Aprile 2017

Linda

C’era una fotografia che riassumeva l’effetto di quella notte su Tighnabruaich. Apparve pochi giorni dopo il nostro salvataggio, una ventina di furgoni delle televisioni parcheggiati lungo la costa, le paraboliche levate al cielo, che trasmettevano ogni dettaglio della nostra storia negli angoli più remoti del pianeta.

Al contrario della maggior parte dei fatti di cronaca, il nostro acquistava sempre più vigore anziché sgonfiarsi. Ogni giorno, a volte ogni ora, arrivava un nuovo sviluppo. John McKee venne incriminato per l’omicidio di Mariela Castell. Lui si dichiarò innocente, ma venne condannato da una giuria dell’Old Bailey, la Corte penale centrale di Londra. Il cadavere di Jay Huxtable non fu mai rinvenuto. Charlie denunciò nuovamente contro Curtis e quest’ultimo cercò di prendere le distanze da Henry (da ridere, eh?), sostenendo di conoscerlo appena. Per un po’ sembrò che sarebbe riuscito a sfangarla di nuovo. Era tutto minacce e grida. Com’era possibile che accusassero lui di una cosa del genere? Dieci milioni di sterline elargiti in beneficenza, migliaia di ragazzini a cui veniva data l’occasione della vita dalla sua fondazione teatrale, la stessa linea adottata dalla difesa. Le sue creazioni – l’orso Otis in Vita da orsi, per dirne una – erano state gli amici d’infanzia di milioni di persone. La colonna sonora dei suoi film, la musica dei primi anni. Il suo intero lavoro era un arazzo di innocenza e felicità e visi sorridenti in cui i buoni vincevano e le streghe cattive venivano sconfitte. Non poteva essere vero. Era blasfemo.

La sua reputazione di brava persona era talmente radicata nella psiche nazionale che ci volle un cambio di paradigma per convincere il popolo del contrario. Pian piano, però, i cronisti cominciarono a capire che era proprio quello a renderlo tanto pericoloso. Il manto della fama gli aveva permesso di fare quel che voleva sotto gli occhi di tutti.

Fu una notizia giunta da dove meno ce lo si sarebbe aspettato a segnare il suo destino. La moglie di Henry, Valerie, rivelò l’esistenza dei conti offshore del marito, su cui Curtis aveva versato ogni mese cifre assai generose. Quello, il regista non riuscì a spiegarlo.

L’incriminazione di Curtis Loewe costituì uno spartiacque. Nel giro di qualche settimana, la polizia si trovò di fronte un’altra cinquantina di denunce per violenze. A Henry, già in custodia cautelare per tentato omicidio, vennero contestati dieci capi d’accusa, casi di abusi su minori che risalivano fino agli anni Ottanta. Lentamente, anni dopo che la storia era cominciata, emerse il quadro completo: una rete di violentatori prosperata grazie a un insabbiamento su scala industriale. Le voci discordanti, quelle che insinuavano che le ragazze magari avevano mentito sulla loro età («Avevano quindici anni, era quasi legale»), le stesse che difendono il palpeggiamento delle donne sul luogo di lavoro come semplice scherzo, si ridussero al silenzio, il loro brusio rimpiazzato dal clamore delle storie delle sopravvissute. Finalmente, il mondo stava ascoltando.

Io rilasciai la mia dichiarazione alla polizia. Raccontai loro ciò che avevo fatto, la lettera al sovrintendente capo Bill Joplin che Henry Sinclair aveva stilato, e spiegai perché avevo accettato di firmarla. Ovviamente ero consapevole che il mio comportamento non aveva scusanti. Era abuso di potere. Fatte le debite indagini, il Dipartimento della pubblica accusa decise di non incriminarmi. Non riuscivo a capire se sentirmi sollevata o delusa. Avrei dovuto pagare per ciò che avevo fatto passare a quelle donne e, in un certo senso egoisticamente, avevo sperato che un breve interludio in galera potesse cauterizzare la vergogna che mi ero portata in giro tanto a lungo.

