Linda
Madre degenere. Non me n’ero accorta. La nausea, la sonnolenza, il mal di stomaco. Tutti segnali, se solo li avessi guardati, ma ero occupata, troppo occupata, e pensavo che stesse fingendo, cercando di ritagliarsi qualche giorno di vacanza da scuola. Per prima cosa, pensa sempre al peggio. Non avevo notato quanto fosse cambiato, come tutte le parole che erano solite fluire da lui in un flusso di coscienza ininterrotto si fossero esaurite e sclerotizzate nel silenzio.
Era la sera di Halloween quando collassò, colpito in testa da qualche delinquente che a detta di Tommy avevano spaventato. Kate, la madre di Tommy, era fuori di sé. «È stata tutta colpa mia, non avrebbero dovuto spingersi tanto lontani.» Ma lei non c’entrava, ovviamente, e non la biasimai nemmeno per un secondo, anche se il suo senso di colpa era l’ultima delle mie preoccupazioni.
Mi prese un colpo quando lo vidi, il suo pallore, un bianco più che cadaverico, le labbra una linea scarlatta. Aveva anche un taglio sulla guancia. Non ero del tutto in me, evidentemente, visto che ci vollero i paramedici per ricordarmi che era Halloween e lui aveva il viso truccato in modo da sembrare uno zombie. Kate era stata davvero brava. Ma in ogni caso non riuscii a scuotermi di dosso l’idea che qualcuno l’avesse portato via lasciandosi dietro solo il suo fantasma.
Il ricordo dei giorni successivi è nebuloso. Ci ritrovammo scaraventati in un mondo di cannule e bip e clinica desolazione che mi raggelarono. Non stavamo combattendo con un virus o un’infezione che il trascorrere dei giorni e delle settimane avrebbero migliorato, ma con un’insufficienza epatica acuta. Ogni volta che mi avventuravo di fuori per recarmi in bagno o prendere una boccata d’aria fresca mi imbevevo dei colori e degli odori, allungavo la mano a sfiorare la vita che sfrecciava per le strade nella speranza di poterla portare a Gabriel perché se ne nutrisse. Avevo già vissuto dei traumi in passato, periodi difficili, ma niente mi aveva preparato a quello. Era un livello di dolore tutto nuovo. Mio figlio, il mio bellissimo bambino che si aggrappava alla vita, debolmente.
Per molti genitori, la malattia di un figlio agisce da collante. Non per noi. Hugh ci provò, almeno all’inizio. Era un uomo gentile, e il nostro amore era sempre stato un rifugio tranquillo, un sostegno, senza i picchi emotivi o le liti furibonde che caratterizzano certe coppie. Spesso mi è capitato di allontanarmi sfinita dal capezzale di Gabriel per andare a prendere una tazza di tè per poi, al ritorno, ritrovarmi ferma dietro la porta a osservare Hugh che gli accarezzava la mano, mentre in un sussurro gli leggeva Gli sporcelli o Il leone, la strega e l’armadio, e la portata del suo amore per il ragazzo mi toglieva il respiro. Era assoluto, completo, irreprimibile. Eppure, avendo origliato le conversazioni tra i medici, sapevo che Gabriel non stava reagendo alle cure e che probabilmente avrebbe avuto bisogno di un trapianto. Vedevo quello che stava per abbattersi su di noi, era come uno tsunami che prende forza addensandosi all’orizzonte.
Il primario voleva parlarci della possibilità di un donatore in famiglia. «Le probabilità che una madre o un padre siano compatibili sono del trenta per cento. Se nessuno dei due va bene, cominceremo a spulciare i registri dei donatori. In questi casi ci è utile conoscere l’appartenenza etnica del paziente da parte di padre, è un po’ come se ci permettesse di avviare il motore, mettiamola così, ci punta nella direzione giusta e può accelerare la procedura» spiegò il dottor Zaskias. «Possiamo predisporre per un test immediato, se volete.»
