Charlie
Rimasi a Londra due anni dopo la sparizione di Bex, finché un giorno crollai. Ero da Stratos, stavo farcendo una patata di chili con carne. Fuori, il sole danzava sulla strada, ma tutto ciò che vedevo io erano le macchie sporche sui vetri, ditate che non erano state ripulite, vernice scrostata, la decalcomania sulla vetrina a cui mancavano una S e una T, così che la scritta ormai recitava RATOS CAFÉ. Servii la patata alla donna che l’aveva chiesta e a quel punto mi tolsi il grembiule. Andai da Stratos e gli comunicai che stavo male.
«Per me faccia da sana» replicò lui.
«Nient’affatto, te lo giuro su Dio.»
Basta stare lì ad aspettare il ritorno di Bex, la vita mi doveva di più.
Misi insieme qualcosa che assomigliava vagamente a un curriculum vitae. Sognavo qualcosa di esotico. Bex e io eravamo andate a Londra in cerca di opportunità e ricchezza e la città ci aveva calpestate, respinte ai margini. Accoglieva gente da tutto il mondo nei suoi ristoranti, teatri, boutique, ma a noi non aveva dato neppure un sedile in metropolitana, figuriamoci la grande occasione. Niente denaro, nessuna prospettiva, nessuno sbocco. Eravamo perennemente alla finestra, in attesa di poter entrare in un mondo che non ci voleva.
Superai me stessa, immaginai un impiego alle Bahamas o almeno sul continente, un’isola greca, le Baleari. A quanto pareva, però, Grecia e Spagna avevano già abbastanza cameriere di loro. L’unico impiego che mi venne offerto era al lago. Il Loch Lomond, in Scozia.
Il Murray era un hotel a quattro stelle sulla riva del lago, di proprietà della famiglia Murray da quattro generazioni. Aveva una spa e una piscina e un laconium (non preoccupatevi, non lo sapevo neanch’io: una specie di sauna finlandese). Facevo i turni di notte alla reception, merito dell’esperienza nel campo dell’assistenza clienti magnificata nel colloquio telefonico. Dopo qualche mese, Mhairi, una collega, mi disse che con un po’ di impegno forse sarei riuscita a passare al turno di giorno. «Carys sta per lasciarci, non che qualcuno noterà la differenza, schifosa pigrona che non è altro.»
Eravamo in camera sua a dividerci una bottiglia di vino da due soldi. La beccai a fissarmi. «Che c’è?»
«Quand’è l’ultima volta che ti sei fatta tagliare i capelli? Ehi, non guardarmi con quella faccia. Sono sempre diretta con quelli che mi piacciono.»
«Quale onore.»
«Un mese, sei, magari un anno?»
«Non me lo ricordo.»
«Appunto. E le sopracciglia?»
«Cos’hanno che non va le mie sopracciglia?»
«Quand’è l’ultima volta che te le sei strappate? Eddai, non dirmi che non l’hai mai fatto!»
Mi passai un dito sull’arco incriminato.
«Oh, cazzo, le pinzette sono tue amiche, Charlie. Non lo sapevi?» Marciò in bagno, uscì brandendone un paio. «Non ho intenzione di raccontarti balle, la prima volta fa un male della malora.» Mi rabboccò il bicchiere. «Butta giù e cominciamo.»
A metà della seconda bottiglia mi disse di essere anche parrucchiera, anche se non riuscii a cavarle dove avesse lavorato (qui e là). «Parola mia. Posso fare meraviglie con quei tuoi capelli. Non ti riconoscerai più.»
L’autoabbronzante mi sembrava un’esagerazione. «Sei troppo patata lessa, guardati, così pallida e malaticcia» aveva però insistito Mhairi. Che poi aveva ragione su tutto. La mattina successiva non mi riconobbi, e ottenni il lavoro.
Al contrario di Londra, il Loch Lomond mi accoglieva ogni mattina con un sorriso. D’estate mi alzavo presto e andavo a correre lungo le rive del lago, dopo di che mi sedevo con un caffè e mi godevo la luce, stupita per come ogni giorno riuscisse a tingere il cielo di una gamma di sfumature diverse. Trascinavo Mhairi in collina a fare dei picnic («Mi prendi per il culo, vero?»), allungavo le dita verso le nuvole. Guardavo il tramonto rovesciarsi sull’acqua, incendiarla. La vastità degli spazi, quella bellezza aspra mi si riversavano dentro, mi risciacquavano dello smog e della sporcizia di Londra.
