8

Non bastava che fosse costretto a sposarsi, pensò Gil mentre percorreva il corridoio. Cosa infinitamente peggiore, Lancaster gli aveva assegnato una sposa che era incapace di mantenere i segreti che lui era stato tanto imprudente da confidarle.

Non solo si era sentita in dovere di informare la regina del loro matrimonio. Evidentemente, si era anche lasciata sfuggire che la flotta castigliana era in vista della costa. Di conseguenza, l'atterrita sovrana aveva insistito affinché il duca mandasse la sua intera corte in campagna, Anziché pianificare una difesa dell'isola, lui aveva trascorso la mattinata a inviare messaggeri ai castelli di Hertford, Higham Ferrers e Kenilworth per vedere quale dei tre fosse in grado di ospitare e difendere la regina e le sue dame.

Il Signore della Spagna era oltremodo contrariato e Lady Valerie non avrebbe tardato ad apprenderlo.

Gil entrò nell'anticamera dell'appartamento della regina senza farsi annunciare e la scorse in ginocchio, circondata da decine di casse e bauli.

Lei non alzò lo sguardo.

«Questa cassa contiene l'altare e il crocifisso della regina.» Lo indicò come se stesse impartendo istruzioni a un servo. «Deve essere sollevata con la massima cura e caricata sul primo carro. Lei vorrà averli appena giungeremo a destinazione per ringraziare il Signore di averci concesso un viaggio privo di pericoli.»

Portò lo sguardo su altri oggetti, come se si aspettasse che un servo si presentasse per prelevare la cassa.

Quando però Gil rimase immobile, in silenzio, lei ordinò di nuovo: «Venite, presto».

Poi alzò la testa, lo vide e balzò in piedi. «Perdonatemi, mio signore. Non mi ero resa conto che foste voi.» La donna che con tanta autorevolezza aveva impartito ordini a un servo invisibile chinò la testa e abbassò gli occhi.

Lui diede libero sfogo al suo furore. «Quando diventerete mia moglie, esigo che non riferiate alla regina le mie confidenze!»

Quelle parole parvero rimbalzare sulle pareti e lei fu percorsa da un brivido. Il suo viso rispecchiò un momentaneo terrore, come se si aspettasse di essere colpita. Affrettandosi a riabbassare la testa, piegò un ginocchio. «Non ho pensato che a servire fedelmente la regina come voi servite suo marito. Immaginavo che il Signore della Spagna avrebbe desiderato proteggerla nel caso che...»

Nel caso che fosse accaduto il peggio.

Quel pensiero lo indusse a tenere la lingua a freno. Era effettivamente preferibile che la regina si trovasse in un posto sicuro, e Gil si vergognò per il fatto che né lui né il duca ci avessero pensato.

Si schiarì la gola, sforzandosi di mantenere la calma. «È vero, sì.» Le aveva ordinato di tacere? Non riusciva a ricordarlo. E anche se lo avesse fatto, nessun uomo avrebbe dovuto inveire contro la propria moglie, come se fosse stata un bue che si rifiutava di tirare l'aratro.

Valerie incontrò i suoi occhi. «Infliggetemi la punizione che merito.»

Punizione? Per chi lo aveva preso quella donna? In collera com'era, la sua esagerata docilità gli parve un'accusa. Come se, dopo che lui aveva tentato per tutta la vita di attenersi agli ideali del cavalierato, lei fosse in grado di percepire l'oscurità che albergava nel suo animo.

«No. Non ci sarà... Non intendevo...»

Gil si interruppe per studiarle il viso. Era tornata ad assumere quell'espressione vacua, impossibile da decifrare. Durante il loro primo incontro lei aveva ignorato la sua mano tesa e gli aveva voltato le spalle, quasi fosse stata una nobildonna del rango più elevato. Lui l'aveva giudicata triste, ma forte. Adesso tremava in sua presenza, come un cane che lui avesse preso a calci.

Be', considerato il modo in cui aveva fatto irruzione nella stanza, gridando con quanto fiato aveva in gola, non avrebbe dovuto meravigliarsi. Non era necessario che pensasse che lei era in grado di percepire un mostro celato in lui dopo che si era comportato come un idiota.