«Non c’è motivo di aspettare» replicò Hugh. E io posai la mano sulla sua, l’ultima volta che mi avrebbe permesso un gesto affettuoso.
«Non posso lasciartelo fare» mormorai.
La fronte di Hugh si increspò di incredulità. «Di cosa stai parlando?» Eppure, ebbi la netta sensazione che la verità gli si fosse palesata in pieno già mentre terminava di porre la domanda.
«Volevo credere che fosse tuo» replicai, pentendomi immediatamente della scelta di parole. Non era quello il momento di accampare deboli scuse. «Mi dispiace. Mi dispiace tantissimo.»
Mi guardò come avrebbe fatto un estraneo chiamato ad affrontare un argomento delicato, quindi parlò, la voce calmissima. «Non voglio sapere chi è, ma se tu non risulti compatibile, andrai a cercarlo e lo implorerai di fare almeno quest’unica cosa per nostro figlio. Nostro, non suo. Mio figlio.»
Raccolto il suo bicchierino di polistirolo, lasciò la stanza prima che potessi dirgli che non sapevo se fosse fattibile. Non ero sicura di potercela fare.
Io non ero compatibile. Se mai esiste, Dio dev’essere perfido. Aveva deciso di punire me colpendo mio figlio. Non ci poteva essere altra spiegazione.
«Al momento sul nostro elenco non ci sono donatori compatibili.» Il dottor Zaskias lo disse a voce bassa, per non ferirci con le sue parole.
Dall’ufficio del primario, Hugh mi portò nella camera di Gabriel. «Guardalo. Guarda il nostro ragazzo.» Le lacrime che aveva trattenuto sin lì tracimarono, si raggrumarono in singhiozzi. Mio marito, che andava a pezzi. «Farei qualunque cosa pur di salvarlo, ma non posso. Non posso fare niente. Ci fosse anche solo una minuscola possibilità che funzioni, devi farlo.» Ma sapevo già che l’avrei fatto. Niente contava di più che salvare Gabriel.
Chiamai prima e parlai con la segretaria. Non potevo rischiare di arrivare là e non trovarlo. C’era il pericolo che non riuscissi a costringermi a tornare.
«Vorrà sapere di cosa si tratta.»
«Non serve.»
Mi chiese di restare in linea, tornò dopo pochi istanti. «Non dovrebbero esserci problemi.»
L’opulenta Mayfair, edifici in mattoni rossi, Land Rover e Porsche, negozi d’antiquariato, boutique discrete, non sopportavo quel posto. La sua casa mi si stagliò davanti all’improvviso. Mi lambiccai il cervello in cerca di alternative, un modo diverso per arrivare a far stare meglio mio figlio. Non ce n’erano, e Gabriel era tutto ciò che contava. Dovevo superare il passato per dare a mio figlio un futuro. Ero lì perché volevo che lui vivesse.
Suonai il campanello e attesi, al contrario della volta precedente, allorché ero stata fatta entrare con solennità e mi era stato subito messo in mano un bicchiere, poi un altro. Che cosa avevo in testa, all’epoca, cosa stavo facendo? Tanti, tanti anni prima. La risposta giunse con la forza di uno schiaffo in pieno viso. Giocavo. Flirtavo, non ero affatto l’ingenua che avevo creduto, sapevo bene che poteva tornarmi utile in politica. Era successo al termine di una serata organizzata per raccogliere fondi. Da lui volevamo denaro, e sembrava da maleducati declinare un suo invito. Avevo in testa la carriera, volevo fare strada. Se fossi riuscita a strappargli la somma che ci serviva mi sarei fatta notare, sarebbe stata una bella spinta. La cosa triste era che aveva funzionato. Da quel punto di vista, almeno, avevo ottenuto esattamente quello che volevo.
Questa volta mi fece aspettare. Non avrebbe potuto essere altrimenti.
Dopo un bel pezzo, si decise ad aprire.
«Linda. A cosa devo il piacere?»
«Ciao, Curtis.»