Mhairi, che in seguito avrebbe ammesso di non avere la minima esperienza nel campo della tricologia, ebbe una bimba pochi anni dopo il mio arrivo. Iona, a cui feci da madrina. «Ti prego, voglio te, tutte le mie altre amiche sono delle pazze.» Il padre della piccola era un barista australiano di nome Lachlan, che in teoria si sarebbe dovuto fermare solo per l’estate. Era ancora lì e ancora insieme a Mhairi quando me ne andai, anni dopo.
Lavoravo sodo, risparmiavo. Riuscii a ottenere una serie di promozioni. «E pensare che eri un vero cesso quando sei arrivata. Sono state le sopracciglia, te lo dico io» mi diceva Mhairi.
Non vivevo esattamente come una monaca ma stavo attenta a non stringere alcun legame duraturo. La volta che ci andai più vicino fu con un ragazzo spagnolo di nome Jorge, arrivato in città nell’estate del 2006 per gestire un ostello della gioventù. Lui mi insegnò due o tre parole in spagnolo, «Me llamo Charlie», e io lo portai a conoscere la zona. Lo facemmo a metà di un’arrampicata, sotto la pioggia. «Cogliamo l’attimo o lo perderemo per sempre» commentò Jorge.
Lui avrebbe voluto una maggiore intimità. «Dimmi di te. Sei un mistero, Charlie.» Ero in difficoltà, mi sembrava di non sapere come funzionasse una relazione. Cosa dovessi dare a lui, e cosa dovessi aspettarmi da Jorge. Soprattutto dal punto di vista fisico. Jorge ci teneva a farmi venire e a volte non faceva che pormi domande, un’analisi completa della performance, «Così va bene? Questo ti piace?», e io gli dicevo sempre di sì, pur di farlo star zitto. Sono sempre stata brava a fingere.
Alla fine Jorge partì, la madre stava male, dovette tornare in Spagna, perché non andavo con lui? (No.) Penso che in realtà fosse sollevato. Un mistero perde tutto il suo appeal se non lo si può risolvere.
Eppure, ero felice. Avevo il lavoro, gli amici, la mia bellissima figlioccia. Non riuscivo a immaginare di lasciare quel posto finché, a dodici anni dal mio arrivo, non giunse la notizia che portò la mia vecchia vita a collidere con quella nuova.
Bex.
In un appartamento di Brighton era stato rinvenuto un cadavere. Vi era rimasto per diversi giorni prima del ritrovamento. C’era anche il passaporto della vittima. Conoscevo per caso una certa Rebecca Aldery?, chiesero. Aveva indicato il mio nome come persona da contattare in caso d’emergenza.
Non so perché, ma mi fece star male il fatto che dopo tutti quegli anni ancora ci tenesse abbastanza da indicare il mio nome su un modulo, il fatto che fossi quanto di più vicino a una famiglia avesse mai avuto.
Mi presi qualche giorno al lavoro, riempii un borsone e la mattina successiva montai sul treno per Brighton. Le ore passavano e io cancellavo i chilometri che ci avevano separato, i ricordi di Bex che riaffioravano in massa. Ed ecco l’aria salmastra, i gabbiani che stridevano e si tuffavano, e una striscia azzurra in fondo alla strada, là dove il cielo incontrava l’oceano. Saltai su un taxi, diretta all’ospedale dove finalmente la ritrovai.
In seguito, la polizia mi disse che era persona nota, una tossica, occasionalmente prostituta, una di quelle donne che non contano niente. Presi tutte quelle informazioni sulla sua vita, ne feci un involto e lo gettai a mare. Quella non era Bex. Era semplicemente ciò che la vita aveva fatto di lei. Un tempo aveva avuto un futuro brillante, grandi ambizioni racchiuse in quel corpicino minuto, e loro gliele avevano prese, le avevano calpestate e l’avevano distrutta. E nonostante ciò che mi aveva detto tanti anni prima a Hyde Park, gli insulti che mi aveva urlato, sapevo che aveva mentito. Voleva essere ascoltata, tanto quanto lo volevo io. Aveva bisogno di sapere che contavamo qualcosa, che ciò che avevamo vissuto aveva un senso. Quello che non era riuscita a sopportare era stato il rifiuto. Lo stesso rifiuto che si ritrovava a dover affrontare ogni giorno e mese e anno che passavano senza indagini, senza arresti, senza processi né giustizia, senza voce.
