Giovedì, 14.51

Linda

«Henry ha pensato che magari avresti gradito qualcosa da leggere, per passare il tempo, diciamo.» Non è Huxtable. È lo scozzese, che scarica una pila di quotidiani sulla cassettiera. «Un bel caratterino, quel tuo ragazzo.» La presenza di quest’uomo intasa l’aria di un’energia inquietante. Cerco di non pensare a cosa possono aver fatto quelle mani grosse come badili, a cosa possono avere visto quegli occhi vacui. Esce strizzandomi l’occhio. «Ci si vede.»

Li ignoro finché la forza di volontà me lo permette. La mia logica è questa: Henry vuole che li legga, quindi non dovrei. Ma la tentazione è troppo forte e il pomeriggio troppo avaro di distrazioni. Tempo dieci minuti e li sciorino sul tappeto, e mi lascio aggredire da tutto il loro orrore.

I sordidi segreti del comico televisivo.

Il lato oscuro dell’uomo di spettacolo.

Un predatore sessuale.

E questi sono solo i titoli migliori. Ogni donna che abbia anche soltanto guardato Gabriel negli ultimi cinque anni ha detto la sua. «In lui c’era un lato nascosto che mi spaventava» spiega Laetitia dal Surrey. (La spaventava così tanto che è tornata a cercarne ancora la settimana successiva.)

Dal punto di vista legale, non possono chiamarlo assassino. Innocente fino a prova contraria. Ma i giornali rispettano la legge solo formalmente. La colpevolezza di Gabriel viene ribadita da ogni parola e frase. Del resto, persino le sue fotografie professionali erano state scattate perché avesse un’aria sinistra. «Cosa cela dietro quel sorriso?»

Scorro le colonne in cerca del nome di Mariela. È stato accusato del suo omicidio e anche del mio? Ancora uno e lo proclamano serial killer. L’unica notizia in merito la scovo in alcuni paragrafi a pagina due del «Telegraph», in cui si riferisce che la polizia sta ancora indagando sull’omicidio di un’altra donna rinvenuta vicino a casa di mio figlio. Nient’altro.

Il nostro rapporto madre/figlio viene sottoposto a un esame autoptico. Vivere sotto i riflettori ha influito sul carattere del piccolo Gabriel? Linda Moscow è stata troppo remissiva/troppo severa con lui? Troppo assente? Su uno c’è un servizio speciale a tutta pagina, intitolato No, le donne non possono avere tutto. Accanto a una mia fotografia di quando ero ministro dell’Interno (che efficienza!) si spiega che la decisione di una donna di perseguire una carriera può avere conseguenze letali. Da lì parte uno sproloquio di ottocento parole in cui un esercito di psicologi dice la sua sul nostro rapporto. «Gabriel si è sempre sentito inferiore?»

Ogni ipotesi viene spremuta fino all’osso, ogni teoria subisce una disamina approfondita. Dopotutto è il sogno di qualunque direttore di giornale: figlio dell’ex ministro dell’Interno trattenuto per omicidio. Piatto ricco!

Ma in mezzo a tante sciocchezze, la ciliegina sulla torta sono le dichiarazioni dei miei amici.

Bernadette Mulligan, amica intima della famiglia, dice di essere rimasta sconvolta dalla notizia. «Sono distrutta, distrutta. Linda è stata la mia migliore amica per oltre quarant’anni.» Ma aggiunge: «Conosco Gabriel fin da quando era bambino ed è sempre stato problematico. Linda non ne ha mai voluto vedere la cattiveria».

«Le parole non sono sufficienti a esprimere la mia tristezza» dice Henry Sinclair, ex collega della signora Moscow. «Linda è sempre stata una grande amica e una fonte di ispirazione. Lavorava incessantemente per ciò in cui credeva, molti progressi nella tutela dei minori sono merito suo. È particolarmente triste perché era una madre meravigliosa, che avrebbe fatto di tutto per il figlio.»

Ogni parola di Henry è una pugnalata. Non ha ritegno, non gli rimane attaccato niente, niente fango, nessun sospetto. Mi fermo davanti alla finestra, guardo l’oscurità che mi si chiude intorno, che risucchia la luce dal giorno. Questi uomini sono intoccabili. Inattaccabili. E a meno che io non trovi il modo di scappare, lo resteranno.

Vado alla porta, la tempesto di pugni. Chiamo a raccolta la voce, la costringo a uscire.

«C’è qualcuno? Per favore!» Rimpiango subito il “per favore”, ma l’educazione è un’abitudine difficile da perdere. Tendo l’orecchio in cerca di una reazione ma dal salotto mi arrivano solo frammenti di conversazione. «Aiutatemi!» Adesso sto gridando.

Niente.

Poi.

Rumore di passi.

Una chiave gira nella serratura, il suono mi vibra dentro. La porta si spalanca. Anna, un dito sulle labbra.

Sstt.

Troppo da dire per strizzarlo in un secondo. Le domande mi si accavallano in testa. Perché perché perché? Ma non adesso. Ci scambiamo un’occhiata, densa di troppi significati per decifrarla.

«Devo andare in bagno, non ce la faccio più» dico. Meglio attenersi al copione.

Si gira a controllare il corridoio alle sue spalle, poi si fa da parte. «Rapida.»

La voce mi tranquillizza, è di nuovo Anna. Occhio, non farti fregare.

Il bagno è accanto alla mia stanza da letto. Ci scivolo dentro in silenzio, chiudo la porta mettendocela tutta per non lasciare sfuggire cigolii, scricchiolii, qualunque tipo di rumore.