Lo seguii su per le scale, le pareti ricoperte di premi. Miglior regista, migliore sceneggiatura. Cartelloni che pubblicizzavano i suoi film, Vita da orsi 1, 2 e 3. Non ero mai riuscita a convincere Gabriel che fossero sopravvalutati.
In salotto, mi offrì un tè. «O un gin tonic, non era quello il tuo preferito, Linda?»
Mai più riuscita a berlo, da allora. «Sono a posto così, grazie.»
«Oh, via, non essere scortese. Sono passati secoli, e ho liberato l’agenda apposta per te. Insisto, prendi almeno un tè, qualcosa da mangiare.»
«Il tè va bene.»
Mi indicò di sedere su un vecchio divano floscio. Optai per la poltrona in pelle. Maggiore sostegno.
«Hai avuto successo, eh, Linda? Sei sempre stata brava a fare rete, a trarre il massimo dai tuoi numeri.» Scoppiò in una risata tonante.
«Ho bisogno del tuo aiuto» sbottai. Non potevo sopportare un altro minuto di quella conversazione.
«Non mi dire.»
«Gabriel, mio figlio. È ammalato. Gravemente.»
«Mi dispiace sentirlo, ma non vedo cosa abbia a che fare con me.»
«È anche tuo. Gabriel è tuo figlio.»
In piedi davanti alla finestra prospiciente la piazza, gli raccontai l’intera storia. Da lì non ero costretta a prendere nota della sua reazione. Ero certa che se fossimo stati in pubblico avrebbe simulato sorpresa, ma da un pezzo sospettavo che loro (Curtis e Henry) lo sapessero già. «Come sta Gabriel?» si era informato Henry senza giri di parole dopo avermi chiesto di insabbiare la faccenda degli abusi. Che poi, non era vero affatto. Curtis non era il padre di Gabriel più del taxista che mi aveva accompagnata alla sua porta. Era stato Hugh a portarlo al parco tutte le settimane, Hugh a insegnargli a lanciare un pallone, Hugh a esultare quando metteva a segno un gol. Era tra le braccia di Hugh che Gabriel correva a rifugiarsi quando voleva restare alzato altri cinque minuti prima di andare a letto. Ma in quel momento era necessario accantonare le emozioni. Dovevo essere forte. Nessuno è buono o cattivo, rammentai a me stessa. Ciò che dovevo fare era scavare a fondo, portare alla luce il minuscolo fossile di quella gentilezza che doveva pur essere esistita anche dentro Curtis.
«Ha solo dodici anni» spiegai. Avevamo festeggiato il suo compleanno pochi giorni prima. Non poteva essere l’ultimo. «Adora il rugby ed è molto, molto divertente.» Non piangere. Non piangere. Pensai di mostrargli una fotografia, poi decisi di non farlo. Non volevo che quegli occhi si appropriassero di neanche un millimetro di mio figlio. «Non ci sono donatori compatibili. Non ne ha per molto. Morirà, se non troviamo qualcuno. So che è molto da chiedere, ma non c’è altra via. In tal caso non sarei qui.»
Lui non parlava, i secondi sospesi nell’aria. Mi concentrai sul disegno del tappeto antico che stava ai miei piedi. Desiderai che fosse magico, che potesse farmi volare via. Perché sapevo che era tutto inutile. Curtis non ci avrebbe mai aiutato. L’altruismo era un concetto che non gli apparteneva.
«Alla faccia della richiesta, Linda.» Si alzò, prese ad avanzare verso di me. «Mi è sempre dispiaciuto che ci fossimo limitati a quel fine settimana. Ci siamo divertiti, vero?»
Stavo lottando contro l’istinto, contro il bisogno di indietreggiare, di rispondere per le rime, di dirgli che non volevo niente da lui, non l’avevo mai voluto. Eppure non potevo. Aveva lui il coltello dalla parte del manico.
«Allora, Linda, non è vero? Sai, essere apprezzato in quel senso è un vero toccasana per l’ego di un uomo.»
