Undici mesi prima

Henry Sinclair

Linda. Linda. Linda. Non può essere. Quella donna è praticamente morta. Un’eremita, intrappolata in casa sua. Le fotografie che ha visto di recente mostravano un grado di decrepitezza che l’ha sbigottito. Ha quasi avuto un moto di solidarietà, è come se la vita le avesse fatto uno scherzo da prete, elargendole successo e apprezzamento solo per portarglieli via. Sa pure che ha un debole per la bottiglia – sempre avuto, o ricorda male? – e gli piace pensare che trascorra il suo tempo macerando nell’alcol, raggrinzendo come uva passa.

Per questo è incredulo quando Curtis lo chiama per dirgli che Linda sta di nuovo creando problemi.

«Che mi venga un accidente se non è lei. Ho trovato il sito web. Mi è arrivata una soffiata, sì, c’è un sito... Sciami di tizie che parlano di abusi. E adesso che si fa? Guarda tu stesso. Hai una penna? Si chiama cosaèsuccessoallakelmore.com. Non brillano per originalità, eh? Se leggi i vari filoni vedrai che un’ex politica ha chiesto di parlare con queste donne per poter denunciare lo scandalo, come lo chiama lei. Dev’essere lei per forza. Chi altri se no?»

Henry ci pensa un attimo. «Per la verità, una marea di persone.»

«In tal caso, siamo ancora più nella merda. Per prima cosa, voglio che tu chiuda il becco a Linda. E in fretta.»

Riaggancia. Curtis non è tipo da dilungarsi in convenevoli.

Non hai una carriera lunga come quella di Henry se non padroneggi un po’ delle arti più oscure. Lui conosce persone. Persone che sanno scovare numeri di telefono e metterli sotto controllo. Non è gente a cui ammetterebbe di essere legato. Sono persone discrete. Fanno quello che devono. Non lasciano traccia.

Uno di loro si intrufola in casa di Linda e le ruba quel reperto storico che è il suo portatile.

Oggi l’uomo si è presentato da Henry non con il computer – non può rischiare di essere beccato in possesso dell’oggetto fisico –, ma con la copia delle email inviate e ricevute dall’account di Linda. E guarda guarda, la signora e il suo vecchio complice Jonathan Clancy hanno ricominciato a tramare.

Inviato: venerdì 12 settembre 2013,13.07

A: lindajmoscow@btinternet.com

Da: jonathanclancy@thetimes.co.uk

Cara Linda,

l’hai aperta!

È già un inizio. Non ti chiedo come stai perché sono sicuro che stai da schifo, non avendo goduto della mia compagnia in questi ultimi anni. Possiamo porvi rimedio, naturalmente, ma non è per questo che sto scrivendo.

Sono qui perché questa settimana sono incappato in un sito web, o forse sarebbe meglio definirlo un blog, cosaèsuccessoallakelmore.com. Immagino che tu non l’abbia visitato, ma sono sicuro che il nome del collegio ti dice qualcosa. L’ho passato al setaccio e be’, mi chiedo se non ci dia un’altra occasione di denunciarli. So che ti stai ancora leccando le ferite, però la resa è proprio quello che vogliono. Già solo per questo non dovremmo rinunciare.

Personalmente farò quello che posso per portare tutto alla luce, ma, dati i precedenti, non credo che queste donne accetteranno di parlare con me. Tu, in compenso, potresti essere più fortunata.

Fatti sentire. Mi devi ancora un pranzo.

Non è mai troppo tardi.

Tuo, spero,

Jonathan

Inviato: sabato 13 settembre, 16.57

A: jonathanclancy@thetimes.co.uk

Da: lindajmoscow@btinternet.com

Caro Jonathan,

ho visitato il sito web e i blog correlati. Ho letto tutto. Non potrei farmi più ribrezzo di così.

Cosa facciamo?