Inclinò la testa, in un breve cenno di scusa. «Ero sovreccitato.» Non poteva attribuire alla sua famiglia il terrore di lei. L'errore che aveva commesso era un motivo più che sufficiente. «Ho trascorso la mattinata a cercare il posto migliore per la corte della regina. Fra un paio di giorni sapremo dove dovrete andare.»

«La regina ve ne sarà grata» ribatté Valerie. «Come lo sono io.» Tuttavia, non sollevò lo sguardo.

Lady Katherine lo aveva messo in guardia da pessimi inizi. Doveva evitare di perdere di nuovo le staffe. «Guardatemi.» Un tono più gentile. «Vi prego.»

Stupita, lei alzò la testa, gli occhi enormi nel viso minuto. «Se lo desiderate, in futuro cercherò...»

«Vi è così difficile guardarmi?»

Un timido sorriso. Un lieve rossore sulle guance. «Vi trovo...» Deglutì a stento. «... piacevole da guardare.»

Fu lui adesso a sorridere. Avanzò di un passo.

Lei indietreggiò.

«Non dovete aver paura di me, Valerie.»

Lei sostenne il suo sguardo. «Non ho paura di voi.»

Una bugia coraggiosa. O forse lui si sbagliava e lei era solo circospetta, come un animale pronto a darsi alla fuga se veniva minacciato. «Bene.»

«Vi conosco appena.»

«Nemmeno io vi conosco.» E più tempo trascorreva con lei, più confuso si sentiva. Valerie poteva sfidarlo confidando delle informazioni alla regina, ma a faccia a faccia con lui, era tutta docile sottomissione. «Tuttavia, il Signore della Spagna ha combinato il nostro matrimonio, perciò ritengo che dovremmo... parlare.» Non si erano scambiati che poche parole la sera prima e la conversazione si era accentrata quasi unicamente sulla Castiglia. Una donna doveva aspettarsi di essere corteggiata.

«Come desiderate.»

«Di che cosa parliamo?»

«Siete stato voi a pensare che avremmo dovuto parlare. Ho dato per scontato che aveste qualcosa da dire.»

Quale donna, invitata a parlare, sarebbe rimasta in silenzio? Come faceva Lancaster a indurre a sorridere Lady Katherine? Forse però... Avrebbe avuto il coraggio di rivelarle il suo passato quel giorno? «Mi avete interrogato sulla mia famiglia.»

Valerie inarcò le sopracciglia. «Avete lasciato capire chiaramente che si tratta di un argomento che non desiderate affrontare.»

Gil non percepì la benché minima traccia di sospetto in quelle parole.

«Inoltre» continuò lei, «il Signore della Spagna ci ritiene degni l'uno dell'altro. Non mi occorre sapere altro.»

Sollievo. Un giorno avrebbe dovuto dirle lui stesso la verità, ma non quel giorno. Non finché lei non avesse avuto meno paura di lui.

«Dato che devo diventare vostra moglie, dovrei imparare a compiacervi. Dovete dirmelo quando non lo faccio, come quest'oggi.»

«Che cosa mi piace?» Gil non aveva una risposta da darle. «Sono contento quando riportiamo la vittoria, quando il mio signore loda la mia perizia. E sarò felice quando raggiungeremo la Castiglia.» Aveva immaginato che lei si sarebbe illuminata a quella parola. Non fu così. «Anch'io, però, dovrei sapere che cosa vi piace.»

Valerie alzò il mento. Come se fosse una bambina costretta a esaudire i suoi desideri. «Che cosa vorreste sapere?»

«Non sembravate ansiosa di sposarvi. C'è qualcosa in me che non gradite?»

Valerie scosse la testa, senza alcuna esitazione. «Se ben ricordo, nessuno dei due era ansioso di sposarsi.» Incurvò le labbra in un sorriso che parve canzonarlo. «Dovrei chiedervi se avete delle obiezioni su di me.»

«No! Ovviamente no. Intendevo prendere moglie un giorno, certo. Solo non... adesso.»

«Be', vedete, io sono già stata sposata. Non ritenevo necessario farlo di nuovo.»

