nell’aria, ma non era quello che ci eravamo aspettate e non ne parlammo. Alcune emozioni sono troppo complicate per metterle in parole.
«Vi aspetta un sacco di lavoro oggi, ragazze» disse Greg. Eravamo tornate al teatro. Lo spettacolo sarebbe stato di lì a sei settimane, ci aveva detto. Presumemmo significasse che avevamo avuto la parte. La mano di Greg si attardò sulla spalla di Bex, le scivolò sull’incavo della schiena. La reazione di lei, la riconobbi. Guance arrossate, nervosismo. Piacere e paura, in pari quantità. Cosa fare?
La giornata passò in un turbine di musica e ballo. Bex e io eravamo felici, questo è il punto. Avevamo intravisto uno scorcio di futuro, ci era stato spalancato davanti un mondo di opportunità nuove e non volevamo rinunciare a nulla. No, forse neanche alle attenzioni, a volte gentili, premurose, né a quegli sguardi che ci spogliavano, che erano comunque meglio rispetto alle occhiate indifferenti se non disgustate cui eravamo abituate.
Arrivò la sera, e con essa vassoi di cibo e bevande. Bex scivolò via. L’interesse di Greg si era concentrato su di lei. Immaginai quel che stava facendo, poi mi sforzai di togliermelo dalla testa. Una fitta di gelosia nello stomaco. Svuotai il bicchiere. Indugiai al margine del gruppo di ragazze. Mi voltai di colpo al suono della voce di lui.
«Eccoti qui» disse mentre i suoi occhi mi sceglievano nel gruppo.
Ancora speciale, dopotutto.
Mi portò in un’altra stanza.
«Voglio che balli per me.» Mi indicò una telecamera all’altra estremità della camera. «Dacci dentro.» Ubbidii. Non mi venne neanche in mente di non farlo.
Non danzai a lungo, qualche minuto o giù di lì, imbarazzata all’inizio, poi più sciolta, scaldata dal suo sguardo che si inebriava di me. «Andrai lontano» mormorò facendomi balenare davanti agli occhi le luci dei riflettori, la fama, la libertà. «Se lo vuoi. Lo vuoi?»
«Lo voglio.» Allora mi venne vicino. Più vicino. Mi spinse giù, si sbottonò i pantaloni e mi si infilò in bocca.
Abbassai le palpebre, non volevo vedere. Un’esplosione di luce dietro le ciglia.
C’era qualcosa che avrei voluto dire, ma le parole mi vennero ricacciate indietro, sempre più in fondo, sempre più in fondo. Non riesco a respirare. Non va bene. Sì che va bene. Rilassati.
Una volta sarebbe stata una botta e via, avrebbe fatto di me una puttana. Due volte significa che ci tiene davvero, la rendono una cosa speciale, no? No?
«Come va, ragazze?» ci chiese la signorina Reilly a lezione di netball. «Sembrate stanche. Vi trattano bene?» Bex e io ci guardammo. «Ragazze, se c’è qualcosa che non va potete parlarne con me, mi raccomando.»
«Va tutto bene, signorina.»
«Perfetto. Allora andate a cambiarvi.»
«Ecco, io preferirei evitare» rispose Bex. Avevo visto i lividi sulle sue cosce, la sera precedente. Non c’era verso che potesse indossare un gonnellino da netball.
«Mi spieghi qual è il problema?»
Bex scosse il capo. «In tal caso, cara, devi proprio cambiarti. Ti do cinque minuti, altrimenti sarò costretta a mandarti in infermeria.»
Non c’era via d’uscita. Infermeria significava una visita, e non poteva permetterselo. Suo malgrado, la mia amica si preparò per la partita. Maglietta, calzettoni, e per ultimo il gonnellino.
La guardai. «Stai bene?» Che domanda idiota. Era ovvio che non stava bene affatto.
«Ah, Bex, sono felice che tu ce l’abbia fatta!» esclamò la signorina Reilly quando ci vide entrare in campo. Un rivolo di sudore mi scendeva lungo la spina dorsale. Il sole, per lo più imbronciato dietro le nuvole, quando riusciva a fenderle picchiava forte.
Io giocavo da portiere e la nostra squadra stava vincendo, ragion per cui ebbi un sacco di tempo per osservare la signorina Reilly. Le prime occhiate che lanciò a Bex, mentre correva nella sua postazione (attaccante laterale), seguite da altre furtive, quasi stesse mandando a mente i dettagli.
Dopo qualche goccia di pioggia, ci congedò. «D’accordo, ragazze, per oggi basta.» Nessuna riusciva a credere che si fosse arresa al clima con tanta docilità. «Bex e Charlie, voi due datemi una mano a raccogliere le pettorine e i palloni.»