Charlie fondò una sua organizzazione benefica per aiutare le vittime di violenza. Mi chiese di entrare nel consiglio d’amministrazione, un’offerta cui pensai parecchio prima di accettarla. «Non mi aspetto che mi perdoni» chiarii.

«Non è rimasto niente da perdonare.»

Non ne sarei tanto sicura.

Spesso la bobina con le immagini di quella notte viene proiettata nei miei sogni. La mia mano sulla spalla di Charlie, e poi lei che non c’è più, sparita sotto la nera superficie.

Il trauma ha rarefatto i ricordi, resta solo il contorno degli eventi principali, poco del contenuto.

Quel che cerco di dire è che ho solo la parola di Charlie su ciò che è accaduto quella notte.

Charlie

Ecco cosa ho scoperto: venire ascoltata non spazza via il dolore. Ne cambia solo la sostanza.

Non ho più vergogna, ma al suo posto è subentrato il rimpianto. Sono ancora arrabbiata per quello che ci hanno preso, e per come ha cambiato le nostre vite. Vorrei che Bex fosse ancora qui, ma ovunque sia, spero sappia che la sua storia è stata raccontata. Che è importante. Che lo è sempre stata.

Giusto e sbagliato non sono diametralmente opposti. Le scelte sono complicate. Facciamo quel che dobbiamo per sopravvivere. E proteggere.

Sono più forte di quanto pensassi.

Bisogna essere forti per perdonare.

Non perdonerò mai Henry né Curtis né nessuna di quelle celebrità che tanto ci hanno sottratto e ancora non hanno mostrato rimorso.

Ma ci sono altri che ho perdonato.

Eccomi qui, seduta nel giardino di Linda con il mio terzo bicchiere di “punch estivo speciale”. Siamo amiche, Linda e io, un’accoppiata a dir poco improbabile. Siamo il reciproco memento che le brave persone possono commettere cattive azioni.

Ha fatto un discorso al mio matrimonio, l’anno scorso, leggendo un brano da Alice nel paese delle meraviglie. Ha detto che la mia favola personale aveva subito un ritardo, ma finalmente si stava avverando. Ha detto di non avere diritto di essere orgogliosa ma di esserlo comunque, e che era fortunata ad avermi nella sua vita. Ha aggiunto che non me ne faceva una colpa se in passato avevo tentato di ammazzarla. Quel che finisce bene... ha detto.

La magnolia è drappeggiata sopra le nostre teste, i boccioli sono calici rosa e crema su cui si posano le api, impigrite dal polline. Nell’aria indugiano gli ultimi sprazzi di calore. Ho la testa confusa dall’intruglio micidiale di Linda.

Accanto a noi, mio figlio sonnecchia nella carrozzina. Le guanciotte da bimbo sono morbide, le braccia spalancate, arrese al sonno.

«Raccontami» chiede Linda.

E così mi lancio di nuovo nella storia che le ho raccontato un’infinità di volte. Un giorno, penso, a furia di ripeterla smetterà di avere dubbi.

«Ho sentito le tue mani sulla spalla, proprio sopra l’osso. Il vento mi mordeva le guance. Mi hai tirata indietro, e ho capito che avevi intenzione di buttarti tu. Avevo molte più chance di te di sopravvivere all’acqua gelida. Senza offesa, ma l’età era dalla mia.»

Esala lo sbuffo che fa sempre a questo punto.

«Mi sono buttata.»

Linda guarda mio figlio, gli fa correre dolcemente un dito sul viso. «È bellissimo.»

«Tutto sua madre.»

Farei qualunque cosa per proteggere il mio bambino. Qualunque.

Capisco le decisioni di Linda, quell’amore feroce e istintivo che ha la meglio su tutto.

Ma Linda non mi ha spinto, quella notte. Sono io che mi sono buttata per proteggere entrambe.

Linda

Che ne è dunque di mio figlio, il bambino che è al principio e alla fine di tutto questo?

Sono tornata dalla Scozia giusto in tempo per la sua scarcerazione. Un momento privato illuminato dai flash di un milione di macchine fotografiche. La stampa si era goduta l’incubo, ora voleva il lieto fine. Giusto un filo volubile.

«Abbraccia tua madre» urlavano i fotografi, alla caccia dello scatto miliardario.