Lui conosceva bene poche donne e non si era mai chiesto come trascorrevano le loro giornate, che fossero mogli o vedove. La vita di lei sarebbe stata diversa se non si fosse risposata? «Se vi fosse permesso di rimanere vedova, che cosa fareste?»

«Vivrei nella mia tenuta. Mi occuperei della coltivazione dei campi e delle greggi.»

Un compito tedioso. Un tipo di lavoro che lui era stato ben contento di evitare, diventando un uomo d'arme. «Ma quando avete finito di lavorare, che cosa fate? Vi piace giocare a scacchi?» Poteva darsi che ci fosse qualcosa che le piaceva e avesse temuto che lui non le avrebbe permesso di fare. «O andare a caccia?»

Lei lo fissò al colmo della perplessità. «Che importanza ha? Il tempo in cui noi due staremo insieme lo trascorreremo a letto, non a giocare.»

Che razza di matrimonio era stato quello con Scargill? Lui aveva avuto l'abitudine di tornare a casa, giacere con lei e poi andarsene senza una parola?

Gil si sforzò di ricordare ciò che aveva appreso su Scargill. Indubbiamente, lo aveva visto alzare la voce, e le mani, in preda alla collera. Ma con una donna...?

Si trattava di una cosa che era incapace di immaginare. Tuttavia, se fosse stato vero, avrebbe spiegato la docilità con cui lei si comportava quando era con lui. Accantonò quel pensiero e lo aggiunse alla lista sempre più lunga di cose di cui non voleva parlare.

«Senza dubbio, noi due... ehm, passeremo del tempo fuori dal talamo nuziale.» Ora però che aveva abbordato l'argomento, la prospettiva di giacere con lei gli cancellò ogni altro pensiero dalla mente. Un intenso calore lo pervase. Il suo corpo riprese vita.

Si sforzò di riacquistare l'autocontrollo. «Quindi, che cosa vi piace fare?» Si augurò fervidamente che si trattasse di qualcosa che conosceva. Cecily di Losford aveva rinunciato a persuaderlo ad amare la poesia.

Valerie parve ancora più perplessa. Come se nessuno le avesse mai rivolto quella domanda. Poi rifletté un istante.

«Mi piace coltivare delle cose» ribatté infine.

«Coltivare?» Aveva già parlato dei campi. A che cosa si riferiva adesso? «Delle erbe, per esempio?»

Lei arrossì. «Dei fiori.» Un sorriso. Sognante, involontario. «Mi piace coltivare dei fiori.»

«Fiori.» Quella parola rimase sospesa di fronte a lui come un'arma che non aveva la più pallida idea di come vibrare. In effetti, lei lo aveva interrogato sulle piante della Castiglia e non era stato in grado di risponderle allora. Né lo era adesso. Si schiarì la gola. «E come mai vi piacciono i fiori?»

Sembrava davvero un idiota. Ma al suo interessamento, il sorriso sognante di lei si trasformò in uno gioioso. «Credo che Dio li abbia creati all'unico scopo di rallegrarci. Le rose del mio giardino hanno tante splendide sfumature di rosso e di bianco. E il loro profumo...» Si interruppe per inspirare, come se riuscisse ancora a percepirne il sentore. «Le prime non tarderanno a sbocciare. Se potessi essere presente...»

A un tratto ricordò e la sua gioia si mitigò. «Ma so che non è possibile.»

«Mi dispiace» dichiarò Gil, rimpiangendo il modo brusco in cui l'aveva interrotta la sera prima, quando gli aveva chiesto il permesso di tornare a casa. «Non lo è.» Possiedo un giardino, aveva detto. Che doveva esserle prezioso quanto i ricordi dell'Alcázar lo erano per lui.

Valerie tornò a ostentare il suo doveroso sorriso. «Avete parlato dei giardini dell'Alcázar. Che fiori vi crescono?»

«Non sono un giardiniere, non so come si chiamino, ma non ne ho mai visti di simili.»

«Perdonatemi. È logico che un guerriero non conosca i nomi dei fiori.» Il sorriso che le aleggiava sulle labbra vacillò. «È stata una domanda sciocca.»

