Jay Huxtable
Sono stati gli eventi a far deragliare Jay. Non è così che sarebbe dovuta andare. Lui è un bravo ragazzo, ha sempre rigato dritto. Fino al sabato precedente, tutte le sue gesta criminali si riassumevano in una barretta dolce sgraffignata al supermercato quando aveva undici anni, e un fallo inciso sulla BMW di Toby. Cristo santo, se solo avesse saputo cosa sarebbe scaturito da quel banale atto vandalico, ora non sarebbe qui, a chiedersi perché non si riconosce più.
«Questa cosa non mi piace. Mi chiamo fuori» aveva detto a John il lunedì mentre uscivano da casa di Linda. Vedendo il caos in salotto, negli occhi dello scozzese si era acceso un lampo di ispirazione, il brivido di un’occasione. «Non toccate niente» aveva raccomandato a Linda e Anna. «È la scena di un crimine.» (Cavolo ne sa lui, quello è il suo campo.)
«Troppo tardi, Raggio di sole» aveva replicato John. «Hai già preso il biglietto, non si scende a metà corsa.»
E lui invece ci aveva provato di nuovo, prima di partire per la Scozia. Non aveva risposto alle telefonate di John, si era chiuso nell’appartamento, aveva trascorso l’intera giornata a leggere i post sul sito. Le accuse delle vittime questa volta gli erano rimaste attaccate al cervello, come fango. Si era reso conto che con tutta probabilità stavano dicendo la verità, e si era chiesto come cazzo avesse fatto a non notare i segnali. La risposta faceva male: si era ritrovato immerso in un mondo dorato che lo aveva reso cieco. E adesso aveva ammazzato Mariela, e il viso di lei, quel viso apatico che aveva visto l’ultima volta nell’orto, lo perseguitava. Lui non era quel tipo di persona, un assassino, un brutto ceffo, lo schifoso che colpisce una donna e poi ne scarica il cadavere affinché una vecchia lo trovi la mattina successiva.
O forse era davvero tutte queste cose.
Le prove erano contro di lui.
Non poteva riportarla in vita, però poteva andare alla polizia, costituirsi, pagare per il crimine commesso. Aveva preso in considerazione l’idea di venire interrogato dagli ex colleghi, gli stessi che solo poche settimane prima ammiravano i suoi nuovi giochini di lusso, gli abiti, l’auto.
Stai andando alla grande, amico.
E aveva preso in considerazione l’idea di andare in prigione, venire pestato e peggio... perché era stato un poliziotto.
Aveva tirato su il telefono, digitato il numero, ripetuto la confessione, ho ucciso una donna, ho ucciso una donna, ho ucciso una donna. Era rimasto ad ascoltare gli squilli. Aveva ascoltato la centralinista che rispondeva, lasciato che tra loro si protraesse il silenzio.
E poi aveva riattaccato, e aveva pianto come un uomo non dovrebbe mai fare.
A quel punto doveva uscire, mettere qualcosa sotto i denti, tornare a sentirsi umano. Per fortuna era a Londra, in mezzo a tutta quella gente che se ne sbatteva di lui, che lo ignorava completamente. Al take-away indiano nessuno si preoccupava di quel che aveva fatto, purché pagasse il suo jalfrezi di pollo, e nella rivendita autorizzata di alcolici il commesso gli aveva sorriso come fosse stato un tizio qualunque che aveva voglia di un po’ di birra.
Forse, aveva pensato, se nessuno lo sa, puoi nascondere la verità anche a te stesso.
E invece, al ritorno la verità era là ad aspettarlo.
«Sembri avere scordato le buone maniere. Quando io chiamo, tu rispondi, chiaro?» aveva intimato John.
Jay avrebbe annuito se avesse potuto muovere la testa, ma l’altro l’aveva inchiodato al muro e gliela teneva stretta nella morsa delle mani.
«Non mi inviti dentro? Ho proprio voglia di una birra, e quel curry manda un profumino delizioso» aveva commentato lasciandolo andare. «Ho qualcosa da farti vedere.»
Quattro fotografie, scattate di notte. O, per essere più precisi, nelle prime ore della domenica precedente. Lo ritraevano mentre trasportava il cadavere di Mariela attraverso gli orti. «Dovrai portarcela a braccia», Jay aveva ricordato le parole di John. Perché io?, aveva pensato, ma non l’aveva chiesto. Adesso era chiaro, perché.
Potere.
«Diciamo che al tuo posto eviterei di avere ripensamenti, ecco. Ti conviene pregare che incriminino Gabriel Miller, perché se non lo fanno cominceranno a cercare un altro sospettato. Mi senti?»
Forte e chiaro.
Quando arriva alla fattoria in Scozia, non è il vero Jay Huxtable a parlare con Anna o Charlie. È un altro, qualcuno che finge di essere d’accordo con il piano di John. Vede Anna nell’auto e sta già correndo fuori prima ancora che il furgoncino abbia frenato, vuole raggiungerla per primo. Lui sa qualcosa che John non sa. Il brandello di messaggio nella sua segreteria telefonica, la sera precedente. Solo poche parole prima che cadesse la linea, ma abbastanza per trasmettergli il suo panico, la rabbia per il presunto errore della polizia. Linda voleva aiutare le indagini, non ostacolarle.
Ora deve calmarla prima che John si renda conto della situazione, altrimenti è spacciata.
«Stai al gioco, solo per ora» le dice, spera che capisca, prega che il suo viso comunichi il pericolo in cui si trova. «Non dire nulla a John. Farò quello che posso.»
Visto? A dispetto di tutto, Jay non ha ancora smesso di essere un bravo ragazzo.
La giornata scorre e lui cerca di organizzare un piano, senza però arrivare a nulla. Quando sente Anna accompagnare Linda fuori dalla stanza il cuore gli si accende di speranza, e quando poi vede l’ex ministro sgattaiolare nell’erba fa finta di non accorgersene. Solo quando John gli grida: «Che cazzo... stai dormendo, amico? È fuori!» fa la scena di rincorrerla.
In seguito, quando la tizia del negozio arriva a consegnare una trota, Jay lascia che sia Anna ad accoglierla e a consegnarle la lista della spesa.
Jay dà un occhio alla lista prima che venga passata a quella donna. Sta per commentare ma poi si ferma. Capisce cos’ha in mente Anna. Non è un gran piano, a dir la verità.
Ma la lascia fare comunque.