E Gabriel, intontito dalle luci, non ancora del tutto in sé (non per parecchio tempo a venire), ha ubbidito. Ricordo quella stretta, il calore delle sue braccia che mi circondavano, la purezza dell’istante a lungo sognato. «Mi dispiace» e gli ho baciato le guance. Un nuovo inizio, ho pensato.

Non così in fretta.

Il mio bambino era ammalato. La vita, che gli aveva elargito fama e ricchezza a piene mani, gli si era rivoltata contro alla velocità del lampo. Era una lezione brutale sulla celebrità, su quanto è effimera. Non, come Gabriel si era concesso di credere, una struttura permanente, ma un semplice bagliore, che una bava di vento poteva distruggere in un istante.

Il nostro riavvicinamento non è durato molto. Non più di qualche giorno prima che dovessi spiegargli che Hugh non era il suo vero padre, che non gli avevo mai detto la verità, che era figlio di era Curtis Loewe, l’uomo più disprezzato della nazione. La notizia l’ha sconvolto. «Tutte le nostre fondamenta poggiano su una menzogna» ha detto.

«No» ho replicato. «Poggiano sull’amore che nutro per te.»

Ma erano solo parole, non avevano il potere di raggiungerlo.

Immagino sia la mia penitenza.

Il mio legame con Gabriel non si lascia riparare.

Sopravvive, in qualche modo, perché Jonathan è troppo cocciuto per lasciarlo morire. Gabriel si è trasferito da lui poco dopo il rilascio. Era una sistemazione provvisoria, nata una sera in cui è crollato a metà del filetto di manzo in crosta di Jonathan.

«Chi diavolo sono?» ha urlato.

«Tipico della mia cucina scatenare una crisi esistenziale» ha risposto Jonathan. Gli ha preparato un letto nella stanza degli ospiti e ha insistito perché si fermasse. È stato lui a farlo aprire, e di recente l’ha convinto a cercare l’aiuto di cui ha bisogno.

Raggira Gabriel per fare in modo che ci vediamo. Pranzi in cui omette di dirgli che ci sarò anch’io. Veleggia tra i nostri silenzi imbarazzati. Ci lascia da soli per parlare. Una volta ci ha chiusi a chiave in casa sua, “per puro caso”, ovviamente. A oggi, è stata l’unica volta in cui abbiamo concesso al passato di diventare argomento di conversazione. E Gabriel ha parlato con franchezza del ricordo che l’ha ossessionato in tutti questi anni: quel giorno al parco, da solo.

«Mi avevi abbandonato, vero?»

«Sì.»

Depressione, gli ho spiegato. È così che la chiamerebbero adesso. Adesso tutto ha un nome. Non mi sono lasciata aiutare, in ogni caso. E ho cercato di superarla da sola. E il più delle volte ci riuscivo, navigavo relativamente tranquilla. Il lavoro mi teneva a galla, il desiderio di fare bene. Altri giorni erano irrimediabilmente neri: in quegli istanti la mia mente si accartocciava.

Quel giorno ho lasciato il parco perché non ce la facevo ad avere intorno mio figlio. Non ce la facevo ad avere intorno me. Ha ragione. Me ne sono andata, lasciando solo un bambino di otto anni.

Che brava madre.

«Ho sempre sentito di dovere essere perfetto perché tu mi amassi. Adesso tutto ha un senso, immagino. Dovevo essere perfetto, o sarei stato come...» Non ha concluso la frase. Non ce n’era bisogno, sapevamo entrambi di chi stava parlando.

Abbiamo parlato e parlato, ci siamo sfiniti senza concludere niente. Qualunque risposta offrissi non leniva la sua confusione. E siamo rimasti svuotati, entrambi. Ci abbiamo messo ore, e non abbiamo fatto alcun progresso.

Forse fin dall’inizio era destino che andasse così.

«Il potere terapeutico della verità è decisamente sopravvalutato» ho detto a Jonathan quella sera mentre ci facevamo un drink.

«Questo perché la verità non gliel’hai detta. Vorrei che lo facessi...»

«Hai promesso di non dire una parola.»

«Finché avrò vita» mi assicura.