Tua,

Linda

Inviato: sabato 13 settembre 2013, 17.07

A: lindajmoscow@btinternet.com

Da: jonathanclancy@thetimes.co.uk

Carissima Linda,

con tutto il rispetto, non hai il monopolio dell’autodisgusto. Jan mi ha chiesto il divorzio cinque anni fa. A quanto pare non l’ho mai fatta sentire amata. Si è presa il cane e ha messo su casa e letto con la nostra vicina Vanessa. Scommetto che questa non te l’aspettavi! Sto invecchiando e sono solo e nelle giornate storte sono quasi sicuro di puzzare, almeno a giudicare dalle occhiate che mi scoccano i colleghi.

Ma lasciamo stare l’autocommiserazione. Quel che è stato è stato, non possiamo cambiarlo. Hai fatto qualcosa di male per la migliore delle ragioni. E lo stesso io.

Piantiamola di guardarci l’ombelico e dimmi che mi darai una mano.

Sempre tuo ammiratore,

Jonathan

P.S. Non hai detto niente del pranzo.

P.P.S. Mi manchi.

Inviato: sabato 13 settembre 2013, 18.07

A: jonathanclancy@thetimes.co.uk

Da: lindajmoscow@btinternet.com

Caro Jonathan,

ti aiuterò. Ecco, l’ho detto. Suppongo tu voglia che mi metta in contatto con la donna che gestisce il sito web e cominci a raccogliere testimonianze, giusto? Immagino che non sarà facile convincerla. Ha tutte le ragioni di diffidare dell’autorità. Ex autorità, nel mio caso. Ma è solo colpa mia.

Dobbiamo stare attenti, non deve trapelare niente finché non avremo raccolto tutto quello che ci serve.

Per quanto riguarda il pranzo, ti inviterei qui ma vedresti quanto sono diventata sciatta. Qui vicino c’è una tavola calda/rosticceria/gastronomia. Che ne dici di vederci lì il prossimo martedì? Fanno i brownies con le patate dolci, ma non lasciarti smontare.

Tua, spero,

Linda

P.S. Mi è dispiaciuto leggere di Jan. Ma non devi incolpare te stesso, ho sempre sospettato che avesse un debole per Vanessa.

P.P.S. Mi manchi anche tu. Nessuno mi porta più del vino come si deve.

Le email si inchiodano sullo stomaco di Henry come il formaggio della sera prima. Si versa un whisky di malto, lo ingolla. Prende quel ritorno dal mondo dei morti come un’offesa personale. Mai avrebbe pensato che Linda potesse diventare una tale spina nel fianco. La prima volta che l’ha vista, nel 1978 a Croydon, durante la campagna elettorale, era una tipa insignificante con un paio di occhiali decisamente infelici e capelli che avevano urgente bisogno di attenzioni. Di fatto, si era chiesto se non fosse entrata nel partito sbagliato, di sicuro doveva far parte della truppa di James Callaghan, no? E invece no, aveva scelto proprio il suo partito. Okay, non il suo, il loro. In seguito, quando era diventata deputato e aveva cominciato a farsi sempre più importante, Henry aveva attribuito l’abbigliamento e gli occhiali e i capelli a una scelta ben precisa, un piano per fare in modo che la gente si concentrasse sulla sua piattaforma e sul suo cervello anziché sull’aspetto. Con Hillary Clinton male non aveva fatto, giusto?

Quello che non aveva previsto era l’ambizione contenuta in quel corpicino snello. Gliela fiutava nell’alito quando lo avvicinava alla Camera. Niente pranzi, niente pause. «Che mi dici di questo?» gli chiedeva, e «Abbiamo intenzione di fare qualcosa per quest’altro?». Doveva proprio prenderla sotto la sua ala. Non esattamente per spezzarle lo spirito, non si vantava forse di fare da mentore ai nuovi deputati? Sapeva bene che la maggior parte di loro entrava in politica per essere artefice del cambiamento. Non spettava a lui disilluderli. Quello l’avrebbe fatto l’esperienza. No, il suo ruolo consisteva soltanto nel fare presente che la politica e il governo implicavano scelte difficili. «Non è l’isola di Utopia» diceva loro. «Questo è il mondo reale. Le decisioni che prendiamo mirano al bene comune, non a ciò che è meglio per uno o due elettori.»

