Charlie
Dopo avere incontrato Henry per strada, sapevo che non sarei riuscita a prendere sonno. I pensieri si accavallarono e turbinarono per tutta la notte. Cosa ci faceva da quelle parti? Davvero Linda aveva appuntamento con lui e, in tal caso, perché? All’alba, esausta e sconfitta, mi alzai, mi vestii e lasciai il villino nella speranza di riuscire a parlare con Jay.
Di fuori, una quiete innaturale aveva sostituito il temporale, le gocce di pioggia che ammiccavano come per scusarsi delle scenate della sera prima. Feci su e giù per la strada, il telefono in alto, pregando di vedere almeno una tacca.
Niente. Era come se l’acquazzone si fosse portato via il segnale, recidendo il mio ultimo collegamento con il mondo esterno.
Linda mi aspettava in corridoio quando rientrai. Bagagli pronti.
«Hai davvero una brutta cera.»
«Ti ringrazio.»
«Dove sei stata?»
«Dovevo fare una telefonata.»
«Dobbiamo andare. Oh, Anna, stai bene?»
Le lacrime tracimarono. Datti una calmata. «Sono solo stanca, tutto qui. Alla faccia dell’aria di campagna.»
I lineamenti le si contrassero per la preoccupazione. «Mi dispiace. È tutta colpa mia.»
Soffocai la tentazione di dirle che me ne andavo, in quel preciso istante, che sarei saltata sul primo traghetto. Non potevo, la curiosità e il dubbio mi dicevano di restare. Se me ne fossi andata in quel momento, non avrei mai scoperto che intenzioni aveva.
«Forza, andiamo all’appuntamento. E poi potremo dargli l’addio una volta per tutte» dissi indicando la testa di cervo sulla parete.
Il tragitto ci condusse sempre più lontano dalla civiltà. Le strade si ridussero a una sola corsia, ci portarono in alto e rivelarono strapiombi a picco sul mare. Nuvole gonfie di pioggia ci accerchiarono. Eravamo sul ciglio del nulla. Isolate, tagliate fuori, esiliate. Le prassi comuni erano state spazzate via.
La mia ansia raggiunse il punto di rottura. «Il libro non è su donne e politica, vero?»
L’accusa rese elettrica l’aria.
«Scusa?»
«Politiche. Non è quello l’argomento.»
Sospirò, colta in castagna. «No, non lo è. Suppongo sia questo che stavi controllando ieri sera in camera mia.»
«Già.»
«Quanto hai letto?»
«Quanto basta.»
«In tal caso, mi auguro che tu capisca perché non volevo assolutamente coinvolgerti. Quegli uomini sarebbero disposti a fare di tutto pur di mantenere il segreto.»
«E tu come fai a saperlo?»
«Diciamo solo che non è la prima volta che ci provo.»
La guardai, in cerca di un segno che stemperasse la mia preoccupazione. Invece, nei suoi occhi trovai terrore. «Puoi tornare indietro, se vuoi. È stato sbagliato da parte mia indurti ad accompagnarmi con l’inganno. Mi dispiace.»
Le domande mi rimbombavano in testa, ma le tenni a bada. Più indagavo, e più c’era il pericolo che saltasse fuori la verità. Dovevo mantenere saldi i nervi e i propositi. Per il momento.
Continuai a guidare in silenzio, concentrata sulla strada da percorrere, esclusi tutto il resto. Dovevo resistere ancora solo poche ore, e poi sarebbe finita.
«Hai un messaggio vocale» osservò Linda. Stava usando il mio cellulare per controllare le indicazioni stradali, l’aveva messo nel vano tra i sedili.
Jay. Doveva essere lui, che rispondeva alle mie telefonate. Ebbi un tuffo al cuore. Dovevo sapere cosa diceva, come muovermi. Azzardai un’occhiata verso il basso.
Linda urlò. Un albero ci stava venendo incontro.
«Sono sicura che può aspettare» commentò. «Sarebbe carino uscirne vive.»
Il sito dell’incontro era un rudere fatiscente, intonaco che cadeva a pezzi, muschio che fioriva sui davanzali, tegole mancanti. Alcune finestre erano rotte. Non mi quadrava. Ogni osso mi diceva che c’era qualcosa che non andava.
Perché?
La domanda giunse come una folgorazione.
Perché ci trovavamo lì?
La mancanza di una qualunque spiegazione logica mi spaventò. Linda mi aveva forse fregato? La paura si addensò dentro di me, pesante come cemento. Le nuvole oscuravano il giorno. Il tanfo di acqua stagnante saturava l’aria.
Linda partì per un giro di ricognizione. Le dissi che l’avrei seguita, ma prima dovevo sentire i messaggi.
Segnale. Lì! Pazzesco. Le mani mi tremavano mentre digitavo. Un occhio su Linda, che marciava qua e là ispezionando il territorio, scuotendo la testa confusa. Se era una bugiarda, era da Oscar.
«Qui è il sergente Clyde. Mi hanno riferito che ha cercato il sergente Huxtable. Mi dispiace doverla informare che non possiamo inoltrare il suo messaggio perché il signor Huxtable non lavora più per la polizia di Londra. Mi hanno detto che ha parlato di un’indagine, quando ha chiamato. Immagino si riferisca a una storia vecchia perché il sergente è stato sospeso a gennaio e non è più rientrato. Le sarei riconoscente se mi chiamasse con una certa urgenza allo 0207 302 302 per discutere della faccenda.»
Il cielo si incrinò, poi si spaccò a metà.
Jay.
