Giunto a Roma dalla natia Frosinone insieme al fratello Arturo, Anton Giulio Bragaglia sperimenta nella fotografia la possibilità di sovrapporre immagini e di suggerire sfumature cromatiche fino al cosiddetto «effetto di trasparenza». Le ipotesi creative avanzate dai pittori e dagli scultori futuristi nei loro primi manifesti lo inducono a prospettare un avvio di fotografia futurista, che fin dal 1911 divulga sotto il nome di «fotodinamica» e di cui riassumerà i principi nella silloge Fotodinamismo futurista, del 1913. Ma i pittori del gruppo (Boccioni, Carrà, Russolo, Severini, Soffici) sconfessano questo scomodo compagno di strada con un avviso apparso su «Lacerba» il 1° ottobre 1913. Boccioni è, anche a livello privato, il più accanito contro l’ingombrante ciociaro: «È una presuntuosa inutilità che danneggia le nostre aspirazioni di liberazione dalla riproduzione schematica o successiva della statica e del moto…». In realtà, nel corso di tutte le promulgazioni del credo visivo-plastico futurista che si erano susseguite tra la primavera e l’estate del 1913, gli artisti avevano marcato con molta nettezza il loro distacco dal mezzo fotografico, quale deleterio strumento di rappresentazione dell’aspetto esteriore della natura e degli individui. Nel Fondamento plastico della scultura e pittura futuriste, del 13 marzo 1913, Boccioni aveva insistito sulla necessità di rivelare «le distanze tra un oggetto e l’altro… con linee sensibili che non corrispondono alla verità fotografica». Nella stessa data Carlo Carrà, nel suo Piani plastici come espansione sferica dello spazio, esprimeva il suo dissenso da «naturalisti» e «veristi», che «cercarono l’oggettivo e caddero in una rappresentazione esteriore e fotografica». Ancora Boccioni, ne Il dinamismo futurista e la pittura francese del 1° agosto 1913, ribadisce: «Una benché lontana parentela con la fotografia l’abbiamo sempre respinta con disgusto e con disprezzo perché fuori dell’arte». Dopo la «diffida» a Bragaglia, il 15 dicembre 1913, Ardengo Soffici, ne La pittura futurista, riprovava qualunque rappresentazione «al modo usuale veristico», cara agli spettatori «filistei» del fatto artistico, osservando: «È il solito amore per ciò che, così all’ingrosso, chiameremo il fotografico, il quale, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra».

Tutto questo insieme d’interventi spiega perché Marinetti e i suoi decisero di tacere piuttosto a lungo sulla fotografia, sino al manifesto del 1930, firmato dal capofila e da Tato, nom de plume del bolognese Guglielmo Sansoni, che nel 1920 aveva organizzato il proprio funerale per «rinascere», per l’appunto, ventiquattrenne e futurista.

Il nome di Bragaglia ritorna a proposito della curiosità dei futuristi per il cinema. Dopo aver fondato nel 1916 la rivista «Cronache d’attualità», Anton Giulio realizza infatti il film «euritmico, geometrico» Perfido incanto (1916), prodotto dalla Novissima Film di Emidio De Medio, girato con obiettivi particolari, specchi convessi e concavi, trucchi ingegnosi, protagonisti Thaïs Galitzki, Renée April e Nello Carotenuto. Nello stesso anno Arnaldo Ginna, Bruno Corra, Emilio Settimelli, Giacomo Balla e Marinetti girano il film Vita futurista, di cui sono interpreti Remo Chiti, Neri Nannetti, Lucio Venna e altri. Ce ne rimane solo un resoconto apparso su «L’Italia futurista», che inanella le varie sequenze sotto i rispettivi titoli: alcuni sono esplicitamente programmatici (per esempio «Come dorme un futurista», «Colazione futurista», «Declamazione futurista», «Passeggiata futurista», «Tè futurista»), mentre altri riescono intenzionalmente politici (come «Perché Cecco Beppe non muore» e «Passo interventista»). Il manifesto La cinematografia futurista fa la sua comparsa, non a caso, l’11 settembre 1916.