Gil le posò una mano sulla spalla, il gesto che avrebbe usato per rassicurare un soldato. «No, non lo è stata.»

Era lui lo sciocco. Finché non aveva visto i cortili piastrellati della Castiglia, aveva considerato i giardini come dei luoghi tetri, nei quali erano sepolti dei sinistri segreti. «Sono stato un uomo troppo vicino alla guerra e troppo lontano da...»

Casa. Purché quel lugubre, malandato castello potesse essere considerato una casa. Tuttavia, quella donna era felice di lavorare la terra, di ricavarne qualcosa di bello. Sarebbe riuscita a farlo anche per una casa? A renderla un posto dal quale lui non avrebbe desiderato fuggire?

Lei annuì, come se il suo tocco l'avesse tranquillizzata. «Lo chiederò alla regina. Lei dovrebbe saperlo. E se non ci sono delle rose, possiamo portarne alcune con noi quando ci recheremo laggiù?»

«Non sarà necessario portare dei ricordi dell'Inghilterra in Castiglia. I nostri giardini saranno pieni di nuove piante.»

Gil le fece scivolare la mano lungo il braccio e si sporse in avanti, come per confortarla.

Lei sbatté le palpebre e dischiuse le labbra.

Ancora un pollice e avrebbe potuto baciarla. Avrebbe potuto assaporare ciò che gli spettava di diritto. C'era uno sbaffo di polvere sul naso di lei e una ciocca di capelli era sfuggita al soggolo, una ciocca castana dai riflessi dorati. Il resto della sua capigliatura restava maledettamente nascosto dal soggolo vedovile, come se continuasse ad appartenere a un altro uomo.

Gil le scostò la ciocca dal viso e le sfiorò la guancia con le labbra, quindi l'attrasse a sé.

Valerie rimase immobile fra le sue braccia prima di bisbigliare: «I servi non tarderanno a tornare».

Naturalmente. Non lì. Non adesso.

Lui la lasciò andare e indietreggiò, allontanandosi dall'attrazione che provava per lei. Che cosa era successo? Aveva fatto irruzione nella stanza, furioso a causa della sua slealtà, poi ogni pensiero gli si era cancellato dalla mente, tranne quello di possederla. Non c'era da stupirsi che preferisse la guerra all'amore. L'esito, e il terreno, erano molto più prevedibili.

Era pericolosa, quella donna. Lui non si riconosceva quando le era vicino. Era simile a un nodo che non era in grado di sciogliere e ogni volta in cui tentava di farlo, si ritrovava più irretito di prima.

Aveva sprecato del tempo prezioso in quella stanza quando avrebbe dovuto pianificare una guerra. «È troppo presto per pensare ai fiori» osservò, abbassando lo sguardo su di lei, la fronte aggrottata nel consueto fiero cipiglio. «Se non riconquistiamo il trono, non vedremo mai i giardini della Castiglia.»

Valerie si trasformò ancora una volta nella donna mesta e sottomessa. «Naturalmente, mio signore. Voglio dire, Gil.»

Pronunciava il suo nome meccanicamente. Lui desiderò che non lo chiamasse mai in un altro modo. «E accertatevi che la regina sia pronta a mettersi in viaggio alla fine della settimana.»

«Mi ha chiesto di accompagnarla insieme alle altre dame di corte. Posso avere il vostro permesso di farlo?»

Lancaster non aveva stabilito la data del loro sposalizio. Nel frattempo, era preferibile che restassero separati. In tal modo, lui non si sarebbe lasciato sfuggire altri segreti. E a Hertford, lei sarebbe stata a prudente distanza dalla corte inglese e non avrebbe potuto udire le chiacchiere sul passato dei Brewen. «Sì. Certamente.»

Come Valerie aveva previsto, i servi ritornarono, consentendogli di svignarsela, più confuso di quando era arrivato.

Non comprendeva affatto quella donna. Come se non bastasse, non comprendeva se stesso quando era con lei.

E perciò mentre gli uomini si preparavano a difendere la costa, Valerie, con dozzine di bauli, le castigliane e la gabbia della gazza, si trasferì a Hertford Castle, abbastanza lontano da Londra per evitare che, se fosse accaduto l'impensabile, la Regina di Castiglia venisse a trovarsi in pericolo.