Mi aveva mentito, ci aveva attirate in trappola, ci aveva spinte lì dove nessuno ci poteva sentire. Avevo guardato nella direzione sbagliata per tutto il tempo. Non era Linda quella che mi stava dando la caccia. Era lui, e chiunque fosse il suo datore di lavoro.
Curtis. Henry. Quelli che ci avrebbero guadagnato dalla nostra scomparsa.
«Linda!» urlai. Non era la mia voce. Il panico mi mozzava il respiro, il sangue mi salì alla testa. Dovevamo andarcene. Subito. Si girò a guardarmi ma non fece un passo. Le corsi incontro. «Sali in macchina »
Paura. Ecco cosa vidi. Qualcosa era cambiato. Aveva paura di me.
«Chi sei?» bisbigliò, la voce fioca, spezzata.
Che magnifica, terrificante ironia! La prima volta che le mie intenzioni erano sincere, e Linda aveva scelto proprio quel momento per smascherarmi.
«Entra in quella cazzo di macchina.»
La afferrai, presi a trascinarla verso l’auto. «Dobbiamo andarcene.»
«Chi sei?» chiese ancora.
Cosa rispondere? La spiegazione si srotolava all’indietro per anni, strato su strato su strato. Ferite e dolore. La perdita di un’amica.
Troppo da strizzare in un secondo. Le parole ci avrebbero rallentate.
«Limitati a fare quello che ti dico.»
Lei non lo fece. Non Linda. Cocciuta più di un mulo.
Scalciò e artigliò e graffiò, e quando si rifiutò di montare in macchina la schiaffeggiai, forte. Un riflesso, istinto di conservazione, un istante in cui tutto ciò che contava era allontanarci da quella fattoria.
In auto, portiere bloccate, Linda che gridava, martellava di pugni il finestrino.
La chiave era nel blocchetto di accensione, c’eravamo, c’eravamo quasi, ancora un minuto, trenta secondi. Era tutto il tempo che ci serviva.
Tempo che non avevamo.
Il furgoncino sterzò fuori strada, scese nel vialetto, ci spedì addosso pennacchi di polvere. Erano loro, non avrebbe potuto essere nessun altro. Inutile partire, un inseguimento automobilistico su quelle strade ci avrebbe fatte finire giù da un dirupo. Incidente, avrebbero detto. Comodo.
Non potevamo andare da nessuna parte.
Linda esalò un sospiro di sollievo, pensava fossero venuti a salvarla, e in quei pochi, frenetici istanti feci un calcolo: dovevo dirle chi erano?
Oppure era meglio non dirle niente, continuare a comportarmi come se fossi dalla loro parte nella speranza di trovare un modo per salvarci?
Jay fu il primo a raggiungermi. «Stai al gioco» sussurrò, il tono a malapena udibile. Avrei voluto urlare e prenderlo a calci e morderlo e cavargli gli occhi per quello che aveva fatto, ma a cosa sarebbe servito?
«Non dire nulla a John. Farò quello che posso.»
A lui.
John, che si dirigeva verso di noi. «Ti prometto che troverò un modo...» Jay lasciò la frase in sospeso, incompleta.
Gli credevo? Era importante?
Era l’unica speranza che ci fosse rimasta.
Mi lasciò andare da Linda, finse di non notare che mi allontanavo dal salotto. E quando lei saltò fuori dalla finestra del bagno, diretta alla strada, se anche se ne accorse non reagì. Restai a guardarla, esultante e colma di speranza finché la vidi correre, spaventata allorché lo sfinimento le rallentò il passo. Solo quando John la vide e urlò «Cazzo fai?», Jay si avviò e lo seguì di fuori per bloccarla. John era veloce. Non c’era gara. Pestava il terreno, le braccia come stantuffi, guadagnava metri. Il nostro piano di evasione venne sventato. Nel momento in cui la spinse, mi girai, non volevo assistere all’inevitabile caduta. Non potevo guardare il suo viso. Avevo già abbastanza lacrime di mio.
E poi mi costrinse a colpirla.
Una prova che dovevo superare.
L’arrivo di Emily Lune del negozio portò un altro lampo di speranza. Si presentò con una trota non richiesta. «Gliel’avevo detto che l’avrei portata.» Davvero? Non riuscivo a ricordarlo. Non che fosse importante. Era lì, in piedi davanti a me, un volto amico. Un collegamento con il mondo esterno.
«Come la preparo?» Una noce di burro, un pizzico di sale, un salto rapido in padella. Lo sapevo già, cercavo solo di guadagnare tempo, di comunicarle con gli occhi ciò che non potevo spiegare a voce. Emily mi restituì uno sguardo vacuo.
Le mani mi fremevano, smaniose di protendersi verso di lei, implorarla di aiutarci. Ma sentivo John in corridoio. Una parola di troppo, e tutta la mia commedia sarebbe saltata. Inoltre, Emily era da sola. Non sarebbe riuscita a salvarci, mentre in compenso se la sarebbe vista brutta per averci provato.
Fece per accomiatarsi. «Be’, allora vado.»
«Ah, aspetti solo un attimo. Le do quella lista della spesa.»
«Lista della spesa?... Ah, certo. Viene gente?»
«Giusto un paio di persone.»
Feci un salto in soggiorno, afferrai una penna, un foglio dalla credenza, e scarabocchiai in tutta fretta.
Aragosta
Indivia
Uova
Timo
Aceto
Maionese
Indivia
Jay studiò l’elenco, gli occhi che correvano su e giù. Se n’era accorto? Gli importava? Mi stava concedendo un’ultima occasione?
«Benissimo» commentò Emily prendendola. Un sopracciglio si inarcò alla vista dell’aragosta. Era un tentativo penoso, destinato a fallire, ma date le circostanze fu il meglio cui riuscii a pensare.