Avevamo appena finito di riporre tutto quando risuonò la voce della signorina Reilly. «Bex, come ti sei fatta quei lividi?»
La mia amica abbassò lo sguardo, scalciò un sassolino con la punta di una scarpa. «Ballando.»
«Ho ballato tanto in vita mia, lo sai, vero, Bex? Mi sono allenata per ore e ore. Anch’io ho avuto degli ematomi... ma non lì.»
Il sole era tornato a fare capolino, bruciava in faccia a Bex, la costringeva a strizzare gli occhi per guardare la signorina Reilly. Osservai una lacrima solitaria rotolarle lungo la guancia come una goccia d’argento liquido.
«Non so cosa intende.»
La mattina successiva vedemmo la Ford Fiesta azzurra della signorina Reilly uscire dal vialetto per l’ultima volta. Bex disse di averla vista girarsi a salutarci. Ma secondo me se l’è inventato. Era impossibile vederla, dalla finestra della camerata.
La statua della Vergine Maria vegliava su di noi mentre sedevamo fuori dall’ufficio della signora O’Dowd. Ci aveva convocate un’ora prima e poi ci aveva lasciate lì ad aspettare al caldo. La cura per i peccati come quella per il raffreddore: una bella sudata.
«Lo fa apposta» sibilò Bex. «Scommetto che è lì a girarsi i pollici.»
Finalmente la porta si aprì e il faccione della signora O’Dowd saturò lo spazio.
«Figliuole.» Era irlandese, ma insisteva a parlare come una dei quartieri alti di Londra. Peccato che finisse per esagerare e tradirsi. Sventolò il braccio in un gesto cordiale. «Venite, prego.»
Bex entrò per prima. La seguii. Rimanemmo in piedi perché guai a te se osavi sederti prima di essere invitata a farlo.
«Prendete due sedie... chiudi le gambe, Charlie, non vorrai essere presa per una di quelle, vero?»
«No, signora O’Dowd.»
«Ora, parliamo un po’ di Curtis Loewe, d’accordo?»
Il suo nome scatenò in me una reazione violenta. Fissai gli occhi sul ritratto di Gesù in croce dietro la testa della preside.
«L’avete conosciuto?»
Annuii in silenzio.
«Lo sapete di essere state assai fortunate a venire scelte per questo spettacolo, vero? Due ragazze come voi...»
Silenzio.
«Allora, ve ne rendete conto?»
«Sì, signora O’Dowd.»
«È pieno di fanciulle là fuori, oserei dire anche più talentuose di voi due, che farebbero i salti mortali pur di avere quest’occasione. Ma a quanto pare lui ha visto qualcosa in voi.» Lo sguardo della preside mi trafisse. La bocca mi si riempì di colla, il fondoschiena che sudava sulla sedia di plastica. Mi spostai un poco di lato, mossa maldestra perché produsse il rumore di un peto.
«Il signor Loewe è sempre stato molto generoso nei confronti della nostra scuola. Ha un suo ente benefico che raccoglie fondi per giovani sfortunati. Come voi, per intenderci. Per esempio, la gita in Galles che avete fatto quest’estate? Merito suo. È una persona molto, molto rispettata. Capite cosa intendo?»
«Sì, signora O’Dowd.»
«Bene, ne sono contenta. Immagino che non abbiate obiezioni a continuare le prove ed esibirvi?»
Il tempo si sbobinò. Era un esame. Ci veniva data una scelta. O andate in questa direzione o nell’altra.
Cosce spalancate. Mani che mi divorano. Peso che mi consuma. Che mi toglie il respiro. Sgualdrina. Sgualdrina. Sgualdrina.
Lo vuoi?
«Rebecca?»
«Certo, signora O’Dowd.»
«E tu cosa mi dici, Charlie? Magari il sabato preferiresti stare qui a occuparti delle faccende.»
«Certo, signora O’Dowd.»
«Certo cosa?»
«Certo, voglio continuare con le prove.»
Quell’estate durò anni. Bex e io venivamo portate via ogni fine settimana, catapultate in un’esistenza diversa. Vennero tracciate nuove regole («Sono solo diverse, non significa che siano sbagliate, ma non tutti capirebbero»).