Anche se gli inviò un messaggio, non rivide Gil prima della partenza. La notizia che riguardava la flotta franco-castigliana era ormai diventata di dominio pubblico, e voci allarmate di una guerra imminente serpeggiavano in tutta la corte.

Il trasferimento era stato destinato a consentire alle castigliane di vivere con un senso di pace e di sicurezza. Valerie, che aveva ritrovato un giardino, era l'unica a provarlo. Riusciva a rubare un certo tempo alle sue mansioni per stare sola e vedere i gigli emergere dal terreno giorno dopo giorno.

La regina, ingrossata dalla gravidanza, trascorreva più tempo del solito in preghiera, senza dubbio per chiedere a Dio di proteggere lei e il suo bambino non ancora nato dai rischi del parto, oltre che dalle spade nemiche. E a giudicare dal terrore che incrinava la voce delle sue dame, era facile arguire che azzardavano congetture su ciò che sarebbe accaduto se il pretendente al trono fosse approdato e avesse scoperto il loro nascondiglio.

A Hertford erano ancora più isolate di quanto lo fossero state al Savoy. Dal momento che Londra si trovava a due giorni di distanza da lì, ricevevano le notizie dai preti che viaggiavano regolarmente fra la corte inglese e la residenza di campagna. Valerie non era affatto sicura che riferissero la verità.

Anche Katherine si recava regolarmente a Londra e faceva dei resoconti che lei riteneva più affidabili, dato che provenivano dal duca in persona. Lo scopo dei viaggi di Katherine era quello, le aveva spiegato, di consultare Lancaster sull'educazione dei suoi figli. Esisteva un altro, più personale motivo che la induceva a intraprendere quel viaggio così spesso? Valerie stava cominciando a chiederselo. Poiché quando tornava a Hertford, Katherine trascorreva la maggior parte delle giornate con i figli della prima moglie di John e con i propri, non con la regina.

Sia lei, che Costanza lo preferivano.

E se, come Valerie sospettava, ciascuna delle due occupava un posto separato nell'esistenza del duca, non era che quello che ogni moglie, o amante, poteva aspettarsi.

Una sera di maggio, mentre l'azzurro del cielo sfumava in una tenue tonalità rosata, Valerie e la regina stavano tentando ancora una volta di insegnarsi delle parole a vicenda. Si udivano delle risatine sommesse da parte delle dame ogni qualvolta una delle due diceva qualcosa di giusto o di sbagliato. Speravano di non restare a lungo in Inghilterra. L'Inghilterra era fredda e fea, la Castiglia era calda e hermosa.

Poi la regina zittì tutte quante e chiese alla sua cantante preferita di intonare una ballata del suo paese.

Benché Valerie non vi fosse mai stata, la musica emozionò anche lei. Se fosse riuscita a imparare la lingua, se i giardini fossero stati splendidi come aveva promesso Gil, sarebbe stata in grado di trovare la pace in Castiglia? O, un anno più tardi, anche lei avrebbe udito delle canzoni inglesi e sarebbe stata assalita dalla nostalgia come quelle donne?

Costanza giaceva immobile, con gli occhi chiusi, e il dolore di cui si era lagnata parve mitigarsi grazie alla melodia. Forse le aveva ricordato la sua casa, la sua infanzia, un'epoca in cui si era sentita al sicuro. Si era addormentata? Anche se era difficile capirlo, sembrava godere di un momento di serenità.

A un tratto, il suo viso si contrasse. Si afferrò l'addome e gemette: «Mi niño...».

La ballata si interruppe. Le dame castigliane la circondarono, voltando le spalle a Valerie.

Lei si alzò, incerta sul da farsi. Non aveva mai dato alla luce un figlio, ignorava che cosa sarebbe successo. Il bambino sarebbe nato immediatamente? La levatrice era stata chiamata ad assistere una partoriente a mezza giornata di distanza da Hertford. Ma Katherine era presente. Aveva avuto tre figli e serviva la moglie del duca.

«Vado a chiamare Lady Katherine» gridò, augurandosi che Costanza la udisse e capisse.