«È... è vero.» Mi costrinsi a mentire e subito fui sommersa da un’ondata di autodisprezzo. Impossibile scendere più in basso.
«Personalmente non ho mai voluto figli. Però sono felice di averti dato ciò che Hugh non poteva.»
Mi raggiunse e si fermò al mio fianco. Con un dito mi scostò una ciocca dal viso. Feci un passo indietro. «Io...»
«Oh, per l’amor del cielo!» Quella risata, come volute di fumo acre che mi soffocavano. «Non preoccuparti. Ormai non sei esattamente il mio tipo. Vorrei che mi ci lasciassi pensare almeno per questo pomeriggio. È un impegno bello grosso.»
La speranza tornò a sollevare la testa. Lo guardai davvero, per la prima volta da quando ero arrivata, e giuro di averla vista salire in superficie, una scalfittura luminosa nel nero dei suoi occhi.
«Ti ringrazio.»
L’indomani si offrì di fare il test di compatibilità.
Nessuno è buono o cattivo, pensai, neppure Curtis.
Curtis era compatibile. Sapevo che lo sarebbe stato. C’era qualcosa di ineluttabile in quel finale, insieme desiderato e temuto.
Il giorno successivo a quello in cui ricevemmo i risultati, Curtis mi convocò nel suo ufficio. Avevo trascorso la mattinata con Gabriel, stringendogli la mano e vedendo i suoi occhi guizzare come se stesse cercando la forza di tenerli aperti. Se solo fosse bastato l’amore ad aiutarlo.
Indossai il mio sorriso migliore, il vestito più elegante, un velo di rossetto sulle labbra, mi detestai per averlo fatto.
«Accomodati, Linda.» Cercai di leggergli la risposta sul volto. «Mi stai chiedendo parecchio.» Si adagiò contro lo schienale, lasciò aleggiare la frase nell’aria. Era un maestro di tempismo, sapeva come sfruttarlo per creare il dramma. «Per me ci sarebbero grossi rischi, sono sicuro che lo sai. E c’è anche la possibilità che aspettiate e si faccia vivo un donatore compatibile.»
«Gabriel se ne sta andando. Non ha...»
«Tempo. Si riduce sempre tutto al tempo, non è vero? Me ne rendo conto, e come hai detto è mio figlio, anche se non l’ho neppure mai visto.» Intercalò un altro silenzio per torturarmi. «Ma sono pronto a farlo. A salvargli la vita.»
Il sollievo mi travolse, radicato nella speranza. Curtis mi aveva aperto l’ossigeno, aveva lasciato che mi riempisse i polmoni. E poi minacciò di richiuderlo.
Una lettera. Spinta sulla scrivania.
Era da parte mia, il ministro dell’Interno Linda Moscow, al sovrintendente capo della polizia di Londra Bill Joplin. La stessa che mi aveva mostrato Henry.
Suggerisco un uso assennato delle risorse di polizia. Meglio sfruttarle per rispondere con forza ai crimini violenti cui abbiamo assistito lo scorso anno o per ingaggiare una caccia alle streghe che servirà solo a mettere in imbarazzo le forze dell’ordine?
Sinceramente sua,
Onorevole Linda Moscow,
ministro dell’Interno
La mia firma. Mancava solo quella.
Curtis mi porse una penna.
Il mio bambino, la morbidezza delle sue guance, il sorriso sul suo volto, gli occhi accesi quando intercettavano la luce del sole, pensai a questo. Alle cannule e ai monitor, anche, alle ossa che gli sporgevano dalla pelle, alla mano che si aggrappava alla mia, si reggeva forte, non mollava.
Sarei riuscita a farlo?
L’avrei fatto?
Convivere con me stessa.
Accidenti se ce l’avrei fatta.
E se non ce l’avessi fatta? Accidenti lo stesso.
Firmai la lettera.
Nessuno è buono o cattivo.
Tutti siamo capaci di essere entrambe le cose.