Il modo in cui mi desideravano era complesso, mi disorientava. Ma essere desiderata era comunque più di quanto avessi avuto da parecchio tempo. Andavamo a spasso, mangiavamo patatine e caramelle e cioccolatini, bevevamo champagne, ingurgitavamo pillole che rendevano il mondo sempre più sfocato e mi liquefacevano. Uomini diversi, che ridevano e chiacchieravano e mi facevano domande senza aspettare le risposte e poi si prendevano comunque quel che volevano. A volte faceva male ma era un dolore adulto, non un dolore cattivo. Un dolore d’amore. Finché li rendevamo felici, potevamo continuare a essere felici anche noi.
Perché quella era felicità, vero?
Solo che. Cominciammo a contrarci. All’inizio non si sarebbe detto, ma pian piano il corpo di Bex si ripiegò su se stesso, gli occhi tornarono a spegnersi. Diventammo sempre più piccole per adattarci al loro stampo.
Questo è il mondo adulto. La nostra via di fuga.
E allora perché ci si sta richiudendo intorno?
Facevo la doccia, con scrupolo religioso, in modo ossessivo, mi strofinavo con gesti convulsi, frenetici, ma le manate non se ne volevano andare. Segni indelebili su tutto il mio corpo. Avrei potuto disegnarli. Ci faceva male tutto, ogni osso, ogni desiderio, persino i sogni facevano male.
Ma sstt.
Zitta. Non dirlo a nessuno.
Diventerai una star.
Lo spettacolo venne replicato per due fine settimana al Watford Palace Theatre, senza neanche l’ombra del fascino del West End in cui avevamo sperato. Ci ammassarono in un camerino con altre venti ballerine, tutte a contenderci un unico specchio. Quando giunse il nostro momento di salire in scena, ci cacciarono in fondo, dietro file e file di vere professioniste. Non avevamo neppure lo spazio necessario a muovere le braccia o tendere le gambe, così smettemmo di provarci. Paralizzate dalla nostra stessa stupidità.
Dopo l’ultima replica, ci furono bibite e fagottini di carne stantii e patatine dietro le quinte. Vinaccio da due soldi, caldo, in bicchieri di plastica. Greg ringraziò il cast e sapevo che Bex desiderava che la guardasse ma lui non lo fece, perciò andò lei a cercarlo.
Gli rimase accanto, in attesa, mentre lui parlava con il protagonista. Aspettò e aspettò. Avrei voluto trascinarla via. Lui la vedeva lì, eppure continuava a tirare in lungo la conversazione con l’altro.
Finalmente l’interlocutore di Greg si allontanò, e Bex gli sfiorò il braccio.
«Bex» la salutò con un tono nuovo, la voce alta, gelida. «Grazie per l’impegno che ci hai messo. Eri un po’ fuori sincrono, ma non male, per una principiante. Ti faccio accompagnare a casa.»
Riuscivo a intuire i pensieri di Bex perché erano gli stessi che correvano per la mia mente. Si comporta come se non fosse successo nulla. Come se per lui Bex non contasse niente.
«Greeeg.» La disperazione le ispessiva la voce.
«Devo vedere un mucchio di persone, Rebecca.» Lei detestava che la si chiamasse Rebecca. Si protese a sfiorargli una spalla, ma lui si spostò di colpo e lei finì addosso al vassoio di bicchieri di una cameriera, rovesciandolo.
Eppure ancora non voleva cedere, e fendette la ressa. La seguii, un bisogno disperato di trattenerla.
«Greg.»
«Bex. No, ti prego, non...»
Non prestava ascolto. Lo inseguì per tutto il corridoio, fino a un camerino. Lui entrò e cercò di richiudersi la porta alle spalle per liberarsi di lei, e allora Bex ci infilò il piede per bloccarla.
«Cosa cazzo pensi di fare?» A quel grido, la vidi farsi piccola.
Nel camerino c’era Curtis, un calice di vino in mano. Non era solo. Avrei detto che la ragazza era più giovane di me, ma chi lo sa, difficile capirlo. Più fresca, quanto meno. Ecco il punto. Un corpo nuovo da toccare. Non sporco come il mio, insudiciato dalle sue mani.
«Portale fuori di qui» ordinò a Greg.
Il suo tono mi lasciò senza fiato. Lo stomaco mi si contrasse per la vergogna. E l’invidia. Avrei voluto essere quella ragazza. A lei avrei cavato gli occhi, pur di prendere il suo posto. A lui avrei lasciato fare tutto quello che voleva, se solo avesse significato non venire gettata via.
Greg ci spinse fuori dalla porta.
«Prendete la vostra roba, c’è un taxi che vi aspetta.»
Nel taxi faceva freddo. L’aria della notte ci fece venire la pelle d’oca sulle braccia nude. Guardammo le luci della città fluire via. Non scambiammo una parola.