Giovedì, 16.38

Detective Victoria Rutter

Jennifer Patcham accoglie la detective Rutter con l’entusiasmo di un’agente immobiliare che ha adocchiato un potenziale acquirente. Il sorriso è talmente schietto che Victoria si sente in colpa mentre fa scivolare il distintivo sulla scrivania e comunica il vero motivo della sua visita.

«C’è un posto dove possiamo parlare in privato?»

Grazie al cielo in agenzia non c’è ressa e Jennifer la accompagna in un cucinino sul retro.

«Si tratta di Trey? Oddio, mi dica che sta bene.» Victoria nota con preoccupazione le lacrime che già si affastellano negli occhi dell’altra.

Trey ha cinque anni, e la detective fa del suo meglio per rassicurarla. Il piccolo sta bene, non è per lui che si trova lì.

«Mi è giunta voce che qualche mese fa lei ha visto Linda Moscow.»

All’udire il nome di Linda, Jennifer sussulta. «Ci siamo viste solo una volta» specifica, usando le punte delle dita per tamponare le lacrime.

«Posso chiederle perché? Non ha espresso il desiderio di parlarle di nuovo?»

Lo sguardo di Jennifer vaga per la stanza come se la risposta potesse essere celata dietro il frigorifero, fuori dalla finestra.

«È importante che me lo dica. Se ho capito bene, Linda Moscow lavorava a un libro che aveva lo scopo di denunciare una serie di violenze sessuali avvenute in passato, e lei aveva accettato di condividere la sua esperienza. Ho bisogno di sapere se la decisione di smettere è stata una sua scelta personale o se invece qualcuno ha esercitato pressioni.»

Altre lacrime, questa volta isteriche, quasi fossero andate accatastandosi per mesi e la domanda di Victoria avesse rotto gli argini, permettendo loro di tracimare.

«Pensavo fosse qui per questo.» La mano di Jennifer corre alla bocca mentre rivive il trauma del giorno in cui un uomo ha preso suo figlio, il giorno in cui ha temuto di non rivederlo più.

Di nuovo alla stazione di polizia, Victoria rimugina sul racconto di Jennifer, non solo riguardo al figlio, ma anche agli anni in casa-famiglia e agli orrori che ha subito. Non credere a nessuno, non fidarti di nessuno, metti in dubbio tutto. Sono le basi di qualunque indagine, ma perché Jennifer e una schiera di altre donne con storie pressoché identiche dovrebbero sentire il bisogno di mentire? L’idea che soffrano di una sorta di allucinazione collettiva non regge.

La teoria di Jonathan Clancy le appare meno campata per aria ogni minuto che passa.

Ha bisogno di cibo, sta esaurendo le riserve. Troppi fili da gestire tutti insieme, è come con gli spaghetti. L’insalata che le ha preparato il marito Doug come da istruzioni, con tanto amore, la guarda dal Tupperware posato sulla scrivania. Non la attira neanche un po’. Sta facendo la dieta del digiuno intermittente, e oggi è uno dei giorni a stecchetto, il che significa qualche fettina di cetriolo, una manciata di olive, carote grattugiate e qualche triste foglia di lattuga. Fanculo! Il neurone non le funziona mai bene quando mangia l’insalata. Terrà la fame per l’indomani.

Il sergente Clyde la intercetta sulla via della mensa. «Gomma da masticare, detective.»

«No, grazie. Sto andando a farmi un hot dog.»

«No, stavo parlando della gomma trovata nel bidone della spazzatura in cui abbiamo rinvenuto gli scarponi di Gabriel Miller. Il laboratorio ci ha appena mandato i risultati.»

«E?» La fame cede il passo all’eccitazione.

«Il profilo corrisponde a un uomo con la fedina penale sporca. I bidoni sono stati svuotati venerdì, il che lo piazza intorno a casa di Miller tra allora e domenica.»

Victoria si gira, lascia perdere la mensa. Addio hot dog.