Era stato durante una serata al bar della Camera che aveva scorto un altro lato di Linda. A ogni calice di vino la patina di rispettabilità si assottigliava. Gli abiti erano migliorati, la messa in piega era perfetta. Cristo santo, sotto una certa luce sembrava addirittura attraente! Se non lo fosse sembrata, non avrebbe preso in considerazione l’idea di invitarla a quel ballo per la raccolta fondi.

Si era presentata da sola, gli aveva fatto un cenno di saluto dall’altro lato della stanza. L’aveva dovuta guardare due volte. Era lei? Alla faccia della metamorfosi! Aveva risposto al saluto, quindi aveva distolto lo sguardo. Non era il caso di tradirsi. Era uno spettacolo. Indossava un abito lungo in stile gitano, di un verde smeraldo incredibile che catturava la luce e sfavillava come una pietra preziosa. I capelli, di norma legati, erano sciolti e le serpeggiavano giù per la schiena, tra le scapole. Ma era stato soprattutto il suo imbarazzo a spiazzarlo, l’impressione che fosse sorpresa lei per prima della propria bellezza.

Henry stava già elaborando un piano per la serata, una lenta, esperta seduzione, quando era arrivata la domanda.

«E quella chi è?»

Aveva avuto un tuffo al cuore. Curtis Loewe. Avrebbe riconosciuto ovunque quel tono rapace. E così era stato costretto ad abbozzare, si sarebbe dovuto cercare l’ennesima Jane o Jemima. Una soluzione di ripiego. Curtis aveva fatto balenare la promessa di donare milioni al partito. Quella serata era stata organizzata proprio per convincerlo a firmare l’accordo. Non era il caso di contrastare i suoi desideri.

La politica riguarda il bene superiore, vecchio mio.

«Linda Moscow. Un nuovo arrivo.»

«E io che pensavo sarebbe stata una barba. Che dici, Henry, ci presenti?»

«Senz’altro.»

A quanto pareva, Linda era felice di avere compagnia. Il marito era via, aveva spiegato con una punta di irritazione. Peggio per lui, aveva pensato Henry. «Un altro bicchiere?» Lei aveva chiesto un Martini, lui aveva detto al barista di farglielo doppio.

«Vorrei farti conoscere una persona. Ci auguriamo che ci versi parecchio denaro questa sera, che rimpingui a dovere le casse del partito.»

Linda l’aveva fissato e gli aveva sorriso. «E tu vuoi che lo seduca per convincerlo, immagino.»

«Non vedo come potresti fallire.»

Più tardi erano usciti barcollando nella notte. Erano in quattro, Henry, Linda, Curtis e una segretaria della sede centrale che ridacchiava senza posa e senza ragione. La serata era mite. Una brezza leggera soffiava dal Tamigi e giocava con l’abito di Linda. Si era drappeggiata uno scialle sulle spalle, ma continuava a scenderle, mostrando la schiena.

«Andiamo da me» aveva proposto Curtis. Avevano fermato un taxi e Henry, che conosceva la parte, si era baloccato con l’idea di ignorare il protocollo, almeno per una volta.

«Temo di non potermi fermare» si era risolto a borbottare alla fine proprio mentre l’auto si fermava davanti all’appartamento di Curtis, a Mayfair. «Domani ho una riunione all’alba. Ti accompagno a casa, Sharon.»

«Sarah. Mi chiamo Sarah.»

«Tu vai pure, Linda. Non vorrei che Curtis pensasse che abbiamo qualcosa contro la sua ospitalità.»

La domenica, Curtis l’aveva chiamato a casa e gli aveva offerto il denaro promesso, e anche qualcosa di più.