Al funerale eravamo in sei. Io, il sacerdote e qualche amico in ordine sparso che aveva condiviso le ultime ore della sua caotica esistenza. Aveva trentun anni. E solo una manciata di persone che sapevano chi era.
Il prete disse che morire così giovani era un vero peccato e che da quel momento Dio avrebbe badato a lei. Seh, certo, come se gliene fosse mai fregato un cazzo quando era viva. Il che mi diede da pensare: perché cavolo avevo scelto una chiesa? Avevamo smesso di andarci non appena avevamo mollato la Kelmore. E adesso eccoci lì, a salutare la mia amica con il ronzio delle lagne di un sacerdote nelle orecchie, circondati dalla Vergine Maria, Gesù in croce, le candele, le statue, l’oro, seduti su banchi di legno duri e implacabili come la vita stessa. Perché sentivamo il bisogno di venire assolte per i nostri peccati?
Noi non avevamo fatto niente di male.
Non fecero l’inno finale. Al suo posto, avevo chiesto Saranno famosi (“Vivrò per sempre, imparerò a volare”). Il prete aveva protestato («Non è molto adatto»), ma fui felice di avere insistito.
Era l’unica cosa che avessi azzeccato.
All’esterno, il giorno mi colse di sorpresa. La primavera era sbocciata all’improvviso. Il cielo era di un azzurro abbacinante, un mite tepore permeava l’aria e la profumava d’erba e tulipani e vita nuova. Cercai una panchina e sedetti a guardare un uccello, una cosina fragile e minuscola, atterrarmi davanti prima di ripartire su una folata di vento. In quel pomeriggio splendido e idilliaco, ogni particolare dell’immagine sciorinata di fronte ai miei occhi – ogni colore e fragranza e suono, l’intensità e la chiarezza – mi mandava al tappeto. Tutta quella meraviglia era ormai fuori dalla portata di Bex. Niente più seconde occasioni, niente sogni, niente di niente. Mi lasciai scivolare a terra, fregandomene di chi mi avrebbe visto, di quello che avrebbe pensato, e piansi cocenti lacrime di rabbia.
Tornai al Loch Lomond, ma nell’istante stesso in cui smontai dal taxi mi resi conto che non potevo andare avanti così. Non avrei trovato la felicità fingendo che andasse tutto bene, simulando una vita. La mia rabbia bruciava, aveva un sapore acre. Tutta la forza che pensavo di avere costruito mi si sgretolò davanti agli occhi. La mia furia stillò nel lago goccia a goccia, creò un nero mare senza fondo, offuscò il cielo, spianò le colline.
«Porco diavolo» sbottò Mhairi quando mi vide. «Hai una cera di merda.» Avrei riso, se ce l’avessi fatta. Invece le crollai addosso e piansi, piansi come una bambina mentre lei mi tirava fuori tutta la verità, parola per parola, finché non rimase più niente da dire.
Mhairi mi trovò Agnes, una psicologa, perché «questo genere di schifezze ha bisogno di un aiuto professionale e io sarò anche un genio come parrucchiera, ma non sono una strizzacervelli». Andavo da Agnes una volta alla settimana. Una donna con un volto gentile e capelli biondi tutti ricci che danzavano con lei quando camminava.
«Daremo un nome a questa cosa» esordì durante la prima seduta. «È stupro. Abuso, sì, anche quello, ma di fondo è stupro. Lo stupro non è mai accettabile, in nessuna circostanza. Ricordalo. Ricordalo sempre.»
Più di tutto Agnes ascoltava, ma non era aliena dal dispensare suggerimenti. «Fai tutto quello che devi per stare meglio. Prendi tu il controllo. Se pensi che nessuno sia pronto a scrivere la tua storia o darla alle stampe, perché non farlo tu stessa?»
Entro sera, quelle parole avevano attecchito ed erano fiorite.
Aprii un sito, collegato a un blog.
Se siete capitate su questo sito web, probabilmente c’è una ragione. Una ragione di cui avete parlato a pochissime persone, o forse a nessuno. Un segreto che vi si è innestato nella pelle, è diventato ciò che siete. I miei segreti hanno un battito che pulsa in me giorno e notte andando a un ritmo tutto suo, contro corrente rispetto al mio. Mi butta giù quando voglio alzarmi, mi azzittisce quando voglio urlare.
Prima di tutto dovrei specificare che non sono qui per offrirvi conforto. Questo blog riguarda me, e la mia storia, e il bisogno di scriverne perché quando parlo, nessuno ascolta. Potrei snocciolare un lungo elenco di persone a cui mi sono rivolta, insegnanti, poliziotti, un reporter che aveva promesso di fare uscir fuori la verità. Non l’avete letta la storia, vero? Neppure io. Non ha mai visto la luce. C’era un motivo per cui l’ha dovuta mollare, ma non me l’ha mai voluto spiegare.