La chiave della finestra. Me la tolgo di tasca. Un raggio di sole brilla sul metallo, ecco tutta la speranza che mi è rimasta. Prima però riempio un bicchiere di acqua, ne verso un po’ nella tazza a uso e consumo di Anna, in caso sia in ascolto.

Dita nervose infilano la chiave nella serratura. Si apre, al primo colpo.

Fin troppo facile. Non dirlo.

Spingo il pannello e la finestra si apre con un lamento infantile. Sbircio di fuori. Il salto è a dir tanto un metro e mezzo, non di più. Mi arrampico sulla tazza, da lì sul davanzale.

Come sono arrivata a questo?

Zitta e salta.

Atterro sulla spalla, l’erba umida e fredda contro la guancia. Il dolore mi saetta lungo la spina dorsale ma gli ordino di starsene buono. Raggiungi la strada. Trova aiuto.

Comincio a correre – più o meno – cercando di restare il più accovacciata possibile per nascondermi tra le irregolari macchie d’erba.

Guadagno terreno, avanzo spedita. Sbircio alle mie spalle. Il viso di Anna è una sbavatura bianca alla finestra aperta.

«Linda.» Si sente appena.

E poi.

«LINDA!» Questa volta ha urlato.

Grida, ma non si muove. Non di un millimetro.

Non viene a prendermi.

Torno a volgere lo sguardo sul sentiero che mi sta di fronte, mi impongo di procedere. Corri, corri più veloce che puoi. Ignora il ruggito dei polmoni, l’acido lattico che ti taglia le gambe. Concentrati sul ritmo della corsa. Pensa solo a questo istante, al movimento, così che nessuno possa raggiungerti.

Ma.

Un ruzzolone mi manda a gambe levate. Mi rialzo a precipizio. Non posso mollare, non quando mi manca tanto così al sentiero, alla strada, al gorgoglio dell’acqua, a salvare Gabriel.

Altre urla trafiggono l’aria, la saturano di sorpresa e panico. Questa volta non sono di Anna, appartengono allo scozzese, a Huxtable. Si avventano alle mie calcagna, un esercito di piedi che guadagna terreno. La strada, la strada, cerco di chiamarla a me. Adesso la vedo, passa un’auto.

Aiuto!, urlerei, se mi fosse rimasto un refolo di fiato.

Il suolo trema, un movimento tellurico scatenato dai loro passi. Sono vicini, corrono al doppio della mia velocità. Loro sono cacciatori. Io, la loro preda.

Il primo contatto mi scaglia in avanti.

Uno schiocco. Il rumore dell’osso contro la pietra. Il dolore mi invia una scossa. Manda a zero tutto il resto.

Conto quattro scarponi e due scarpe da ginnastica. La punta di uno scarpone mi affonda nel cranio. «La prossima volta devi correre un po’ più in fretta.» Lo scozzese mi tira su con uno strattone. Il polso mi penzola dal braccio come vi fosse attaccato con un filo.

«Credo che Anna ti debba impartire una lezione. Rischiavi di farla finire nei guai scappando in quel modo, sai? Non ho ragione, Anna?»

È cadaverica.

«Ho detto, non ho ragione?»

«Hai ragione» ammette.

«Quanto a me, sono molto dispiaciuto che Linda abbia deciso di rifiutare la nostra ospitalità» prosegue lo scozzese. «Con tutto il disturbo che si è preso Henry per lei. Ma forse la sistemazione non era abbastanza comoda. Che dici? Possiamo fare di meglio?»

Lui stringe i pugni e io mi tendo, pronta all’urto.

«Oh, non devi preoccuparti per me. Non picchio mai le donne, be’, forse non proprio mai mai, ma di sicuro non è un’abitudine. Lei, d’altro canto...» Indica Anna. «Lei sì che può picchiare una donna, perché è una donna.» È tutto compiaciuto, quasi fosse l’unico a cui sarebbe potuto venire in mente.

Gli occhi di Anna saettano tra lui e Huxtable.

«Be’, cosa aspetti, un invito scritto?»

«La riporto al cottage» dice Anna.

«O forse non vuoi farlo, dico bene?» Lo scozzese è un uomo incredibilmente brutto, pieno di rughe profonde e creste che gli solcano il viso. Huxtable resta indietro, occhi a terra, zitto.

Persino nel mio stato mi rendo conto che Anna non è in grado di tenergli testa, pallida com’è, e sottile al punto che immagino di penetrarla con un dito e vederlo uscire dall’altra parte. È in trappola, come una mosca dietro un vetro. Lo scozzese osserva ogni sua mossa, la incita all’azione.

«Anna.» Ora la voce è più aspra.

E lei ubbidisce.

Mi schiaffeggia con una forza tale che rinculo addosso a un albero. Mi procuro uno squarcio profondo, accumulo nuovi strati di dolore.

Mi puntello contro il tronco mentre Anna torna ad avvicinarsi, la schiena allo scozzese e a Huxtable. Mima una parola che rimane sospesa nel silenzio.

Scusa.

«Tosta, eh?» Il sorriso dello scozzese gronda orgoglio. «Ti riporto indietro, okay?» aggiunge guardandomi. «Ti riporto al sicuro.»

Al sicuro: cioè rinchiusa, di nuovo.

Siedo e aspetto mentre la notte si allunga su di noi e ci soffoca nel buio.

È in arrivo un nuovo giorno, e Henry e Curtis mi hanno messa alle corde un’altra volta.