«Dev’essere stata una gran serata» aveva commentato Henry.

«Serata? Se n’è andata adesso.»

Henry aveva buttato giù il caffè, sorpreso di poter essere allo stesso tempo tanto entusiasta e tanto disgustato.

Lette le email, Henry decide che è ora di fare un salto da Linda, diffidarla dal procedere con quel progettino in cui si sta imbarcando. Non ne vale la pena, le dirà, non con la sua reputazione politica ridotta a brandelli. Chi le crederà mai?

L’incontro non va secondo i piani. Linda lo butta fuori di casa (di nuovo), ma solo dopo aver cercato di avvelenarlo versandogli nel tè del latte cagliato.

«Per dirla con la Thatcher, la signora non ha intenzione di fare marcia indietro» riferisce Henry a Curtis. «Ci ho provato, ma lo sai com’è fatta, con lei la dolcezza non funziona.»

L’altro è irritato. «Parecchio seccante.»

«La settimana prossima deve incontrare una di queste donne del sito web.»

«Ma guarda. Sono sicuro che troverai il modo di mandare qualcuno a farle compagnia.»

«Già fatto, ma non sono quelle donne a preoccuparmi. Con loro si può trattare. È Linda. Dobbiamo essere un po’ più convincenti.»

«Hai qualcosa in mente?»

«Di fatto, sì. Le è rimasta solo una cosa cui tiene ancora.»

«Ovvero?»

«Gabriel. Il figlio. Sappiamo già che è disposta a fare qualunque cosa per lui.»

«Ma quello succedeva anni fa, era solo un bambino. Non penso si possano paragonare le due situazioni.»

«L’amore di una madre non viene meno con l’età, mi dicono.»

«Convinto tu. E come lo sfrutteresti, di preciso?»

«Sappiamo che è un tipo festaiolo. Che ne dici di invitarlo da te?»

Curtis si abbandona contro lo schienale, chiude gli occhi, tace. Il silenzio fa stare Henry sulle spine, teme che l’altro si stia rammollendo, che gli sia rimasto un briciolo di sentimentalismo, che bocci il suo piano. Paure vane, che si dissipano non appena sente l’urlo con cui Curtis chiama l’assistente personale. «Deidre! Passami il manager di Gabriel Miller.»

Non ci vuole molto. Nell’ambiente dello spettacolo, Curtis Loewe non è uno che fai aspettare al telefono.

«Palab, come stai, vecchio mio?»

Henry sente farfugliare all’altro capo della linea, immagina Palab che si sfrega le mani mentre Curtis gli dice: «Quel tuo comico, Gabriel Miller. Ha proprio la voce che cerco per il mio nuovo film. Guarda caso, giovedì vengo a vedere lo spettacolo. Mi piacerebbe conoscerlo».

«È andata bene» riferisce Curtis qualche giorno dopo. «Gli ho detto che volevo fargli doppiare la parte del maiale nel nuovo cartone.»

«E lui?»

«Ha detto che è un grande fan. A quanto pare, da piccolo Vita da orsi era il suo film preferito.»

La domenica, Gabriel compare sui giornali. Henry esamina attentamente le fotografie che lo ritraggono mentre sniffa cocaina dai seni di una donna. Kimberly, anni ventuno, dice che è stata un’esperienza unica. «Ha fatto scintille tutta la notte. Era superfocoso. Una tigre. Abbiamo bevuto champagne, me l’ha versato dappertutto e poi me l’ha leccato via.» Quella storia consolida il piano di Henry. Un tipo come Gabriel si butta a pesce su certe offerte. Aggiunge il suo nome alla lista degli invitati del prossimo party di Curtis e si versa un whisky per festeggiare.