È dura non venire ascoltate, ma peggio ancora è quando ti ascoltano e non ti credono.
Perciò eccomi qua.
Non so dove mi porterà tutto questo, o dove finirà.
La cosa più probabile è che qualcuno lo legga. Persone come me, in cerca di frammenti di sé che si sono viste sottrarre anni fa. Questo blog non riguarda neppure la giustizia. Credo nella giustizia tanto quanto credo a Babbo Natale. La giustizia è per i ricchi e le persone di successo, quelli che mi hanno fatto questo. Volti che potreste riconoscere dalla televisione, dalla vita pubblica, voci che vi riportano all’infanzia. Alcuni vecchi, altri più giovani.
Sono brave persone, vi diranno. Sorridono e raccolgono fondi per cause benefiche. Ma più di tutto sono intoccabili. Potrei descriverveli o darvi le loro iniziali, ma non lo farò. Non posso permettermi di venire trascinata in tribunale, di contrastare il potere del loro denaro. Le loro parole valgono le mie dieci a uno.
Lo chiamai cosaèsuccessoallakelmore.com.
Dopo il primo post, ne scrissi altri tre in altrettanti giorni. Era un piccolo passo, ma il processo di organizzare i miei pensieri in una storia e raccapezzarmi in quel garbuglio di emozioni mi era d’aiuto. Non dico che fosse catartico. Non lo era. Non puoi ripulirti la testa scrivendo qualche pagina. Era più un gesto che assomigliava alle faccende domestiche, rassettare ed etichettare quel che provavo per farmi un po’ di spazio nella mente.
Alla fine della prima settimana, quando mi collegai trovai il primo commento.
Grazie di cuore per avere deciso di scriverlo. Anch’io ho subito violenze carnali, e le persone che hanno abusato di me non sono mai state consegnate alla giustizia. Ero in una casa-famiglia non distante dalla Kelmore e gli ambienti che descrivi tu sono molto simili. Com’è possibile che se la cavino impunemente?
La settimana successiva ne apparve un altro.
Sono stata alla Kelmore quattro anni prima di te. Penso che gli insegnanti sapessero, almeno alcuni di loro. È questa la cosa peggiore. Secondo me, sapevano cosa ci stavano mandando a fare.
Era strano e una novità e anche qualcos’altro che non riuscivo a inquadrare. Ce n’erano altre? Ovvio che c’erano. Era talmente evidente, ora che ci pensavo. Le altre ragazze alle feste. Ragazzi, anche, di quando in quando. Ma il demone crudele della violenza mi aveva fatto credere che Bex e io fossimo le uniche con i nostri sporchi segreti. Era più sicuro, così. Per loro, non per noi.
Tolti la polizia e il colloquio con il giornalista, per il resto si era sempre trattato di un monologo interiore. Bex e io non ne parlavamo mai. Perché avremmo dovuto? Nel nostro modo goffo avevamo cercato di passare oltre, credevamo di potercelo lasciare alle spalle, di poterci ricostruire. Ciò che non sapevamo era che ormai era parte di noi, quanto una gamba o un braccio. Era attaccato ai nostri corpi, aveva messo radici dentro le nostre anime. Quel che è fatto non può essere disfatto.
Allorché i commenti iniziarono a moltiplicarsi, e pian piano quei primi echi bisbiglianti si trasformarono in un chiacchiericcio che sedimentò in un coro, capii che stava succedendo qualcosa. Accadde un giorno, un anno più tardi o giù di lì, mentre scorrevo i commenti e vedevo una marea di persone esattamente come me. Il mio segreto aveva fatto di me un’emarginata, mi aveva isolata. Ora avevo trovato una tribù tutta mia.
Inevitabilmente, con il potere di una massa alle spalle, tornò in ballo la questione giustizia. Era sufficiente condividere le nostre esperienze e sostenerci a vicenda? Per qualcuna sì. Ma, chiesero altre, come possiamo essere certe che non stia succedendo ancora? Non era tempo che quegli uomini pagassero per i loro crimini? Io personalmente sapevo cosa volevo, sapevo che non avrei avuto pace finché quella gente non fosse stata smascherata. Fu allora che presi la decisione di lasciare il Loch Lomond e tornare a Londra, per lo stesso motivo per cui me ne ero allontanata.