Una risposta soffocata. La regina aveva protestato? Era difficile afferrare le parole al di sopra delle grida, dei bisbigli e del cicaleccio della gazza.

Valerie attraversò le sale di corsa finché non raggiunse l'appartamento che Katherine occupava con i suoi figli e vi irruppe senza bussare.

«La regina. Sta soffrendo. Il bambino...»

Katherine si alzò e, senza una parola, uscì nel corridoio. Lei la seguì. Quando però entrarono nella camera da letto della regina, le dame si volsero a guardarle, ma non si spostarono.

«Lasciate che le dia un'occhiata» dichiarò Katherine.

Avanzò verso il letto, costringendole a separarsi. Valerie rimase nei pressi, augurandosi che nell'imminenza del parto, il Signore capisse quanto anche lei desiderava un bambino. Di conseguenza, era abbastanza vicina da scorgere il lampo che saettò negli occhi di Costanza. Non era soltanto dolore. Era odio? Anche la regina sospettava che Katherine e suo marito...?

La Reina trasse un respiro, poi un altro. Le dame si scambiarono delle occhiate nervose.

Katherine le prese la mano, la strinse un istante, poi le posò un panno bagnato sulla fronte. «Riposate adesso. Il bambino non arriverà per il momento.» Un sorriso. Un tono pacato. Sufficiente per indurre la regina a chiudere gli occhi.

Solo quando lasciarono la stanza, Valerie scorse l'espressione senza veli di Katherine. Il sorriso rassicurante che aveva rivolto alla regina era scomparso.

«Siete certa che il bambino non arriverà adesso?» bisbigliò.

«Non posso averne la certezza, ma dovrebbe nascere in giugno, tra più di un mese.»

Non era necessario chiederle come facesse a sapere con tanta precisione quando l'erede doveva venire al mondo. «Ma non potrebbe nascere prima? E se arrivasse troppo presto...» Perfino lei era a conoscenza dei rischi che avrebbe comportato.

Katherine le toccò il braccio. «Andate a Londra. Chiedete a John di mandare la levatrice che ha assistito Lady Blanche. Sono convinta che ne avremo bisogno.»

«E voi?» domandò Valerie, meravigliandosi che non si recasse lei stessa da John.

«Devo restare qui per prestare il mio aiuto.»

Una decisione assennata, dato che lei non sarebbe stata di alcuna utilità. «Mi metterò in viaggio alle prime luci dell'alba.»

Katherine assentì, le labbra increspate che tradivano la sua preoccupazione.

Valerie le posò la mano sul braccio in un gesto di conforto. «Se avete un messaggio personale, qualcosa che desiderate che riferisca al Signore della Spagna...»

Katherine trasalì, sbattendo le palpebre.

I suoi sospetti erano stati infondati? Valerie si morse la lingua, temendo di aver detto troppo.

Poi Katherine si guardò intorno per accertarsi che nessuno la udisse e abbassò la voce. «Vi prego di dirgli che farò tutto il possibile per la regina. E che mi prenderò cura del bambino come se fosse mio.»

Dunque c'era qualcosa di più profondo del piacere fra lei e Lancaster. Qualcosa che le consentiva di servire la regina perché, così facendo, poteva servire lui.

«Gli trasmetterò il vostro messaggio.»

Il viso di Katherine si addolcì, scorgendo un'amica che conosceva la verità e non la giudicava.

E Valerie vide davanti a sé tutto ciò che aveva appreso sull'amore e sul matrimonio. Il dovere nel matrimonio. La passione al di là di quello. Erano delle strane alleate, Costanza e Katherine, moglie e amante, unite nella loro lealtà allo stesso uomo, ciascuna che celava il proprio dolore. E lei costituiva un ponte fra loro.

Quel pensiero le ricordò tutti i motivi per cui aveva sperato di non risposarsi. Nondimeno, provò una strana invidia per Katherine e perfino per il suo defunto marito. Entrambi avevano sperimentato la passione che lei non avrebbe mai conosciuto.

E Gil? Mentre lei sarebbe stata la moglie obbediente, quale donna si sarebbe guadagnata il suo amore? Una con i capelli biondi e gli occhi azzurri, senza dubbio. Lei non possedeva nessuna delle due caratteristiche, come Scargill le aveva rammentato con assillante frequenza. I suoi capelli, se non altro, era in grado di nasconderli.