Henry non lascia niente al caso. La sera della festa, manda un’auto a prendere il loro ospite speciale. Gli fa addirittura lasciare una bottiglia di champagne ghiacciato sul sedile, così che arrivi al party già rilassato e brillo. La posta in palio è altissima. Prima che arrivi Gabriel, Henry prende da parte Alexander e gli raccomanda di stargli incollato. Alexander è un deejay, un tempo era famoso, anche se adesso che è in una radio minore nessuno si ricorda più di lui. Anni di festini l’hanno logorato, ora barcolla sull’orlo del precipizio. Una sola spintarella, un minuscolo scandalo sessuale e crolla di sotto. Farà tutto ciò che gli ordina, non ha scelta.

«Non mandare tutto a puttane. Ci serve» gli dice.

«Non ti preoccupare.»

Henry ordina alle cameriere di lasciare Alexander all’asciutto, ma quando arriva Gabriel le parole del deejay sono impastate. O è già partito, oppure è bravissimo a recitare la parte della persona sobria che recita la parte dell’ubriaco. Razza di idiota, se fa casino sono tutti fregati. Lui se ne sta alla larga, gli sembra più saggio. Conoscendo Linda, di sicuro avrà detto che è colpa sua se ha dovuto lasciare la politica, ed è importante non turbare Gabriel, questa sera. Preferisce quindi che sia Curtis a fare la parte dell’anfitrione generoso, che sia lui a mostrargli cosa offre la casa.

Rimangono entrambi insolitamente sobri, Henry e Curtis. Questa sera non si tratta del loro divertimento personale, per quanto possano esserne tentati. Questa sera si tratta di sopravvivenza. Di attirare Gabriel nel club. Di vedere cosa farà Linda del suo libro-denuncia quando si renderà conto che il figlio si è goduto il meglio dell’ospitalità di Curtis, che è uno della banda.

«L’ho portato in camera.» Curtis scoppia a ridere. «Dovevi vedere che faccia! Quasi meglio del sesso.»

Il fatto che la mattina successiva Gabriel sia introvabile non li impensierisce troppo. Nel corso degli anni hanno dato abbastanza feste da sapere che ognuno scende dalla giostra secondo i suoi tempi. Alcuni adorano dilungarsi nei saluti, altri preferiscono l’uscita di scena brusca, senza fanfara. Henry suggerisce a Curtis di lasciar passare qualche giorno e poi chiamarlo per sapere se si è divertito, se gli va di tornare. Quello che gli preme più di tutto è guardare la registrazione, vedere Gabriel con la ragazza. Con quella, è sicuro di poter convincere Linda a lasciar perdere la sua crociata. Tutti i suoi principi morali svaniscono nel nulla quando si tratta di proteggere il figlio, l’ha già visto succedere in passato.

Solo che... non c’è registrazione. Henry controlla di nuovo. È quella la camera in cui Curtis ha portato Gabriel, ne è sicuro. Eppure non c’è niente. Nessun nastro nella telecamera. Non può essere. Starò mica perdendo colpi? L’uomo prende a fare su e giù per la stanza in un bagno di sudore, un’onda di dolore che gli monta dietro le tempie. Il peggior doposbornia della sua vita, e neanche c’è stata la sbornia. Eppure dev’essere lì. Se n’è occupato lui personalmente, l’ha addirittura provata. Ci può essere una sola spiegazione.

Chiama Curtis, gli dice del nastro, che manca. L’altro tace. L’assordante silenzio della rabbia.

«Lo chiamo» dice alla fine.

E lo fa. Una. Due. Tre volte.

Probabilmente in questo momento è da qualche parte a scoparsi una puttana, e a sniffarle una vagonata di coca dal culo. Sarebbe proprio da lui. «Diamogli qualche giorno, ci chiamerà, implorerà di averne ancora.» Henry cerca di minimizzare, ma le sue affermazioni non valgono niente, sono prive di convinzione.

Il piano A è fallito.

Più che fallito.

Cinque giorni dopo, Curtis riceve la visita di un poliziotto incaricato di verificare un’accusa: non è che alle sue feste si fa sesso con delle minorenni?

L’uomo si presenta: sergente Jay Huxtable.