La città mi aveva sconfitta, ma questa volta, con il vento a favore, avrei vinto io.
Sei mesi dopo, ero di nuovo insediata a Londra e stavo riflettendo su come dare maggiore risalto al nostro caso, quando nella cartella della posta in arrivo atterrò un’email molto particolare.
Veniva da Linda Moscow. Aveva letto il blog e voleva aiutare.
Ora, non ero completamente idiota. Mi informai per bene, perché ancora nutrivo una profonda diffidenza nei confronti di chiunque fosse legato all’establishment. Sapevo che Linda Moscow era stata ministro dell’Interno e che poi aveva lasciato la politica a causa di uno scandalo che l’aveva vista accusata di concedere appalti governativi ad amici e conoscenti.
Ma, ed era un ma enorme, aveva speso gran parte della carriera a battersi per migliorare le leggi a tutela dei minori. E di certo aveva agganci, influenza.
Che male c’era a risponderle?
A: lindajmoscow@btinternet.com
Cara Linda,
ti ringrazio per l’email e l’offerta di aiuto. Purtroppo la maggior parte delle donne si sente tradita dalle istituzioni, e a ragione. La fiducia è una faccenda complessa e non mi hai spiegato perché desideri essere coinvolta.
Charlie
Da: lindajmoscow@btinternet.com
Hai ragione da vendere a porre queste domande.
Conosco alcuni degli uomini che accusi. Non ho intenzione di negarlo. Ma ti prego di credermi, non sono amici miei. Non li vedo da anni.
Se hai fatto qualche ricerca su di me, e sono sicura che le hai fatte davvero, avrai visto che mi sono sempre battuta per una migliore tutela dei minori. Scoprire che questo tipo di abusi potrebbe essere stato perpetrato durante il mio ministero mi colma di vergogna.
Per quanto non possa cambiare il passato, sono decisa a ottenere giustizia per te e per le tue compagne di sventura.
Linda
A: lindajmoscow@btinternet.com
Ne abbiamo parlato con la polizia, la stampa, l’abbiamo detto ai servizi sociali. A nessuno sembra interessare. Nessuno ha indagato oltre. Pensano che siamo sgualdrine e alcolizzate. Pensano che dal momento che ci siamo andate di nostra volontà, allora è tutto a posto. Nessuno crede che le nostre testimonianze reggerebbero in tribunale. Perché tu ritieni di poter avere successo là dove tutti gli altri hanno fallito?
Charlie
Da: lindajmoscow@btinternet.com
Capisco che tu ti senta tradita da un sistema che in teoria avrebbe dovuto proteggerti. Posso solo scusarmi. Ma di certo questo non significa che dobbiamo semplicemente mollare e dargliela vinta, non credi? Non sto dicendo che sarà facile. Non sto facendo nessuna promessa. Ma ti do la mia parola, farò il possibile per smascherarli. Non posso farlo da sola. Non posso farlo senza parlare con le protagoniste e sentire i fatti. È questo ciò che voglio da te. Voglio sentire la tua storia, e non solo la tua, ma tutte quelle che posso, perché mentre una o due potrebbero ignorarle, è molto più difficile ignorarne dieci o venti o cinquanta.
Ti chiederei cortesemente di passare il mio indirizzo a chiunque voglia parlarmi. Come sai ci sono molte persone che preferirebbero che questa storia non venisse a galla. Sto facendo del mio meglio per tenere nascosto il mio lavoro, così da renderlo pubblico solo quando avrò raccolto abbastanza prove.
Con i miei migliori saluti,
Linda
www.cosaèsuccessoallakelmore.com
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Ricordate, siamo tutte qui per aiutarci a vicenda!
Pubblicato da Charlie Pedlingham
Ci ha contattato una donna che negli anni Novanta ha occupato una posizione di rilievo nel governo. Dice che sta scrivendo un libro sulle violenze in questione e che vuole denunciare gli uomini coinvolti. Ho fatto qualche ricerca e, per quanto mi è dato di capire, direi che è sincera. Vorrebbe parlare con qualcuna di noi, ascoltare le nostre storie. Ha promesso di proteggere le nostre identità. Se volete parlarle, vi prego di scrivere a me, vi metterò in contatto.
È un atto di fede, ma se vogliamo giustizia forse è un atto da compiere.
Charlie
La prima a scrivermi fu Jennifer Patcham, che accettò di vedere Linda la settimana successiva. Le misi in contatto.
E quella fu l’ultima volta che la sentii.