Abbracciò Katherine. «Andrò io stessa a prendere la levatrice e la porterò qui a tutta la velocità possibile.»

Una promessa. A entrambe le donne.

Due giorni più tardi, di nuovo nel palazzo di Lancaster, Valerie attese che il paggio l'annunciasse, quindi varcò la soglia, continuando a ripetersi mentalmente le parole che Katherine le aveva chiesto di riferire al duca.

Tuttavia, fu Gil a incontrare per primo il suo sguardo. Un'espressione sbalordita gli si dipinse sul viso.

Vi è così difficile guardarmi?, le aveva chiesto. In realtà, lei amava posare gli occhi su di lui. Il ciuffo di capelli scuri che gli ricadeva sulla fronte, le folte sopracciglia che sormontavano gli occhi di un pallido azzurro, simile a un cielo invernale.

Le poche, magiche occasioni in cui lo aveva visto sorridere, era come se lui fosse a conoscenza di un segreto e se lei si fosse limitata a seguirlo, perfino in Castiglia, sarebbe riuscita a sua volta a scoprire una terra meravigliosa.

Quel giorno non stava sorridendo. Appariva chiaro che non si era aspettato di rivederla né lo aveva desiderato.

«Che cosa c'è?» La voce di Lancaster la fece sobbalzare. Aveva dimenticato di non essere sola con Gil. «Lady Katherine? La regina?»

Ovvio che avesse chiesto prima di Katherine.

Lei si abbassò in una riverenza. «Stavano entrambe bene quando sono partita, ma la regina ha passato un momento non facile. Lady Katherine teme che il bambino possa nascere prima del tempo. Benché ci sia una levatrice a Hartford, lei vi prega di mandare a chiamare Elyot.»

Per un istante, il viso di lui assunse un'espressione atterrita.

«Chi è Elyot?» domandò Gil.

«La levatrice. Ha assistito Lady Blanche più di una volta.» Si percepiva ancora angoscia nella voce del duca quando nominava la sua defunta moglie.

«Sapete dove trovarla, Vostra Grazia?» domandò.

«A Leicester.» Lancaster si rivolse a Gil. «Andate. Conducetela a Hertford.»

Ogni volta in cui Valerie aveva menzionato la sua casa, lui aveva opposto resistenza. Quel giorno non fece eccezione. «Ci sono ancora dei preparativi da fare prima che la spedizione possa salpare. Dovrei restare qui per...»

«No. Il mio erede è più importante.» Il duca fece una pausa. «Inoltre, questo viaggio vi consentirà di visitare le vostre terre. So che le avete... trascurate per servirmi.»

Dunque, non era solo a lei che Gil non desiderava parlare della sua tenuta e della sua famiglia. Dava l'impressione di non voler avere nulla a che fare con esse. Ma se a lei poteva opporre un rifiuto, non poteva opporlo al suo signore. «Condurrò quella donna a Hertford. E sarò di ritorno entro una settimana.»

Il duca portò lo sguardo su Valerie. «Abbiamo il tempo sufficiente?»

Giugno, aveva detto Katherine. Mancavano ancora diverse settimane. «Credo di sì, ma dovremmo condurre la levatrice al capezzale della regina il più presto possibile.»

Il duca annuì e si rivolse di nuovo a Gil. «Una breve visita. Avrete il tempo di impartire delle istruzioni al vostro castaldo mentre la donna si prepara a mettersi in viaggio.»

Poi ripresero a parlare di velieri, porti, uomini e ambasciatori, e soprattutto di piani. Anche se non riuscì a seguirli tutti, Valerie ebbe l'impressione che la spedizione sarebbe salpata per La Rochelle entro alcune settimane. Intendevano battersi contro la flotta nemica lungo la strada? Non avrebbe potuto giurarlo.

Tuttavia udì chiaramente l'ultima frase, ossia che Gil avrebbe assunto il comando dell'invasione della Castiglia. Molto presto, forse perfino il mese successivo.

Distolse lo sguardo, fingendo di non ascoltare. La regina avrebbe gradito quella notizia, sebbene l'ultima volta in cui lei l'aveva informata del pericolo di una guerra, era incorsa nelle ire di Gil e del duca.

Questa volta, però, Gil portò su di lei uno sguardo dal quale non trapelava che orgoglio, poi lo spostò sul Signore della Spagna.

«La regina dovrebbe venire a conoscenza dei nostri piani.»

Lancaster agitò la mano in un gesto noncurante. «Le manderò un messaggio.»

«Lady Valerie potrà portarle il vostro messaggio» propose Gil. «Io mi metterò in viaggio alle prime luci dell'alba per andare a prendere la levatrice.»

«No!» proruppe lei prima di poterselo impedire. «Non senza di me.»

I due uomini la fissarono in silenzio, Lancaster al colmo dell'incredulità.

La collera oscurava il viso di Gil. «Devo viaggiare rapidamente. Lei mi costringerebbe a procedere più adagio.»

Valerie raddrizzò le spalle. Non era ancora sua moglie. E aveva fatto una promessa. «Non sono venuta qui in una portantina, mio signore. Datemi un cavallo veloce e sarò pronta a partire immediatamente.»

Gil protestò. «Mio signore, non voglio, cioè...»

Non voleva che lei vedesse la sua casa, ne era certa. Tuttavia, aveva promesso a Katherine che avrebbe portato lei stessa la levatrice. Era l'unica cosa che potesse fare per lei e per la regina. Doveva mantenere quella promessa.

Si erse in tutta la persona e affrontò il duca. «Potrò informare Elyot delle condizioni della regina durante il viaggio, in modo che sia in grado di agire senza indugi appena giungeremo a Hertford.»

La fronte del duca si spianò. «Deve essere fatto tutto il possibile per provvedere all'incolumità di mio figlio.»

«E della regina» aggiunse lei a bassa voce. Sembrava che lei e Katherine fossero le sole a preoccuparsi per Costanza.

«Quando torneremo in Castiglia» continuò Lancaster, «dobbiamo dimostrare al suo popolo che la successione è assicurata. Non devono sorgere problemi.»

Anche se non protestò più, Gil le scoccò un'occhiata severa. «Dobbiamo percorrere venti miglia al giorno.»

«Non sono inferma, mio signore» ribatté Valerie, benché le dolessero le gambe alla prospettiva di stare in sella per un'altra settimana. «Tuttavia, mi occorre un altro cavallo. Ho percorso il tragitto da Hertford a Londra in meno di due giorni. Il cavallo ha bisogno di riposare.»

Gil si accigliò. Si trattava di un viaggio di circa trenta miglia, il che dimostrava che lei non lo avrebbe costretto a rallentare. «Sarà tutto pronto.»

Lei si abbassò in una riverenza di fronte al duca.

«E, Lady Valerie...»

«Sì, mio signore?»

«Quando la vedrete, porgete a Lady Katherine i miei più sentiti ringraziamenti.»

«Lei mi ha pregata di riferirvi...» Deglutì a stento. «... che farà tutto quello che è in suo potere per la regina. E che si prenderà cura del bambino come se fosse suo.»

E se prima lei non aveva nutrito che dei sospetti, adesso vide la verità scritta a chiare lettere sul viso di Lancaster, dato che a quelle parole lui cessò di essere un re per diventare solo John, un uomo che avrebbe potuto essere il padre del figlio successivo di Katherine.

Si volse verso Gil in cerca di aiuto e ricevette la conferma definitiva di tutto ciò che aveva sospettato.

«E i vostri ossequi anche alla regina» si affrettò ad aggiungere lui.

«Sì, sì» ribatté il duca in tono spazientito. «Anche alla regina.»

Anche se il duca avrebbe dovuto ricordarsi della moglie, Gil si era espresso come se avesse immaginato che lui tenesse a Costanza quanto teneva alla sua amante. Non era una cosa che una moglie avrebbe dovuto aspettarsi. E nemmeno sperare.

Quando Gil riportò lo sguardo su di lei, ogni traccia di tenerezza si era cancellata dal suo viso. «Siate pronta all'alba» le ingiunse bruscamente.